Atto
II, Scena II- Fuggire
I seguenti due anni da quel
maggio passarono lenti, seguendo una perversa routine: lavoro, il
più possibile, casa e botte.
Ogni tanto finivo in
ospedale, ma mi rifiutavo di ammettere la realtà.
Perché ammetterla significava ammettere una debolezza
imperdonabile, non solo per me stessa, ma per il resto della
società. Una reietta.
Avevo odiato
l’amore, per poi desiderarlo ed ora tornavo ad odiarlo.
Odiavo Jay, che mi aveva illusia e tradita, odiavo me stessa, per la
mia debolezza, odiavo gli altri, perché avrebbero potuto
aiutarmi, perché sapevano, ma non fecero nulla. Rimasi
vittima della mia vergogna e del menefreghismo altrui, ma ancor
più di quell’amore non corrisposto.
Egli era ossessionato da me,
ma non innamorato: non potevo più mettere gonne, uscire con
altri uomini e tanto meno con le mie poche amiche, dovevo riferirgli
ogni mia singola spesa nonostante fossi io quella che guadagnava e se
per disgrazia spendevo più di quanto mi fosse dovuto, la
punizione erano botte tanto forti da lasciarmi doloranti anche le ossa.
Dovevo riferire al mio amante-aguzzino ogni singolo passo, ogni singola
parola… ad un certo punto prese ad accusarmi di tradirlo e
finì per tagliarmi ogni sostentamento. Ogni singolo
centesimo che mi ero guadagnata finiva nelle sue tasche ed era Jay a
decidere quando e quanto denaro darmi. Ero diventata succube di quel
mostro aitante e non riuscivo più ad uscirne.
Fino
a quando non ne ebbi abbastanza: racconti alcuni vestiti e un paio di
libri, scappai, recandomi alla stazione di polizia più
vicina.
I poliziotti non ebbero
nemmeno bisogni di chiedermi cosa mi fosse successo: la mia faccia
tumefatta parlava da sé. Avevo visto la gente voltare la
faccia per strada o indicarmi, avevo visto la loro indifferenza, lo
schifo e la pietà. Ero stanca.
Denunciai Jay e chiesi
aiuto: uno dei poliziotti, una donna sulla quarantina
dall’aria navigata mi accompagnò in una casa per
donne maltrattate e io credetti davvero di rinascere. Avevo lasciato il
mio aguzzino, l’avevo denunciato, non poteva farmi
più niente, no?
No, sbagliavo. Non so come,
mai Jay riuscì a rintracciarmi: si piazzava sotto la mia
finestra ad orari improponibili, urlando all’inizio minacce,
poi implorando il mio perdono, dicendo che si sentiva perso, senza di
me. Più volte minacciò di suicidarsi, mi
urlò che mi amava.
La mia fuga durò
tre settimane: alla fine della terza ritirai la denuncia e tornai a
casa. Ricorderò per sempre quello che la poliziotta gentile
che mi aveva portata al rifugio mi disse: “non lo
faccia. Uomini come quello non cambieranno mai, per quanto promettano.”
Ancora oggi mi rammarico per
non averla ascoltata, perché aveva ragione: il benvenuto del
mio amore fu una razione di botte, onde evitare che ci riprovassi. Ma
ormai ero entrata anima e corpo in quel sadico meccanismo.
Persi il lavoro qualche mese
dopo e finì in ospedale per diversi giorni, con un braccio
rotto. Poi fu la volta di quella volta in cui gli avevo accidentalmente
stinto la camicia preferita, poi la cena che “era
troppo salata”, le ciabatte non in ordine, la spesa
“troppo costosa”, la birra che
non era arrivata abbastanza in fretta…
Stavo sempre peggio per
quella vita: ne avevo cercata una lontana da quella famiglia finta e
vuota ed ora ero finita intrappolata in un incubo che non augurerei
nemmeno al mio peggior nemico.
E alla fine capì
che dovevo andarmene. Dovevo essere forte, smetterla con
quell’amore malato, scappare il più lontano
possibile, rifarmi una vita. Lo capì troppo, troppo tardi,
quando dopo l’ennesimo pestaggio, persi il mio bambino.
Amavo la mia creatura,
l’avevo amata fin da subito, quando il medico mi aveva
comunicato la gravidanza. Non era stata certo concepita in modo
tradizionale, con una madre e un padre che si amavano, pronti a metter
su una famiglia da pubblicità della Mulino Bianco o da
telefilm degli anni 50: madre perfetta casalinga, fresca di messa in
piega e con abitini che potevano calzare a pennello solo ad una modella
e padre impiegato di banca, amante del golf e dei maglioncini portati
attorno alle spalle.
Il mio bambino sarebbe
venuto al mondo da un musicista fallito e violento e da una ragazza
bruttina e sottomessa, ma l’avrei amato.
Jay non fu felice, per
niente, ma rinunciò a farmi abortire: me n’ero
accorta troppo tardi e non si poteva far più nulla. Se avevo
mai sperato che il mio fidanzato cambiasse, mi dovetti ricredere: era
più irritabile del solito e decisamente più
violento; mi picchiava sempre più spesso, incurante del
figlio che portavo in grembo. Non il figlio di qualcun altro. Il suo.
Un calcio di troppo. Uno
stupido calcio di troppo, io che ne avevo sopportato di ogni e mi era
stato strappato anche mio figlio.
Avevo tanto sognato di
stringere tra le braccia il mio bambino, ed invece il medico mi mise in
braccio un cadaverino sottopeso.
Se mi era rimasto un
po’ di amore per Jay, quello venne seppellito assieme a mio
figlio. E al suo posto nacque un odio prepotente, che mi
consumava lentamente, mese dopo mese, mentre il dolore folle che mi
aveva colta dopo la morte del mio piccolo Leo lasciava il posto alla
sete di vendetta: una sera lo colpì violentemente con una
padella, riempì una borsa, rubai i miei risparmi e scappai.
Speravo di averlo ucciso e, come confermarono i fatti, fu
così.