Battito nella giungla
Fiotti di sangue scesero
lungo la mia gola, dissetandomi.
Spicchi di luce ondeggiarono come campane sul suolo ricoperto di terriccio e
foglie secche.
Era ormai giorno da ore e il caldo afoso della foresta amazzonica si faceva
sentire, persino per un vampiro come me.
Era un’iniezione di vita il suo calore, lo stesso che sprigionava la
pelle rosea di Bella quando la sfioravo.
Ero andato via dall’isola quando ancora il sole non aveva fatto capolino dalla
superficie dell’acqua, irradiandolo di sfumature verdi e giallognole.
Persino dal ventre della foresta riuscivo a sentire le onde del mare
infrangersi sulla battigia.
Sorrisi ricordando come dormiva beata su quel grande letto bianco, la coperta
attorcigliata tra le gambe snelle, i capelli sparsi a mo’ di ventaglio sulle
lenzuola candide.
Uno degli ultimi raggi lunari accarezzò la sua pelle donandole un aspetto
fatato.
Incantevole, continuava a ripetere la mia mente.
Non c’era altro modo per descrivere quella meravigliosa donna che riposava su
quell’isola disabitata.
Donna, perché io l’avevo resa tale. E nonostante la fitta allo stomaco
che provavo ogni volta che rammentavo i lividi lasciati sul suo corpo delicato,
non riuscivo a non pensare alle emozioni che mi aveva suscitato quella prima
volta.
E quelle dopo.
Ero sopravvissuto per più di cento anni, ora incominciavo a vivere davvero.
La pantera che tenevo stretta in una morsa d’acciaio esalò l’ultimo respiro ed
io, soddisfatto, rinfoderai i canini.
Un brivido percorse la mia schiena, quando il mio sguardo si posò sul volto
senza vita dell’animale. Un maschio.
La femmina era con lui quando l’ebbi agguantato, ma la risparmiai per via del
piccolo cuore che avevo udito battere nel suo ventre.
Era incinta. Di un cucciolo.
Un cucciolo che non avrebbe mai conosciuto il padre.
Che ironia, beffeggiò la mia coscienza, se non vivi di
animali, preferisci la dieta normale?
I lineamenti del felino mutarono a poco a poco, come un effetto speciale di un
film, prendendo le sembianze di mia moglie, un corpo ormai freddo tra le mie
braccia.
M’inginocchiai portando con me l’animale morto. Nella mia mente comparve un
lampo indistinto. Frammenti di pensieri istintivi, la mia figura accovacciata
di spalle.
Le memorie erano di una creatura soltanto, i battiti invece erano due.
Era lei, la femmina che avevo risparmiato.
Mi voltai nella sua direzione e la vidi scrutare il corpo nero del compagno.
«Mi dispiace» sussurrai.
Ma di cosa?, rise la mia coscienza. Lei non può capirti, né
risponderti.
O forse solo capirti, chi lo sa.
D’altronde loro sono in alto nella catena alimentare, almeno finché tu non
hai dimostrato di essere addirittura più forte dell’uomo che vive nei villaggi
ai confini di questo grande giardino fitto di papaye, palme ed ebani.
Un sibilo acuto fu la sua risposta. Affondò gli artigli nel terreno, ringhiando
sommessamente.
Sapeva già che contro di me non aveva speranze, ma la vendetta era ciò che la
spingeva ad agire, a vendicare il compagno senza vita.
Appoggiai ai piedi di un grande ebano la pantera e mi allontanai
silenziosamente, sotto lo sguardo attento della femmina.
Ora era tuo, o almeno ciò che ne rimaneva.
«Guarda, guarda, chi è venuto a farci visita» sogghignò una voce
femminile armoniosa.
Una forma indistinta schizzò alla mia destra, andandosi ad appollaiare su un
ramo alto di albero di cacao.
Non aveva intenzione di attaccarmi, dedussi dalla sua mente.
Sollevai lo sguardo per incrociare il suo. I suoi occhi color vinaccia mi
fissarono divertiti. Mi concedetti una breve ispezione: capelli lunghi fino
alla vita, lisci e neri, pelle ambrata come quella di Jacob, forse un tantino
più scura.
Indossava abiti vecchi, probabilmente simili a quelli delle tribù del posto. Ai
polsi portava dei braccialetti con disegni intricati, alcune parole vi erano
stampate sopra, forse appartenenti ad alcuni rituali che usavano gli anziani di
qui.
Un gomito era poggiato sulla corteccia, con la mano si reggeva la nuca.
Nonostante l’aspetto selvaggio, teneva un comportamento civile.
«Dovrei conoscerti?» le chiesi, ricordando la strana frase che aveva pensato un
attimo prima.
«Tu no, ma posso ben immaginare a quale clan appartieni tu» cambiò posizione,
sedendosi sul ramo e tenendosi in equilibrio con le mani «avverto vagamente
l’odore di Carlisle su di te. E anche di Alice e Jasper.»
Aggrottai le sopracciglia, sinceramente sorpreso.
Poi ricordai che mi trovavo in Brasile e allora intuii di avere a che fare con
una del clan delle amazzoni. Zafrina, Senna o Kachiri?
«Mi chiamo Edward, sono il figlio maggiore di Carlisle. Tu invece sei…?»
Rise, scostando una ciocca di capelli. «È maleducazione non presentarsi quando
si viene a cacciare in territorio altrui…» s’interruppe, ma riprese poi nella
mente, «specialmente quando siete venuti qua diversi anni fa e tu eri
in giro per il continente sudamericano a occhieggiare qualche bella donna.»
Scossi il capo, sorridendo. «Dunque sai del mio potere…»
Annuì seria. «Sì, Carlisle me ne ha parlato quando ho notato che Alice
anticipava le mie parole tempo fa. Ha detto che nella sua famiglia c’erano
altri con doni extra.»
Annuì a mia volta, soddisfatto della sua spiegazione. «Quella volta ero alla
ricerca di un posto isolato, dove poter stare finalmente in pace con la testa»
picchiettai la tempia «a volte è una tortura non poter riflettere per conto
proprio senza che qualcuno scivoli dentro la tua testa e si ferma per un bel
po’.»
Saltò giù dall’albero e si sdraiò per terra, una mano sugli occhi, come a
proteggersi dalla luce accecante del sole. Sorrisi per quel gesto così umano e
innocuo.
Noi vampiri non avevamo bisogno di nascondere i nostri occhi. Mi sdraiai per
terra accanto a lei. I nostri corpi brillavano a intermittenza, non appena le
foglie lasciavano penetrare qualche fascio di luce.
«Non sei l’unico…»
Non capendo ciò che voleva dire con quella frase, aprii gli occhi, ma tutto ciò
che vidi fu il buio più tetro.
Portai istintivamente le mani agli occhi, stropicciandoli, ma non accadde
nulla.
Una frase di Carlisle di tempo fa riecheggiò nella mia testa:
«Una di loro, Zafrina, ha il potere di far vedere ciò che vuole al nemico.
Che sia umano o vampiro non importa. Il suo è un dono infido e pericoloso. È
cosa buona che sia dalla nostra parte.»
Avevo persino ripescato tra i suoi pensieri l’immagine della vampira, ma era
stata ben diversa da quella con cui si era presentata ora.
E adesso capivo perché. Aveva alterato la sua immagine per diffidenza. Non si
fidava di quel clan così grande all’inizio, con membri che possedevano doni a
sua volta pericolosi anche per una come lei.
Come il mio, ad esempio.
«Tu sei Zafrina.»
«Già, in persona.»
Subito dopo la mia vista tornò alla normalità, ma essendo passato da uno stato
di completa catatonia, i miei pensieri corsero tutti a Bella.
Era sola in quell’enorme casa ed io ero qui con una vampira dalle strane
abitudini.
Come se mi avesse letto nella mente, mi rassicurò: «non temere per la tua
umana. Sono sicura che starà ancora dormendo.»
M’irrigidii a quella frase, anche se lei sembrò del tutto indifferente.
Come faceva a sapere che ero qui con Bella?
Sapeva anche dove risiedevamo al momento?
«Non mi sembra di aver nominato mia moglie» proruppi glaciale.
Amica di Carlisle o no, non trovavo molto cortese il suo comportamento.
Probabilmente anche le altre due vampire ci avevano tenuto d’occhio da quando
avevamo messo piede in Brasile.
«Non era necessario che tu aprissi bocca» sollevò le palpebre fissandomi con
determinazione «controlliamo sempre i nuovi arrivi.»
«Ma davvero?» sferzai caustico.
Scattò in piedi, fino a sfiorare il naso con il mio. Anche se non aveva
intenzione di combattere, capivo dai suoi pensieri e dall’elettricità che si
era sprigionata qui intorno che avrebbe potuto cambiare idea se avessi
rappresentato una minaccia per lei e le sue sorelle.
«Vorrei ben vedere il vostro clan se si ritrovasse nel suo territorio qualcuno
della propria specie che si comporta come se fosse a casa sua.»
Inclinai il capo, sorridendo sfacciato. «Lo è?»
Socchiuse gli occhi, irritata. «Cosa?»
«Casa tua» feci un gesto ampio della mano indicando un punto imprecisato della
foresta «intendo questo posto.»
Si allontanò, cominciando a girare intorno, proprio come una pantera con la sua
preda. Infine rispose con un: «certamente.»
Scrollai le spalle, disinvolto. «Allora non hai nulla da temere da me. Stavo
semplicemente cacciando qualche animale della zona.»
Zafrina lanciò uno sguardo in direzione della carcassa dell’animale, torcendo
un po’ il labbro superiore. Probabilmente l’equivalente di una smorfia umana. «Lo
vedo.»
«Ma non penso di arrecare alcun disturbo» feci stavolta un cenno del capo verso
di lei «i tuoi occhi parlano da soli su quale dieta tu segua.»
Qualunque vampiro si sarebbe reso conto che lei si nutriva di sangue umano. Gli
occhi erano lo specchio dell’anima.
In questo momento, parole più azzeccate e vere non esistevano.
Per i vampiri era tutta una questione di colore.
Occhi gialli erano rari tra i vampiri e solo due clan seguivano la dieta a base
di sangue animale.
Un rumore di rami spezzati si avvertì in lontananza. Era un umano ma Zafrina
non poteva saperlo con certezza, finché non capì come me che c’era qualcun
altro della nostra specie che stava inseguendo la sua preda.
«Aiuto!» gridò una voce maschile. Era americano, capivo dai suoi pensieri.
Un turista che era venuto a veder ancheggiare le ballerine brasiliane.
Negli angoli più remoti della sua mente si agitarono pensieri più impuri, però.
Stupri. Un paio, ma nessuno era mai riuscito a incastrarlo.
«Corri quanto ti pare, mostro!» rise la vampira che lo inseguiva.
Era chiaro nella sua mente la scena di una donna in un angolo buio di un vicolo
deserto. Sola, impaurita e quasi vittima di quel maniaco.
Finché qualcosa di più oscuro non era piombato su di loro trascinando nella
foresta l’essere vile.
Adesso stava facendo provare a quel mostro ciò che lui
stesso aveva seminato: terrore.
«È…?» domandai a Zafrina.
Lei scosse la testa. «Non è una delle mie sorelle. È una che vive nel
continente da un bel po’.»
Ah. Quindi non ero l’unico esterno al suo clan qui in Brasile.
«Anche a lei avete fatto il terzo grado?» chiesi ironico.
Rise del mio tono ma rispose con naturalezza. «Ovvio. Ma è una che non vuole
unirsi a noi, nonostante faccia credere a tutti che stia da sola.»
Perché avrebbe dovuto fingere di vivere un’esistenza solitaria?
Sicuramente la perplessità si leggeva sul mio viso, perché si affrettò a
spiegare: «Si chiama Huilen. E uccide un po’ troppi umani per essere sola.»
«Capisco» dissi soltanto.
Doveva essere molto bravo – o brava – questo vampiro che riusciva persino a
sfuggire al controllo di tre vampire anziane come Zafrina e le sue due sorelle.
Chissà finora come ci era riuscito.
Un urlo in una lingua antica risuonò nella foresta. Gli animali, tra cui gli
uccelli, interruppero qualsiasi attività. La giungla si fece d’un tratto
silenziosa come una tomba.
«Devo andare adesso» pronunciò Zafrina «le mie sorelle mi stanno cercando.»
Annuii, pronto per tornare da Bella. Sicuramente aveva trovato il biglietto e
riso del mio messaggio. In effetti, mi aspettavo di tornare prima, ma
l’incontro con la vampira aveva cambiato tutto.
«Be’, anch’io devo andare. Mia moglie mi sta aspettando.»
Zafrina allungò la mano nella mia direzione. «È stato un piacere conoscerti,
Edward Cullen. Credo che ci rivedremo quando la tua umana sarà una di noi. Mi
piacerebbe conoscerla di persona.»
L’ultima frase sarebbe sembrata consona al momento e innocua, ma il suo tono
pensieroso m’insospettì. Cercai tra i suoi pensieri ma riuscì a mascherarli
bene.
Mi aveva incontrato una volta sola ed era già in grado di tenermi lontano.
Incredibile.
E mentre Zafrina svaniva dopo un altro urlo di richiamo, gettai un’ultima
occhiata alla pantera morta. La femmina era ancora lì, con la coda che si
agitava a destra e a manca.
Un raggio di luce filtrò dalle foglie e illuminò il suo muso nero. Una goccia
di cristallo scese lungo gli zigomi.
Chiusi gli occhi e mi lanciai nella direzione opposta, con un piccolo battito
cardiaco che rimbombava nelle mie orecchie, seguito da gemiti soffocati.