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Autore: Elizabeth_Tempest    19/06/2012    1 recensioni
Amore sbagliato. Un amore che non ha sempre ragione, che non è sempre una favola.
"La gente pensa sempre che l’amore sia bello, allegro, privo di preoccupazioni. Uno stato delle cose in cui non esiste né dolore né dispiacere, una specie di perfetto (e perverso, a ben vedere) locus amoenus, che ci viene inculcato fin dalla culla. E così, nella nostra infanzia è un susseguirsi di principesse salvate da aitanti principi, personaggi dei cartoni che irrimediabilmente s’innamoreranno dell’eroico protagonista e povere contadinotte elevate a regine da amabili re." (dal primo capitolo)
Scritta per il Love (Never) Fails contest di Flaren 97
Genere: Angst, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Atto II, Scena II- Fuggire

I seguenti due anni da quel maggio passarono lenti, seguendo una perversa routine: lavoro, il più possibile, casa e botte.

Ogni tanto finivo in ospedale, ma mi rifiutavo di ammettere la realtà. Perché ammetterla significava ammettere una debolezza imperdonabile, non solo per me stessa, ma per il resto della società. Una reietta.

Avevo odiato l’amore, per poi desiderarlo ed ora tornavo ad odiarlo. Odiavo Jay, che mi aveva illusia e tradita, odiavo me stessa, per la mia debolezza, odiavo gli altri, perché avrebbero potuto aiutarmi, perché sapevano, ma non fecero nulla. Rimasi vittima della mia vergogna e del menefreghismo altrui, ma ancor più di quell’amore non corrisposto.

Egli era ossessionato da me, ma non innamorato: non potevo più mettere gonne, uscire con altri uomini e tanto meno con le mie poche amiche, dovevo riferirgli ogni mia singola spesa nonostante fossi io quella che guadagnava e se per disgrazia spendevo più di quanto mi fosse dovuto, la punizione erano botte tanto forti da lasciarmi doloranti anche le ossa. Dovevo riferire al mio amante-aguzzino ogni singolo passo, ogni singola parola… ad un certo punto prese ad accusarmi di tradirlo e finì per tagliarmi ogni sostentamento. Ogni singolo centesimo che mi ero guadagnata finiva nelle sue tasche ed era Jay a decidere quando e quanto denaro darmi. Ero diventata succube di quel mostro aitante e non riuscivo più ad uscirne.

Fino a quando non ne ebbi abbastanza: racconti alcuni vestiti e un paio di libri, scappai, recandomi alla stazione di polizia più vicina.

I poliziotti non ebbero nemmeno bisogni di chiedermi cosa mi fosse successo: la mia faccia tumefatta parlava da sé. Avevo visto la gente voltare la faccia per strada o indicarmi, avevo visto la loro indifferenza, lo schifo e la pietà. Ero stanca.

Denunciai Jay e chiesi aiuto: uno dei poliziotti, una donna sulla quarantina dall’aria navigata mi accompagnò in una casa per donne maltrattate e io credetti davvero di rinascere. Avevo lasciato il mio aguzzino, l’avevo denunciato, non poteva farmi più niente, no?

No, sbagliavo. Non so come, mai Jay riuscì a rintracciarmi: si piazzava sotto la mia finestra ad orari improponibili, urlando all’inizio minacce, poi implorando il mio perdono, dicendo che si sentiva perso, senza di me. Più volte minacciò di suicidarsi, mi urlò che mi amava.

La mia fuga durò tre settimane: alla fine della terza ritirai la denuncia e tornai a casa. Ricorderò per sempre quello che la poliziotta gentile che mi aveva portata al rifugio mi disse: “non lo faccia. Uomini come quello non cambieranno mai, per quanto promettano.

Ancora oggi mi rammarico per non averla ascoltata, perché aveva ragione: il benvenuto del mio amore fu una razione di botte, onde evitare che ci riprovassi. Ma ormai ero entrata anima e corpo in quel sadico meccanismo.

Persi il lavoro qualche mese dopo e finì in ospedale per diversi giorni, con un braccio rotto. Poi fu la volta di quella volta in cui gli avevo accidentalmente stinto la camicia preferita, poi la cena che “era troppo salata”, le ciabatte non in ordine, la spesa “troppo costosa”, la birra che non era arrivata abbastanza in fretta…

Stavo sempre peggio per quella vita: ne avevo cercata una lontana da quella famiglia finta e vuota ed ora ero finita intrappolata in un incubo che non augurerei nemmeno al mio peggior nemico.

E alla fine capì che dovevo andarmene. Dovevo essere forte, smetterla con quell’amore malato, scappare il più lontano possibile, rifarmi una vita. Lo capì troppo, troppo tardi, quando dopo l’ennesimo pestaggio, persi il mio bambino.

Amavo la mia creatura, l’avevo amata fin da subito, quando il medico mi aveva comunicato la gravidanza. Non era stata certo concepita in modo tradizionale, con una madre e un padre che si amavano, pronti a metter su una famiglia da pubblicità della Mulino Bianco o da telefilm degli anni 50: madre perfetta casalinga, fresca di messa in piega e con abitini che potevano calzare a pennello solo ad una modella e padre impiegato di banca, amante del golf e dei maglioncini portati attorno alle spalle.

Il mio bambino sarebbe venuto al mondo da un musicista fallito e violento e da una ragazza bruttina e sottomessa, ma l’avrei amato.

Jay non fu felice, per niente, ma rinunciò a farmi abortire: me n’ero accorta troppo tardi e non si poteva far più nulla. Se avevo mai sperato che il mio fidanzato cambiasse, mi dovetti ricredere: era più irritabile del solito e decisamente più violento; mi picchiava sempre più spesso, incurante del figlio che portavo in grembo. Non il figlio di qualcun altro. Il suo.

Un calcio di troppo. Uno stupido calcio di troppo, io che ne avevo sopportato di ogni e mi era stato strappato anche mio figlio.

Avevo tanto sognato di stringere tra le braccia il mio bambino, ed invece il medico mi mise in braccio un cadaverino sottopeso.

Se mi era rimasto un po’ di amore per Jay, quello venne seppellito assieme a mio figlio. E al suo posto nacque un odio prepotente, che mi consumava lentamente, mese dopo mese, mentre il dolore folle che mi aveva colta dopo la morte del mio piccolo Leo lasciava il posto alla sete di vendetta: una sera lo colpì violentemente con una padella, riempì una borsa, rubai i miei risparmi e scappai. Speravo di averlo ucciso e, come confermarono i fatti, fu così.

   
 
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