Libri > Twilight
Segui la storia  |       
Autore: SognoDiUnaNotteDiMezzaEstate    18/06/2012    8 recensioni
Era quello che volevo, no? L’occasione giusta per mandare tutto all’aria e concedermi del tempo per me.
Avevo immaginato di mandare al diavolo il mio lavoro e la mia coinquilina tante di quelle volte che nemmeno ricordavo quando la mia insofferenza nei loro confronti fosse iniziata. Quello che non avevo immaginato, però, era di non intraprendere quel viaggio da sola; e che ad accompagnarmi sarebbe stata una delle persone da cui cercavo disperatamente di fuggire in quel momento: Edward Cullen.
Genere: Avventura, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Coppie: Bella/Edward
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun libro/film
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Route 66

You make me feel like I'm living a teenage dream
The way you turn me on, I can't sleep
Let's runaway and don't ever look back
Don't ever look back

My heart stops when you look at me
Just one touch, now baby I believe
This is real, so take a chance
And don't ever look back, don't ever look back

Katy Perry - Teenage Dream

17. What should I do?

Fino a pochi giorni prima non avrei mai pensato che mi sarei ritrovata nuovamente in quella situazione con Edward. Credevo che sì, stavamo facendo progressi come amici, ma fino a quando non l’avevo baciato alle cascate Havasupai non avevo realizzato quanto detestassi quel termine per definire la nostra relazione. Noi non eravamo mai stati amici, come avremmo fatto ad iniziare ad esserlo proprio allora, con tutto il bagaglio di esperienze di coppia che ci portavamo sulle spalle? Conoscevamo un solo modo per stare insieme, e avevamo pienamente dimostrato di non essere in grado di concepirne altri. L’unica soluzione sarebbe stata dividerci come era successo l’anno prima, ma entrambi avevamo provato sulla nostra pelle ciò che esso comportava. Meritavamo un’altra occasione per far funzionare le cose, sia io che Edward; eravamo cambiati, e forse questa volta saremmo riusciti a non rovinare tutto - o almeno speravo che le cose sarebbero andate per il meglio anche una volta tornati a Chicago, dove il lavoro, la famiglia e gli amici ci aspettavano.

Sebbene fossi contenta di come le cose stessero lentamente tornando alla normalità fra di noi, non mi ero per niente aspettata la piega che assunsero la sera precedente, una volta tornati in camera. Sul momento non avevo avuto modo di riflettere razionalmente su ciò che stava accadendo, non con le mani di Edward che si muovevano così abilmente sotto i miei vestiti, sfilandoli e accarezzando sempre più pelle; ma quando aprii gli occhi il mattino seguente, trovandomi coperta solo dal lenzuolo e dalle braccia di Edward, con lui ancora profondamente addormentato alle mie spalle e i ricordi della notte ancora ben impressi nella mia mente, potei riflettere più chiaramente su ciò che avevamo appena fatto e ciò che poteva comportare.

Non avevo rimpianti della notte precedente, ma al tempo stesso non ero nemmeno certa che lasciarsi trasportare dopo appena tre giorni che ci eravamo ritrovati fosse stata la scelta più saggia per la nostra relazione.

Mi girai nell’abbraccio di Edward, muovendomi piano per non svegliarlo, fino a ritrovarmi con il viso a una spanna dal suo e il suo respiro che mi accarezzava gentilmente. Il volto era rilassato, ancora completamente immerso nel sonno, le rughe di apprensione e concentrazione che gli piegavano la fronte durante la veglia erano scomparse, e sembrava più di giovane di quasi dieci anni. Un’ombra di barba chiara gli copriva le guance e il mento, mentre i capelli erano spettinati e ricadevano in ciocche sulla fronte. Passai una mano sul suo viso, sfiorando con i polpastrelli le ombre leggermente scure sotto i suoi occhi e la morbidezza delle sue labbra, che si schiusero appena, lasciando passare un lieve sospiro.

Un sorriso spuntò sul mio viso, mentre i dubbi che mi avevano assillata appena sveglia svanivano solo guardando l’espressione rilassata di Edward, che iniziava a risvegliarsi.

Le palpebre si sollevarono, e i suoi occhi verdi, ancora offuscati dal sonno, incontrarono i miei.

«Ehy», sussurrai, sorridendo.

Piegò la testa in avanti, poggiando la fronte contro la mia. «Ehy», ripeté, con un sorriso rilassato. Le sue labbra sfiorarono le mie, senza fretta.

Sentii le sue mani scivolare su e giù per la mia schiena, pigre e delicate. Con le dita accarezzai il suo collo, scendendo fino alle spalle ampie e muscolose; il suo corpo era familiare ma al tempo stesso diverso, grazie alla box che aveva reso i muscoli delle braccia e del busto più sodi e tonici.

Con un braccio mi attirò a sé, facendomi aderire contro di lui. Sentii il suo bacino premere contro il mio, e la sua erezione crescere contro la coscia. Gemetti contro la sua bocca, e con una leggera spinta da parte sua mi rotolai sulla schiena, stringendo le braccia intorno al suo torace e intrecciando le gambe alle sue.

Vidi il suo sorriso malizioso prima che scendesse a baciarmi il collo, e risi leggermente. «Non dovremmo ripartire?», gli chiesi, non ricordando a che ora bisognava lasciare la stanza, ed essendo preoccupata che qualche cameriera potesse venire a bussare alla camera da un momento all’altro, essendo già le dieci di mattina. Quel giorno avremmo ripreso il viaggio lungo la Route 66, lasciandoci Las Vegas e le sue stranezze alle spalle.

«Abbiamo tempo fino all’una per liberare la stanza», mormorò Edward contro il mio collo, sorridendo. Alzò il capo, scacciando dal mio viso una ciocca di capelli. «Abbiamo tutto il tempo che vogliamo».

Ripresi a baciarlo, fidandomi delle sue parole. Dopo pochi secondi, però, fu lui ad allontanarsi leggermente, con la fronte aggrotta. «Però dovremo attraversare il deserto per arrivare in California», ragionò, facendomi sprofondare nuovamente con testa nel cuscino. «Forse è meglio se partiamo prima di pranzo».

«Okay», dissi, confusa da quell’improvviso cambio di programma. «Quindi ci prepariamo?»

La sua mano scivolò lungo il mio braccio, lentamente, su e giù, accarezzando la pelle con i polpastrelli. «Mmm», mugugnò, scostando con l’altra mano altre ciocche di capelli dal mio viso e facendole ricadere sul cuscino con le altre. «Nella tua preparazione è compresa anche la doccia?»

Mi morsi il labbro per trattenere il sorriso divertito che apparve sul mio viso quando colsi l’occhiata maliziosa di Edward. «È possibile», risposi semplicemente, stringendo le braccia intorno al suo collo.

«Allora immagino che dovremo trovare una soluzione per riuscire a farla tutti e due prima di partire», continuò, con quel sorriso tentatore che ben ricordavo stampato in viso, «perché non credo che avremo tutto quel tempo».

«Potresti farmi compagnia sotto la doccia. Credi che riusciremmo a stare nei tempi così?», sussurrai con tono fintamente innocente.

Il suo sorriso sghembo mi fece rabbrividire. «Tentar non nuoce», mormorò maliziosamente, prima di stringere le braccia intorno alla mia vita e portarmi in braccio in bagno.

 

Se da una parte lasciare Las Vegas fu un sollievo - non ne potevo più del caldo asfissiante del deserto del Nevada, ed ero sicura che un altro giorno passato per i casinò sarebbe risultato abbastanza noioso - dall’altra provai un vago senso di dispiacere, per tutti i ricordi che quella città avrebbe sempre racchiuso nel suo nome. In quel luogo io ed Edward ci eravamo quasi sposati ed avevamo portato la nostra relazione a un altro livello, avvicinandoci ancora di più. Ma soprattutto lì Edward si era aperto con me, confidandomi i fatti del periodo dopo che ci eravamo lasciati, parlandomi di Lizzy.

Rimettere piede a bordo del furgoncino di Jacob fu come fare un salto nel passato. Non sembravano passati solo tre giorni da quando eravamo giunti a Las Vegas, ma quasi una settimana.

Il viaggio di ritorno a Kingman, dove avevamo abbandonato la Route 66, durò due ore, e raggiungemmo la città mentre il sole picchiava nel cielo di mezzogiorno. Ci fermammo per pranzare al locale dove ci eravamo fermati all’andata, poi ci rimettemmo in marcia attraverso le città fantasma del confine dell’Arizona, fino ad arrivare al ponte che attraversava il fiume Colorado, trasportandoci dritti in California.

Edward ed io non parlammo molto, per lo meno non a voce. Ci scambiavamo continue occhiate che dicevano molto di più di tutte le parole non dette, e quasi tutte urlavano una cosa sola: sesso. Il caldo non aiutava a calmare i bollenti spiriti che sembravano essersi impossessati di noi, e dovetti ringraziare ancora mentalmente Jacob e l’aria condizionata del furgoncino, che in quel momento sembravano l’unica cosa dal trattenermi dallo scivolare sul sedile accanto ad Edward per fargli fermare immediatamente la macchina al bordo strada. Soprattutto, non era facile mantenere il sangue freddo mentre i suoi pantaloni facevano poco e niente per nascondere l’erezione che nel giro di poco tempo era tornata a fare capolino nel suo bassoventre. Mentre imprecava ridacchiai leggermente, pensando che era come se fossimo tornati all’improvviso degli adolescenti in preda agli ormoni, con un unico tarlo in mente.

Arrivammo a Gaggett alle quattro del pomeriggio, con il sole che picchiava forte dal cielo azzurrissimo e il deserto che ancora ci circondava. In quella zona le uniche forme di vita che si incontravano erano i saguari che spiccavano come uomini dalla terra arida, e - se si era fortunati - qualche benzinaio ogni centinaio di miglia. Se non avessimo fatto il pieno di benzina prima di lasciare Kingman mi sarei fatta prendere dal panico per la sporadicità dei distributori che c’erano lungo la strada. Svoltammo a destra, prendendo una breve deviazione per raggiungere la città di Calico, a soli cinque minuti di distanza, dove finalmente avremmo fatto una sosta turistica.

Calico era una delle più famose Ghost Town della California: era una piccola cittadina risalente alla seconda metà dell’Ottocento, messa in piedi da un ristretto gruppo di persone dopo la scoperta di una miniera di argento sotto le colline sabbiose. Le strutture dell’unica via principale che attraversava la città erano in legno, con patii e vecchi bastoni conficcati nel terreno dove legare i cavalli. C’erano un saloon, una scuola, l’ufficio dello sceriffo con annessa prigione e caserma dei pompieri. I turisti erano tanti, e girando per le strade incontrammo diverse persone - attori - vestiti in costumi d’epoca, fino a ritrovarci nel bel mezzo di una finta sparatoria fra uno sceriffo e un ladro al centro della strada. Prima che chiudesse, andammo a fare un giro della miniera, seguito da quello a bordo di un piccolo trenino aperto che passava sulle colline dietro la città, mostrando il panorama desolato che circondava Calico. L’aria fresca che soffiava fu un toccasana dopo tutta l’afa californiana, e lasciai andare la testa sulla spalla di Edward, tenendo gli occhi socchiusi. Il suo braccio mi circondò le spalle, tenendomi stretta a lui.

«Penso che domani arriveremo a Santa Monica», lo sentii sussurrare, mentre con le dita giocava con i miei capelli.

Mi irrigidii leggermente, riflettendo su ciò che le sue parole volevano dire: il nostro viaggio stava per giungere al termine. Non ero sicura che fosse quello che volevo veramente. Se da una parte non vedevo l’ora di tornare a casa per riabbracciare Rosalie ed Alice - che sebbene cercassi di non pensarci mi mancavano da morire - dall’altra avevo paura che ritornare a casa significasse anche tornare alla mia vita di appena due settimane fa. Io avrei dovuto tornare alla ricerca di un lavoro che mi consentisse di pagare ancora l’affitto, parlare con Jessica e discutere con lei di Mike, ed Edward avrebbe dovuto affrontare i fantasmi del suo passato all’ospedale e decidere cosa fare del suo lavoro. Quanto avrebbe inciso tutto il fardello di compiti che ci aspettavano sulla nostra relazione? Sapevo che sarebbe cambiato tutto, che non potevamo pretendere di essere una coppietta in luna di miele anche a Chicago; avremmo dovuto ritornare alle nostre vite lavorative oltre che sentimentali. Un conto era stare insieme tutto il giorno, con come unico problema come dividerci le spese, un altro era quello di lasciare a ognuno il proprio spazio per riniziare la vita di coppia adulta.

Edward colse la mia improvvisa tensione, perché la sua stretta intorno alle mie spalle aumentò. «Non è ancora finito il viaggio, Bella», mi rassicurò, con la bocca vicino al mio orecchio per sovrastare il rumore del treno che proseguiva il suo giro senza farsi sentire dal resto della gente nei sedili davanti e dietro di noi. «Dobbiamo ancora tornare indietro».

«Lo so», mormorai. «Ma prima o poi dovremo tornare a casa».

Lui sospirò e non disse niente. Cosa avrebbe potuto dire, d’altronde? Sapeva che quella era la verità, e addolcire la pillola non sarebbe servito a nulla, se non a rendere il ritorno ancora più traumatico quando sarebbe arrivato. E il fatto che non commentasse ulteriormente mi dava la conferma che anche lui sapeva bene che tornare a casa significava abbandonare l’idillio in cui stavamo vivendo, oppure non voleva iniziare un discorso simile in mezzo a tutta quella gente.

Finito il giro con il treno tornammo in centro città, entrando nell’unico pub per bere qualcosa prima di ripartire. Era un saloon dei vecchi tempi, evidentemente ristrutturato ma con ancora vecchie decorazioni e arredi da pub sistemati su patii di legno vecchio e cigolante, lontani dalla zona affollata solitamente dai clienti. C’erano boa di struzzo e cappotti di feltro che pendevano dai ganci vicino alle ante dell’ingresso, animali imbalsamati fissati sulle pareti, quasi completamente ricoperte da diversi tipi di cappelli da cowboy dall’aria vecchia e consumata. In un angolo c’erano chitarre, tamburi indiani e altri strumenti musicali tra cui un piano da muro. Il pavimento era costellato di bucce di arachidi, che i clienti gettavano a terra man mano che mangiavano, e mi ricordò un locale in stile far-west che c’era a Chicago. Quello del bancone era l’unica zona che spiccava per la sua modernità, con le macchine per le bibite alla spina e la collezione di bottiglie di alcolici disposte sulle mensole contro il muro. Le cameriere erano vestite con abitini pieni di fronzoli e calze a rete, un rossetto rosso acceso a colorarle le labbra e una forte passata di ombretto e mascara ad annerirle gli occhi. L’unico uomo nel saloon era vestito da sceriffo, e qualcosa, dal modo in cui si muoveva fra i tavoli colloquiando con i clienti, mi diceva che oltre ad essere un intrattenitore era anche il proprietario del locale.

Edward ed io ci accomodammo accanto ad un patio rialzato, su cui era disposto un tavolo di legno su cui c’erano dei soldi finti, un mazzo di carte da gioco e una bottiglia di Jack Daniel’s vuota. Pensai fosse un arredo scenico per mostrare quale dovesse essere lo spettacolo più comune da trovare in un saloon verso la fine dell’Ottocento ma quello che non mi aspettavo era di venire trascinata con Edward ad esso dallo sceriffo. Dapprima non avevamo capito cosa voleva da noi quell’uomo. Era arrivato al nostro tavolo con un’aria severa che mi fece venire il dubbio di aver fatto qualcosa di inappropriato per quel luogo e la mia paura aumentò ancora di più quando ci convinse ad alzarci per seguirlo. Ci portò al tavolo sul patio, e mi avvolse intorno al collo un boa di struzzo rosa fluo, mentre fece indossare ad Edward un cappotto di feltro con tanto di cappello da cowboy; poi gli diede in mano fucile - che dall’aspetto sia luccicante che arrugginito dubitavo fosse un semplice giocattolo. Ci fece accomodare sulle sedie e ci passò quattro carte da gioco a testa, aperte a ventaglio. Non capii cosa aveva in mente fino a quando non mi chiese di passargli la mia macchina fotografica, che avevo appesa al collo.

Edward rise più rilassato, mentre lo sceriffo si allontanava per scattare la foto. «Per un momento ho pensato che stesse per cacciarci fuori», mormorò, attento a non farsi sentire dall’uomo.

«Non dirlo a me», risi, sollevata. «Credevo di aver infranto qualche regola di buona educazione dei cowboy».

Scattammo una foto anche con lo sceriffo, poi ci aiutò a disfarci dei costumi. Quando tornammo al tavolo guardammo le foto, scoppiando a ridere davanti alle nostre facce confuse e divertite dalla situazione. Scattai una foto con il cellulare allo schermo della macchina fotografica che ritraeva me ed Edward vestiti da cowboy e lady del far west e la inviai ad Alice e Rosalie, con un piccolo commento per chiedere la loro opinione. Era raro che inviassi fotografie alle mie amiche, ma vista l’occasione particolare non vedevo l’ora di leggere le loro reazioni e commenti a quell’immagine particolare. Lasciai il cellulare sul tavolo, in attesa di un loro messaggio, e intanto andai in bagno, tornando dopo pochi minuti e trovando Edward con il mio cellulare in mano.

«Hanno risposto?», gli chiesi, correndo a sedermi accanto a lui.

Edward fece un piccolo sorriso, e mi passò il telefono. C’era un messaggio da parte di Alice, che commentava dicendo che il colore del boa di struzzo non si intonava per niente alla canotta che indossavo, e che anche con la risoluzione orribile della fotografia del cellulare riusciva a vedere benissimo che sia io che Edward avevamo le occhiaie dovute alle ore piccole della notte precedente. Sbuffai imbarazzata, mormorando un “sempre la solita” e richiudendo il cellulare, ripromettendomi di risponderle più tardi.

«Andiamo?», mi chiese Edward, che aveva già pagato il conto.

Annuii, alzandomi in piedi e seguendolo fuori dal saloon, nuovamente nel caldo torrido del deserto. I turisti iniziavano a diminuire, e la città si avvicinava all’orario di chiusura. Lasciammo alle nostre spalle Calico, riprendendo il viaggio a velocità sostenuta, il che mi ricordò i primi giorni dopo la nostra partenza da Chicago, quando Edward - senza che io lo sapessi chiaramente - stava cercando di mettere più spazio possibile fra lui e l’ospedale e tutti coloro che conosceva - a parte me.

«Edward», lo chiamai dopo qualche minuto, vedendo che non rallentava, «perché stiamo correndo?»

Vidi la lancetta del contatore scendere di qualche miglia, ma non abbastanza. «Pensavo di attraversare la zona desertica in fretta. Non c’è nulla da vedere qui, o sbaglio?», chiese, con un tono di voce incurante.

«No», risposi, confusa da quel ragionamento, «però…»

«Però, cosa?», mi spronò, vedendo che non continuavo. Sembrava nervoso, agitato, e non capivo perché.

«Quando avevi detto che pensavi di arrivare domani a Los Angeles non avevo capito che intendevi questa notte», commentai, cercando di usare un tono volutamente scherzoso. «Come mai hai tutta questa fretta?»

«Non ho nessuna fretta», ribatté, lanciandomi un’occhiata accigliata.

«Allora mi spieghi perché dopo aver fatto più di trecento miglia in mezzo al deserto con calma hai deciso all’improvviso di voler attraversare l’ultimo pezzo in fretta?», gli chiesi, iniziando a sentirmi irritata dal suo comportamento. Stava nascondendo qualcosa, potevo sentirlo.

Edward respirò profondamente, imponendosi di mantenere la calma. Non diminuì la velocità. «Te l’ho spiegato, Bella, e ti sei data la risposta da sola. Dopo più di trecento miglia mi sono stancato del deserto. Vorrei rivedere la civiltà prima di fermarmi per la notte».

«Come se la civiltà fosse un requisito indispensabile per te. Sei stato disposto a dormire in mezzo a un bosco una notte piuttosto che dormire in auto, dubito che sia questo il motivo per cui stai praticamente correndo in braccio a Los Angeles», rimbeccai, con un sopracciglio inarcato, sentendo che stavo per alterarmi.

Lui non rispose, ma diversi minuti dopo, all’improvviso, sterzò all’ultimo momento in una stradina sterrata che conduceva in una proprietà circondata da un recinto di legno e filo spinato, che riportava su un cartello logoro il nome di un motel, talmente scolorito che non riuscii nemmeno a leggerlo.

«E adesso cosa stai facendo?», gli chiesi, allarmata da ciò che poteva essergli saltato in mente.

«Ci fermiamo», rispose, asciutto.

«Cosa? Qui?», domandai, guardando l’edificio che si ergeva su un piano davanti a noi. Era abbastanza distante dalla Route 66, e nel parcheggio c’era solamente un pick-up vecchio e mal ridotto. Tutto sembrava ricoperto da un dito di polvere di terra, e dovevo dire che quello non era affatto un aspetto invitante. Fra l’altro non c’era nessuna città nel giro di poche miglia da lì: se non ricordavo male la più vicina era a più di trenta minuti di distanza; se ci saremmo fermati lì non ci saremmo mossi fino al mattino seguente, nemmeno per cenare.

«Eri preoccupata che stessi andando troppo di fretta, no? Adesso ci fermiamo, così sei sicura che non arriveremo a Los Angeles in nottata», sbottò, lasciando finalmente trapelare rabbia dal suo tono, non più calmo e pacato.

«Lo sai che non è questo il mio problema», dissi, sconcertata. Non capivo cosa avesse in testa, e perché all’improvviso fosse così arrabbiato con me. Avevo detto o fatto qualcosa che l’aveva offeso senza me ne rendessi conto?

Edward inchiodò nel parcheggio, davanti a quella che doveva essere la lobby del motel. «No, certo. Il tuo problema è che non sai quello che vuoi!», borbottò lui, spegnendo il motore.

Mi ammutolì, e sentii il cuore perdere un battito. «Cosa vorresti dire?»

Lui respirò profondamente, cercando di calmarsi. «Voglio dire che so perfettamente a cosa stai pensando. Vorresti restare ancora in vacanza, ma al tempo stesso preferiresti tornare a casa subito perché credi che una volta tornati a Chicago torneremo alla situazione di un anno fa. E preferiresti chiudere subito qui la vacanza piuttosto che avere altri ricordi a cui pensare una volta che sarà tutto finito».

Mi morsi il labbro con forza, abbassando lo sguardo, colpevole. Era quello che l’aveva offeso? «Sto cercando di non pensare a quello che succederà quando saremo tornati a casa, ma non è semplice», ammisi, questa volta con più calma. «Io voglio fidarmi, Edward. Voglio credere che non sarà tutto come l’anno scorso quando torneremo a casa, e so che non posso chiederti di promettermi niente, e non lo voglio nemmeno».

«Perché no? Se è questo che può farti sentire meglio perché non me ne hai parlato?», mi chiese stancamente.

«Se poi dovessi non mantenere le tue promesse non credo che ce la farò a perdonarti questa volta», sussurrai, rivelandogli finalmente la mia vera paura. «E non voglio che ci lasciamo adesso che ci siamo ritrovati. Sarebbe troppo per me».

Edward rimase in silenzio per diversi secondi, riflettendo sulle mie parole. Alla fine sentii la sua mano prendere la mia, e stringerla delicatamente. «Permettimi almeno di farti una promessa», disse, e prima che potessi replicare mi fermò, alzando una mano e parlando per primo: «Non voglio prometterti che sarà tutto perfetto quando torneremo a casa, perché sappiamo che saranno giorni difficili per entrambi; ma voglio prometterti che farò di tutto per renderti felice e non ripetere gli stessi errori dell’anno scorso. Però tu non cercare di allontanarti da me per paura».

Feci un piccolo sorriso, sentendo la rabbia svanire completamente così com’era arrivata. Annuii. «E tu dovresti smetterla di agire così d’impulso», gli dissi, sperando che non prendesse il mio consiglio come una lamentela. «Lo so che avrei dovuto parlarti dei miei dubbi, ma tu non avresti dovuto prendere la decisione di arrivare a Los Angeles di punto in bianco senza parlarmi».

Lui sospirò pesantemente, e lo vidi irrigidirsi. «In realtà non è stato questo l’unico motivo per cui volevo arrivare a Los Angeles in nottata», ammise.

Lo guardai confusa, aspettando che continuasse, senza trovare nessun altro motivo per cui avrebbe potuto decidere di accorciare il nostro viaggio così repentinamente.

«Mentre eri in bagno ti ha telefonato un uomo del Chicago Tribune. Ho risposto solo perché pensavo fossero Alice o Rosalie che ti chiamavano per rispondere al tuo messaggio, credimi», aggiunse, vedendo la mia occhiata strana. «Ti ha offerto un posto di lavoro presso la redazione del giornale».

«Sul serio? Il Chicago Tribune?», ripetei, lasciando perdere il fatto che Edward avesse risposto al mio cellulare senza il mio permesso. Non era la prima volta che succedeva, e dal suo sguardo sapevo che l’aveva fatto in buona fede, pensando fossero le nostre amiche.

Lui annuì. «Hanno ricevuto il tuo curriculum e sono interessati per un colloquio questo venerdì».

«Venerdì? Ma è fra tre giorni!», boccheggiai.

«Per questo volevo arrivare a Los Angeles in nottata. Domani avresti potuto prendere un aereo e tornare a casa in tempo per prepararti al colloquio», spiegò, con lo sguardo puntato oltre il parabrezza.

«E quando avevi pensato di dirmi che mi stavi praticamente spedendo a casa? Prima o dopo aver comprato il biglietto aereo?», borbottai, ripetendomi mentalmente di stare calma. Se avessimo iniziato a litigare non saremmo arrivati da nessuna parte.

«Te l’avrei detto in aeroporto, mi sembra ovvio», rispose, accigliato. «Avevo paura che dicendoti del colloquio subito avresti rinunciato a questa opportunità per restare qui, e so quanto hai bisogno di un lavoro».

«Avresti comunque dovuto dirmelo», sbottai, cercando di sfilare la mano dalla sua, ma lui aumentò la presa, tenendomi stretta.

«Lo so, e mi dispiace. Ma credevo davvero di fare la cosa migliore per te. Non è forse quello che hai pensato anche tu quando mi hai fatto arrivare a Las Vegas senza dirmi che c’era mio padre ad aspettarmi?»

Mi zittii, capendo che mi aveva messo in una condizione in cui non mi era possibile replicare. Riflettei sulle sue parole, e per quanto mi sentissi delusa sapevo che aveva ragione e l’aveva fatto nel mio interesse. Avevo mandato il mio curriculum a quasi tutte le testate giornalistiche di Chicago prima di partire, ma finora nessuno mi aveva ancora contattata; scoprire che il giornale più importante della città avesse preso in considerazione proprio me - sebbene dopo due settimane, ma del resto potevo solo immaginare quanti curriculum ricevessero ogni giorno - mi aveva lasciato a bocca aperta. Mi sentivo eccitata e al tempo stesso terrorizzata. Il primo pensiero che attraversò la mia mente fu: Non potevano chiamarmi tra un paio di giorni? Dovevano proprio farlo quando il viaggio volgeva ormai al termine?

Edward strinse leggermente la mia mano. «Che cosa pensi?»

«Non lo so. Non so proprio che cosa pensare», ammisi.

«Vuoi che ci fermiamo qui per la notte?», mi chiese allora, sperando che almeno a questa domanda avessi una risposta chiara. Fortunatamente era così.

Scossi il capo, guardando distrattamente il motel deserto davanti a noi. «Raggiungiamo una città. Anche solo il pensiero di restare in mezzo al deserto la notte mi mette l’ansia».

Edward fece un piccolo sorriso, lasciando la mia mano per rimettere in moto il furgoncino. Fece retromarcia e riprese la strada sterrata per ritornare sulla Route 66, ancora deserta.

Per la successiva mezz’ora non parlammo molto. La conversazione più lunga che avevamo poteva riassumersi in lui che mi chiedeva se un determinato motel che incontravamo per strada andava bene per fermarci, ed io che ogni volta rispondevo negativamente, preferendo proseguire. Quando arrivammo a Victorville, però, decisi di fermare il nostro viaggio. Il città c’era un museo dedicato alla Route 66, ed essendo chiuso - in quanto erano le sette di sera passate da un pezzo - preferii restare per poterlo visitare il mattino seguente, sperando che la notte mi portasse consiglio e schiarisse le mie idee. Eravamo distanti da Los Angeles di poco più di un’ora e mezza, e anche se il giorno dopo avessi deciso di prendere l’aereo avrei fatto in tempo ad arrivare all’aeroporto entro sera ed essere a Chicago per giovedì e avere tutto il tempo per prepararmi al colloquio. Edward aveva ragione, non avevo idea di quello che volevo; sapevo di voler restare ancora in viaggio con lui, di non volerlo abbandonare proprio ora che eravamo alla fine di quella avventura, ma al tempo stesso desideravo quel lavoro come non mai: era un’occasione più unica che rara, e se ci avessi rinunciato era quasi impossibile che si ripresentasse. Fra l’altro, nel giro di una settimana mi sarei ritrovata in ogni caso a Chicago, e quel colloquio avrebbe potuto incidere sulla mia situazione economica e lavorativa nel caso in cui fossi stata assunta. Però, c’era anche la possibilità che il colloquio si sarebbe rivelato un fiasco, e mi sarei ritrovata a Chicago con il rimpianto di aver mandato all’aria giorni preziosi da condividere con Edward per un fallimento su tutta la linea. E dall’altra parte, invece, c’era il possibile rimorso per non aver colto l’occasione di mettermi in gioco per il lavoro dei miei sogni. Non sarebbe stata una scelta facile, e non potevo nemmeno chiedere ad Edward di prendere la decisione al mio posto, perché sapevo che un giorno avrei potuto arrivare a incolparlo per quella scelta.

Prendemmo una camera in un piccolo bed&breakfast in centro città, e mi sedetti sul letto mentre Edward si chiudeva in bagno per rinfrescarsi prima di uscire per cenare.

Strinsi le mani in grembo, provando una morsa dolorosa al petto che mi fece venire gli occhi lucidi. Solo ventiquattr’ore prima ci comportavamo come una coppietta in luna di miele, mentre adesso ci trovavamo di nuovo in una situazione di stallo. Non sapevo più come comportarmi con lui, e non sapevo che decisione dovessi prendere. Avevo il terrore che scegliere il lavoro anziché Edward avrebbe avuto conseguenze più gravi di quelle che potevano sembrare, e in particolare temevo che lasciarlo solo a Los Angeles avrebbe potuto cambiare la sua decisione di tornare a Chicago; del resto mi aveva confidato già all’inizio del viaggio che aveva accarezzato più volte l’idea di trasferirsi definitivamente sulla costa occidentale senza fare più ritorno a casa, e anche se mi aveva detto che non se ne sarebbe andato se gli avessi chiesto di restare avevo paura che potesse sparire da un momento all’altro. Era una paura irrazionale, perché sapevo che Edward non mi avrebbe lasciato se gli avessi chiesto di non farlo, e mi sentivo stupida a sentirmi tanto combattuta quando la risposta più ovvia al mio dubbio era davanti ai miei occhi. Io volevo andare a Chicago, ed Edward aveva persino cercato di portarmi direttamente in aeroporto appena aveva saputo del colloquio, quindi cosa c’era che mi tratteneva ancora lì?

Quando Edward uscì dal bagno mi alzai in piedi, cercando di assumere un’espressione tranquilla che non tradisse la confusione e la paura che provavo. Mi chiusi in bagno per cambiarmi e prepararmi a quella che avrebbe potuto essere l’ultima cena che avremmo avuto insieme prima della mia partenza, e mentre l’acqua del lavandino scorreva non riuscii a trattenere alcune lacrime che sfuggirono al mio controllo, che stava cadendo a pezzi. Bagnai gli occhi con l’acqua fredda, sperando non risultassero gonfi e lucidi come temevo, e dopo essermi cambiata tornai in camera, dove Edward mi aspettava per uscire.

Andammo in un piccolo ristorante poco distante, dove i tavoli erano addobbati da gruppi di tre candele sistemate a diverse altezze su una struttura di ferro. L’atmosfera era intima e piacevole, ed erano pochi i tavoli occupati, la maggioranza da coppie di una certa età. Nell’aria c’era profumo di cibo e fiori, le luci erano basse e il chiacchiericcio sussurrato dei clienti e camerieri era accompagnato dalle note di un pianoforte nell’angolo vicino alla finestra, suonato da un pianista sulla trentina. Ci fecero accomodare ad un tavolo posizionato in un angolo della sala, vicino ad un acquario all’interno del quale diversi pesci tropicali nuotavano indisturbati. Eravamo l’uno davanti all’altra, ma nessuno di noi tentò di incontrare lo sguardo dell’altro, preferendo soffermarlo sul menù del ristorante. Eravamo a disagio come solo nei primi giorni lo eravamo, e anche se Edward cercava di sciogliere la tensione con commenti e domande sul cibo da ordinare non riuscivo a sentirmi più rilassata.

Una volta ordinato i primi il silenzio tornò a regnare sovrano.

Mi decisi ad alzare lo sguardo, e trovai Edward intento a muovere leggermente il bicchiere sul tavolo, facendo ondeggiare il vino rosso al suo interno. Le fiamme delle candele rendevano i suoi occhi ancora più profondi e scuri, creando ombre fra i suoi capelli ramati. Era bellissimo. «Dovresti tornare a Chicago», disse di punto in bianco, dopo lunghi minuti di silenzio.

Lo guardai, cascando dalle nuvole. «Come?»

Edward bevve un lungo sorso di vino, prendendosi del tempo. «Dovresti tornare a Chicago», ripeté. «Quel lavoro lo aspetti da tutta una vita. Non dovresti lasciartelo sfuggire per un paio di giorni in California».

Abbassai lo sguardo. «Non sono solo un paio di giorni in California, lo sai anche tu».

Edward sorrise mestamente. Allungò una mano sul tavolo, posandola sulla mia. «Bella, potrai venire a Los Angeles quando vorrai dopo che avrai avuto il lavoro», mi ricordò.

«Lo so», mormorai. «Ma non è la stessa cosa».

Lui sospirò. Intrecciò le dita alle mie, lo sguardo perso. «C’è un motivo particolare per cui sei così restia a lasciarmi qui da solo?»

Mi irrigidii. «No», risposi, troppo in fretta. Lui mi guardò attentamente, aspettando che sputassi il rospo. «Stai ancora pensando di trasferirti a Los Angeles?», gli chiesi infine, capendo che non mi avrebbe lasciato andare.

Sentii la presa intorno alla mia mano irrigidirsi, e la scossi leggermente quando vidi che non mi rispondeva. Respirò profondamente. «Non molto», rispose. «L’idea non mi alletta più come una volta». La sua risposta mi rincuorò solo in parte. «È per questo che hai paura di andartene da sola? Pensi che mentre sarò a Los Angeles potrei decidere di trasferirmi senza prima parlarne con te?»

Mi strinsi nelle spalle, distogliendo lo sguardo. «Non potrebbe accadere?»

Lui sospirò, sfilando la mano dalla mia. «Certo che no. Pensi che dopo tutto quello che è successo potrei trasferirmi dall’altra parte del continente senza prima prendere una decisione insieme a te?»

«Lo so, è una paura stupida», mormorai, vergognandomi di aver anche solo pensato a una cosa simile.

«Non è stupida», disse lui, giocando con la punta della forchetta, «è infondata, tutto qui».

«Non voglio lasciarti finire il viaggio da solo», aggiunsi qualche secondo dopo. «Abbiamo fatto tutte quelle miglia insieme, non mi sembra giusto farti arrivare a Santa Monica da solo alla fine».

Edward fece un piccolo sorriso. «Arrivare in fondo alla Route 66 era il mio sogno, non il tuo. Dovresti sentirti in colpa solo se non mi permettessi di arrivare fino ala fine», disse. Vedendo che non mi aveva convinto continuò: «Tu hai fatto molto di più di quello che avrei mai avuto il coraggio di chiederti. Se non fosse stato per te avrei viaggiato da solo per tutto questo tempo, arrivando a Los Angeles di filato senza godermi davvero il viaggio. Non devi sentirti obbligata ad arrivare fino in fondo».

Lo guardai. «Quindi… ci rivedremo a Chicago?»

Lui annuì, e un sorriso piegò le sue labbra, senza riuscire ad arrivare ai suoi occhi, che nascondevano un’ombra di tristezza. «Dopo aver raggiunto Santa Monica riporterò il furgoncino a Jacob, poi tornerò a casa, d’accordo?»

Scossi il capo in segno affermativo, non riuscendo a fidarmi della mia voce, che ero certa avrebbe tremato.

I piatti con le nostre ordinazioni arrivarono subito, mettendo fine al nostro discorso. Niente nella mia testa, però, riuscì a cancellare la sensazione che quella fosse l’ultima cena che io ed Edward condividevamo. Il giorno dopo sarei andata all’aeroporto, sarei tornata a Chicago da sola, e non potevo fare altro che sperare che davvero nulla sarebbe cambiato quando Edward sarebbe tornato a casa.

***************************************************

Il Diario di Bella - blog dove potete vedere immagini dei luoghi visitati nel corso della storia.

'Giorno! :D

Chiedo perdono per il mancato aggiornamento della settimana scorsa, ma oltre ad aver avuto un esame ho pure avuto un calo di ispirazione e non sono riuscita a finire il capitolo prima di sabato :/ a quel punto ho deciso di aspettare direttamente lunedì per cercare di riprendere l'aggiornamento settimanale... purtroppo anche lunedì prossimo avrò un esame, quindi c'è ancora la possibilità che l'aggiornamento slitti (questa volta spero solo a martedì/mercoledì).

Tornando a questo capitolo, sembra che il viaggio di Bella sia arrivato alla fine. Secondo voi fa bene ad andarsene o dovrebbe rimanere con Edward? Aspetto le vostre opinioni :D

Grazie infinite a chi ha recensito lo scorso capitolo e anche a tutti i lettori silenziosi :******

A presto! :D

   
 
Leggi le 8 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Twilight / Vai alla pagina dell'autore: SognoDiUnaNotteDiMezzaEstate