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Autore: Cassandra Morgana    20/06/2012    1 recensioni
Sullo sfondo chiaroscurale di un'Accademia d'Arte Drammatica con troppe maschere da indossare e una posta in gioco che sale, tre ragazzi si incontrano.
Elena vince il proprio mal di vivere grazie a un'amicizia speciale, al ritrovato coraggio di gestire i conflitti e a un forte altruismo; si scontra con Isa, la sua nemesi, voce contraria e complementare che cerca di tessere una storia opposta.
Andrea, ragazzo ambiguo e dalla lingua affilata, vuole recuperare la stima di chi, troppo tardi, si è reso conto di amare.
Gabriele imbroglia la propria depressione fumando spinelli, nutre sentimenti ambivalenti verso Andrea e gioca da burattinaio.
Tra pettegolezzi sussurrati, volontà opposte in rotta di collisione, ambizioni frustrate, gelosie, complotti sotterranei, storie di ordinaria omofobia, dark enigmatici, musicisti irascibili, ex amanti, amicizie inossidabili e amori taciuti, in una storia in cui ognuno vuole far sentire la propria voce, resta solo stabilire chi sia Cleopatra e chi il serpente che le insidia il seno.
[Storia sesta classificata e vincitrice del premio "Stile e scrittura più originale" al contest Chi è normale non ha molta fantasia - La storia più originale su EFP, indetto da Butterphil]
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Il bacio dell'aspide ~ la serie'
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Capitolo 38

Bullismo, coincidenze e rivelazioni

 

Ti sei svegliata troppo tardi, l’umore sullo scazzo andante – e il brutto è quando non riesci a focalizzare il motivo. Con Cipria raggomitolata tra le braccia, una nuvola di perla che scivola via con nonchalance dal raso nero del pigiama e reclama la pappa con un miagolio acuto. Una musata decisa contro la guancia per dichiararti il suo eterno amore e, in un lampo, ridestarti dai tuoi sogni. Per fortuna.

Sospiri. Troppo tardi per la lezione delle nove. La voglia di rischiarsi il cazziatone per l’ennesimo ritardo, al momento è pari a zero. Tanto vale pensare alla gatta e prendersela con calma.

E in fondo l’hai sempre saputo, che è l’attesa, l’aspettativa a rovinare tutto. La speranza nociva che cerchi di scacciare. Di aver messo l’ultima parola con Isa una volta per sempre, ieri sera davanti al bancone del bar – se poi la fatidica parola è un vaffanculo, niente da ridire. Ma non sarà così: aspetterà qualche giorno, qualche ora, qualche minuto: il tempo di rifarsi la bocca, e poi tornerà puntuale a tormentarti l’esistenza.

C’è la speranza che la faccia semiaddormentata di Luca Lastella si affretti ad uscirsene dai tuoi pensieri tanto in fretta quanto ci si è infilata. È un campanello d’allarme da non sottovalutare, perché dopo non ce ne sarà per nessuno. Si salvi chi può.

È un’idea che mulina a senso unico nella tua testa, mentre ti rigiri tra le lenzuola in quei cinque minuti di pace. Una parte di te – lo sai, lo sai perché ti conosci, perché fondamentalmente sei sempre stata di un ottimismo fastidioso, ai limiti della fantasticheria – e in fondo ci speri, in quel seguito ideale intessuto con certosina precisione nei tuoi sogni.

Che Luca in fondo non sia rientrato nella tua vita senza un motivo preciso: destino, che prima o poi vi ritrovaste faccia a faccia a fissarvi come ebeti, a divorare lo spazio che vi divide, una molecola dopo l’altra. Che non tutto succeda così, un tanto al chilo.

È quella fede incrollabile nelle coincidenze che non sono coincidenza, quella tendenza sotterranea alla sega mentale che innalza aspettative, che non ammetteresti mai ad alta voce, troppo nascosta per formularla in concreto, ma è ciò che ti ha sempre fregato.

Luca Lastella è in città. Con lui, la sua fotocopia in bianco e nero.

E mentre raddrizzi il cuscino, con l’unico proposito di ficcarci sotto un braccio e accoccolartici intorno, il sogno rassicurante che ti fa fare le fusa come Cipria è soltanto uno: che Luca richiami. O mandi un messaggio. Una scusa qualsiasi, pure cretina, tipo bruciare sotto la luna piena la registrazione che immortala le cazzate di Federico Riccardi per esorcizzarne l’effetto friggi-neuroni. Qualunque pretesto: andrebbe bene tutto.

Perché tu non ne avrai il coraggio: spererai tacitamente nel miracolo, te ne andrai in giro con un sorriso idiota da un orecchio all’altro, un bel film rassicurante scolpito nella mente a solleticare la fantasia, e la parte irrazionale di te si dileguerà non appena sentirai i suoi passi. C’è sempre stata una natura duplice, sfuggente, un autolesionismo di fondo, in tutto quello che fai. L’ossimoro insanabile tra gettarsi nella bocca dello squalo e fuggire.

Il punto è che vivere di riflesso non basta più. Illuderti di vivere attraverso Andrea, di sentire attraverso il suo caos esistenziale. Il placebo che non ti ha mai convinto. È che lui aveva bisogno di te, è che cercarvi così vi fa stare troppo bene.

È quando arriva il momento di giocarsela in prima persona, che l’ansia sale: si cristallizza intorno alla gola come un morso, e persino quisquilie come giustificarsi con la Longoni diventano scuse appetitose per negarsi al mondo.

La mezz’ora di preparativi con trucco e parrucco annessi non ha sciacquato via la paura strisciante. La pappa per Cipria, umido e croccantini, una ciotola d’acqua pulita. Il pelo morbido che scorre tra le dita e il bacio del buongiorno. È l’unica simpatica, alla fine, l’unica che ha capito tutto.

Ci sono tanti motivi per gridarti sveglia, tesoro carissimo: è il momento di mettersi all’opera senza rifugiarsi all’ombra di Andrea, nel limbo della trama nascosta, del cattivo consiglio piazzato al momento giusto. Ma preferisci non pensarci.

Spolverarsi con cura la faccia di cipria color chiaro di luna, non è mai stato tanto rilassante. Metodico, quasi. Polvere nera intorno agli occhi e labbra color sangue: vietato giocarsela a basso profilo, oggi. Perché una parola o un’azione noncurante potrebbero fare la differenza, spingere l’ago della bilancia in modo irreversibile. Tanto vale splendere come un lampione. E tanto vale giocarsela senza maschere. Perché un Lastella a piede libero vale la pena di osare con la grazia maliziosa di una minigonna sfilacciata e un paio di leggings stretti sulla pelle. E i soliti anfibi. Vietato nascondersi dietro a un dito, negarsi le manifestazioni più macroscopiche di un gioco a carte scoperte.

I capelli, l’unico è tirarli indietro in un semiraccolto e dimenticarsi che esistono, perché stamattina si arricciano e sparano da tutte le parti. Il relax assoluto di perdersi in occupazioni che, dopotutto, non cambieranno di una virgola una giornata già scritta.

C’è un Gabriele sul piede di guerra con cui trattare – e chissà, forse sei ancora in tempo per schioccare le dita e fermare tutto. C’è la paura di soccombere sotto il fuoco nemico. Eppure preferisci guadagnare tempo perdendoti dietro lo spazzolino del mascara.

Okay. Pronta. Respira. Non morirà nessuno, se non spaccherai il secondo. Arriverete tutti e tre vivi e vegeti a fine giornata, e magari ne riderete insieme.

Giornata campale.

 

* * *

 

Vi siete evitati con religioso distacco. Gabriele ha trascorso parte dell’intervallo a farsi una canna sul retro nell’ombra densa della solitudine, e parte della successiva lezione a dissertare con la Balducci sulla presunta omosessualità di William Shakespeare, sì no forse boh. Sembrava svagato e in vena di perder tempo.

Credevi di intercettarlo prima di pranzo, perché dopo sarebbe un casino, ma ti è letteralmente sgusciato dalle dita, dritto verso la fermata più vicina. Da lì si è volatilizzato e nessuno l’ha più visto.

È a lui che pensi nella pausa caffè, mentre per poco non ti ustioni la lingua: Gabriele non sta fuggendo da te: vi siete pure sorrisi a lezione, uno sguardo intercettato per caso. È Andrea, stavolta, il vero problema.

E la mattinata è scivolata via.

 

Le quattro del pomeriggio, le mattonelle a losanghe che ti si srotolano sotto i piedi e il corridoio immerso nel silenzio della penombra. Non hai spiccicato parola con nessuno, nella decina di metri che ti separano dall’uscita, ognuno troppo perso nel proprio purgatorio quotidiano per badare alla svampita in calzamaglia che per tutto il giorno non ha fatto che svolazzare qua e là da una lezione all’altra, da un limbo esistenziale all’altro, assorta nei suoi pensieri.

Lei, invece, sembra averti al centro della sua attenzione, perché sbuca fuori all’improvviso come un tornado, e schiuma di rabbia. Con un inutile Alberti che prova a trattenerla blaterandole intorno.

- Isa, Cristo santo, non adesso!

- Non me ne frega un cazzo!

È stata veloce.

Se non sapessi che tipo è, penseresti che sia sotto effetto di stupefacenti. Roba pesante e tagliata male, visto che una canna fatta come si deve è capace di rendere un angioletto persino un Gabriele Derossi.

Ma il dovere chiama, perché Isa ti si para di fronte a braccia conserte, decisa a tagliarti ogni ponte verso la salvezza. Si avvicina e ti applaude sotto il naso con enfasi esagitata. Fuori di sé quanto basta per perdere il controllo e ridacchiare isterica.

- Sei contenta, adesso? – gracchia.

Datemi una purga. Adesso. Anzi, no. Una tazza di cicuta, e poniamo fine al lento suicidio delle gonadi.

Ma Isa è veloce, ancora una volta.

- Puttana! – biascica tra i denti, e un’occhiata più attenta alla porzione di corridoio che riesci ad abbracciare, ti rivela con orrore come metà del pubblico in sala abbia ormai gli occhi puntati su di voi, sulla vostra pozza di fiele, sul vostro orrido dilettevole, in un crescendo irreversibile di attenzione.

- Prova a darti una calmata!

Che cazzo è successo? Cos’è cambiato rispetto a ieri?

- Perché dovrei? – Isa ti ride in faccia, di nuovo, irriconoscibile, il disprezzo che le rotola giù dalle guance insieme ai residui di rimmel – Perché, se no, ti offendi?

Soltanto ieri sembrava calma e sicura di sé, una maschera di ghiaccio consapevole di poterti ridurre a un mucchietto agonizzante schioccando le dita, e ridere di te. Ora sembra esasperata quanto basta per saltarti alla gola seduta stante.

E invece fa una cosa che, temi con orrore, resterà nella hall of shame. In un attimo ce l’hai addosso, ma non cerca di picchiarti. Afferra un lembo della gonna e strappa con tutte le sue forze.

- Che cazzo fai? Tieni giù le mani!

La stoffa smagliata ricade molle lungo il fianco.

- Non preoccuparti, Loria. Tanto l’hanno già vista tutti – ti bercia in faccia, squadrando volgarmente verso il basso, per poi fissare in faccia tutti i presenti – Inutili zoccole represse che escono allo scoperto e si procacciano attenzioni… così.

Ti osservi intorno, sbigottita. La gonna è ancora al suo posto, ancorata ai fianchi e alla microfibra nera dei leggings, anche se retrocessa allo stadio di straccio per i vetri.

Venticinque paia d’occhi puntati addosso non fanno piacere. Non quando la tua peggior nemica sembra intenzionata a ingaggiare rissa e ucciderti di botte in mondo visione. O a fare qualcosa di peggio.

- Oh, mi correggo! – lo sguardo di Isa indugia in un punto imprecisato oltre le tue spalle – Forse Thompson non l’ha vista. Non ancora.

Venticinque paia d’occhi virano rapidamente sull’ultimo arrivato, bianco da fondersi contro la parete e impietrito accanto alla porta dell’aula.

Il mormorio del corridoio sale come un ronzio rintronante nella testa. Nessuno che faccia qualcosa per scongiurare la tragedia. L’ennesima pagliacciata. Solo Alberti riesce a cogliere il momento per agguantare Isa per le spalle e trattenere la sua furia.

- Adesso basta!

Ma Isa è troppo veloce. Di nuovo. Si divincola come una furia e allunga il braccio, cinque dita chiare che ti esplodono sulla guancia come un marchio. Lo spostamento d’aria ti fa sobbalzare all’indietro ed evitare l’assalto successivo – un graffio ben assestato con unghie da vampira, da lasciare il segno vergato a fuoco.

Le restituiresti il colpo, l’istinto del cucciolo di tigre che teme per la propria vita, se Thompson non fosse uscito dal letargo come una rivelazione improvvisa, tagliandoti la strada e schizzando in prima linea ad afferrare il braccio di Isa e deviarne il colpo.

È la variabile impazzita dell’ultimo secondo. Lui che sembra evaporare sotto quel pallore spettrale e quei capelli buttati in faccia, lui e la sua faccia da cucciolo maltrattato. Ora invece lo senti ansimare di fronte a te, frapporsi tra te e Isa come un muro di vetro. E Alberti sospira di sollievo.

- Visto? Anche stavolta la puttanaggine ha fatto colpo! Hai un nuovo cavalier servente – continua a latrare Isa: ha capito che, marcata stretta da Alberti e da Thompson, può fare poco.

Con le mani, almeno. La bocca può continuare a menare fendenti.

- Thompson, dai, approfittane! La signora sembra compiacente – prosegue, incurante del ridicolo, scoppiando in una risata folle – Dimostra a tutti che non sei un finocchio!

Alberti sembra sul punto di sprofondare sotto il pavimento, con Isa allacciata tra le braccia in un’insolita camicia di forza. Thompson arrossisce fino alle orecchie e tace, lo sguardo premuto a terra.

Povero piccolo, in che posto sei finito… Ci avresti creduto?

- Mollami, cretino! – Isa si rivolta contro Alberti, mirando pericolosamente verso il basso, e guizza di nuovo verso di te, lo sguardo di chi uccide per molto meno – È colpa sua, se Andrea ci odia! Era la mia vita. Tu non avevi niente e ti sei presa ciò che era mio. Lo sai, vero? Lo sanno tutti. Che sei una troia fallita. Che non hai cartucce da sparare, tranne aprire le gambe e mettere in giro voci orrende sulle persone. Fare in modo che tutti si detestino uno con l’altro e così si affezionino a te, la salvatrice della patria! Usi il sesso, le bugie, usi qualunque cosa, non hai limiti… Sei una stronza! Attenta, Loria. Attenta, ti renderò la vita impossibile.

Sospiri. Non sai bene cosa stia succedendo, ma il gelo che ti si infila nelle ossa, all’improvviso, è abbastanza da gettarti in una dimensione in cui tutto si muove al rallentatore – e lasciarti il tempo di riflettere, di ponderare le parole senza farti trascinare dal panico o dalla rabbia. Gli occhi socchiusi, lo sguardo fisso contro la parete, contro la schiena ossuta di Thompson-avvocato del diavolo e di Alberti tra incudine e martello.

- Non mi pare abbia fatto diversamente, fino adesso – le spiattelli con voce atona, distante anni luce da quella dimensione, da quel corridoio, da quel brandello sfilacciato di esistenza – Sei la specialista, nel cercare di distruggere chi non ti va a genio. Con le tue amiche oche. Non hai fatto altro che farmi terra bruciata intorno, dalla prima volta che mi hai vista, perché mi hai guardata in faccia, e la tua testa ha deciso che dovevo essere il tuo capro espiatorio. Eppure io non ti ho mai cercato. È che ti faceva comodo avere qualcuno da odiare. Quindi, dato che Andrea ti ha mandata affanculo come ti meriti, adesso ti racconti la favola che è tutta colpa di Loria. Vuoi lavarti la coscienza.

- Sei una sfigata – Isa sembra irriconoscibile: digrigna i denti e mena alla cieca, e non c’è più nulla sulla sua faccia rossa, impastata di trucco colato e steso male, nulla che possa ricondurla alla diabolica stratega che hai conosciuto – Approfitti delle disgrazie altrui per raccogliere qualche briciola. Zoccola fallita. Non vali neanche come zoccola. Tu devi rovinare tutto quello che tocchi, per ritagliarti un posto tuo. Perché tu un posto qua dentro non ce l’hai e non ce l’avrai mai! Non piaci a nessuno, nessuno ti cerca, nessuno ti ci ha mai voluto… Prima che iniziassi a diffondere certe stronzate. Non mi meraviglierei, sai, se dietro allo scandalo di Neri prima e del padre di Alessandro dopo, ci fossi proprio tu. Che muovi le pedine a tuo favore. Sei una vipera! Dovevi distogliere l’attenzione da quanto fai schifo e sentirti l’eroina della situazione. Mi fai schifo, mi fanno schifo le sanguisughe che approfittano delle difficoltà degli altri, e se avessi potuto schiacciarti prima che mettessi in piedi tutto questo, credimi, l’avrei fatto godendoci! – conclude, mimando con enfasi il gesto di schiacciare un mozzicone di sigaretta sotto la scarpa – E tu levami quelle manacce di dosso, brutto emo di merda! – strepita verso Thompson che la afferra per il polso, stroncando sul nascere l’ennesimo assalto manesco.

- Ti sei descritta da sola – le sibili senza espressione, lo sguardo fisso sui suoi occhi azzurri iniettati di veleno – Sei tu quella che ha bisogno di un nemico, di splendere massacrando chi si trova sulla sua strada. Di dividere il mondo a cazzo, chi c’è e chi non c’è. Vuoi che ti odi per questo? Sì. Mi fai schifo, perché sono quelle come te che rendono questo posto un merdaio, che fanno soffrire gli altri per puro divertimento. Mi fanno schifo le carogne. Le principesse viziate che credono di poter pestare i piedi a chiunque senza mai affrontare le conseguenze. Che pretendono di decidere cosa è giusto e cosa è sbagliato sulla base del nulla, di dispensare giustizia a modo loro: siccome tu mi stai sul cazzo, allora sono autorizzata a rovinarti l’esistenza, trattarti come merda, umiliarti quando voglio. Vuoi sapere un’altra cosa? – ormai sei partita per la tangente, e a poco serve lo spauracchio di venticinque paia d’occhi puntati addosso, e Alberti e Thompson che in silenzio ti implorano di tacere, di non versare altra benzina – Voglio molto bene ad Andrea, sì, quello che tu hai trattato come una pezza da piedi, come se fosse tanto degnarlo del tuo favore. Gli voglio bene. Ma il pensiero che la nostra amicizia escluda la tua presenza, che ti faccia rodere e crepare fino a questo punto, che Andrea abbia capito come sei fatta e ti tratti di conseguenza, mi fa godere – soggiungi con un sadismo che non credevi di possedere, sorridendo e oscillando di fronte a lei fino ad occupare la sua intera visuale, a scolpirle in faccia il tuo trionfo – Perché è ciò che meriti, di rimanere sola: quello che tu volevi per me. Perché ripagarti con la stessa moneta, rovinarti la piazza, mandare a puttane le tue gerarchie del cazzo, vederti rosicare, è stato un immenso piacere. Quanta gente abbiamo risparmiato, eh…?

- Maledetta stronza! – Isa parla tra i denti, le mascelle sigillate in un travaso di bile in piena regola – Non ti andava giù apparire come la nullità che sei, e che le persone normali, di una come te, ne facessero polpette senza guardarsi indietro… Perché è così che stanno le cose. Non è colpa mia, se eri una debole. Non meriti rispetto e non puoi accampare nessun diritto. Sei una fottuta psicopatica, e maledico il giorno in cui sei finita proprio qua, a rovinare i rapporti degli altri e pretendere cose che non le spettano. Non meriti nulla, non sei nulla. Impara a prenderle e a darle, poi ne riparleremo. La differenza tra noi due è che io mi prendo ciò che voglio e mi spetta; tu lo rubi di nascosto.

Silenzio, con il delirio di una pazza in sottofondo. I fumi tossici dell’odio.

Fai per andartene, ma una voce alle tue spalle ti inchioda lì sul posto.

- Elena, mi dispiace!

L’amica di Isa, Sara, quella con la risata idiota perenne e la capacità di trasformare un’ingessata lezione di Storia del Teatro in un cabaret casinista. Quella che, dopo cinque secondi in sua presenza, ridi. Al sesto, rifletti sull’eventualità di tagliarti le vene.

- E tu che vuoi? – le sibili, mantenendo le distanze.

- Leccaculo… – Isa non si è ancora eclissata dal tuo raggio uditivo.

La ignori.

Sara ti raggiunge, gli occhi verde palude sgranati sulla faccia da bambola lentigginosa, rosa di fard.

Continui a ignorarla, lei e il suo improvviso interessamento. Forse ha capito dove tira il vento e cerca nuove garanzie di sopravvivenza. Hai paura che qualcuno ti metta di fronte alle tue responsabilità?

È troppo.

- Andate al diavolo. Mi fate schifo. Tutti! – urli, stavolta non puoi trattenerti, perché di colpo fatichi a riconoscere la tua voce, gli occhi che schizzano come scaglie di metallo su Isa, su Alberti che finge di cascare tra le nuvole, io non c’entro-non vedo-non sento-non parlo-forse dormivo, su Sara che salta su a discolparsi: è sempre stata una fottuta idiota, una che pensa che il mondo sia il festival della presa per il culo, che non si preoccupa di chi può restare ferito dai suoi strali – Mi fa schifo il vostro bullismo da quattro soldi! Il vostro giustificarvi a vicenda e fare comunella per affossare chi vi sta sulle scatole. Siete dei bulli del cazzo, e mi dispiace per voi, ma dovete accettarlo, che qualcuno prima o poi si stanchi e ve le restituisca una per una. Crepate all’inferno!

- Elena, ascoltami… Mi dispiace! – Sara sembra un disco rotto.

Voltagabbana del cazzo. In questo, per la prima volta tu e Isa siete d’accordo.

Ha sentito la parola “bullismo” e si è sentita chiamata in causa. Ha capito che marcava male, che la sua guru stava facendo una figura patetica e disgustando l’intera platea, e cerca di salvarsi le chiappe. Io non c’entro, scherzavo, quella era la mia gemella malvagia.

Decerebrata totale.

- Mi dispiace, se ti sei offesa per… per quelle cose. Erano cazzate, scherzavo, te lo giuro. Lo faccio con tutti – bugia: lo fai con chi non ha il culo abbastanza coperto, con chi è troppo solo ed esposto, perché più ci sta di merda, più ci godete – Chiedi ad Alberti, che lo prendo sempre in giro…

Che gli accarezzi il pacco “per scherzo”. Quanto Isa non è nei paraggi, o potresti ritrovarti mutilata.

- Non… non pensavo fosse sul serio – continua, le parole che si accavallano le une sulle altre.

Tu non pensavi a nulla. Non pensi mai a nulla. Ma Isa ci pensava troppo.

Continui a marciare, imperterrita lungo il corridoio, le pareti che dondolano e minacciano di chiudersi su di voi in un parossismo di macerie e imprecazioni.

- Elena, scusa! Non credevo che… che qualcuno potesse prendersela a male.

Cielo…!

- Tu che c’entri, scusa? – le soffi squadrandola da capo a piedi, e per un attimo pensi che potresti incenerirla – Non parlavo con te.

Tu eri il jolly.

Sospiri. Forse non ha colpa. Forse è solo tremendamente stupida. La pedina ideale di Isa, per portare avanti con tutta calma la sua guerra di posizione.

- Io… c’ero anch’io con loro. Ammetto che ti ho presa in giro… qualche volta. Però non dicevo sul serio.

Bulleggiare chi non ti va a genio, innalzare sulla sua pelle uno sberleffo perenne che cancelli la sua dignità, finché del malcapitato non resti altro che lo sfottò, la barzelletta, la voce di corridoio, finché nessuno lo prenda più sul serio, nessuno lo consideri più una persona ma un tirassegno vivente, lo chiami scherzare? Quando l’avete visto con la lingua per terra.

Chi ti ha detto che avessi voglia di sorbirmi le tue prese per il culo “per scherzo”? Lo chiami scherzare, pescare dal mucchio uno sfigato qualunque perso dietro ai cazzi suoi, insistere per una mattinata intera sul fatto che il tizio in questione porti sfiga, lanci il malocchio, e quindi sia meglio non rivolgergli parola, tenerlo a distanza, e farlo sul serio? Dalla stronzata casuale al mobbing di massa. Perché qualcuno faceva sul serio, e qualcun altro ci ha creduto davvero.

Lo chiami scherzare, trascinare la farsa oltre i limiti dell’umana sopportazione, giorni, settimane, mesi, e reiterarlo, oltre i limiti che separano la persona dalle cazzate sibilate a mezza voce mentre ci si annoiava?

- Ehi, aspetta! – Sara fatica a tenere il passo.

Sogghigni tra te: devi sperare che l’incantesimo duri a lungo, meglio di un tiro di canna scroccato a Gabriele. È il gelo dell’indifferenza verso chi per tanto tempo ha goduto a farti male, a ridurti a un pupazzetto inerte.

Fino a non molto tempo fa ti si sarebbe bloccato il cuore in gola con un sospetto attacco di panico. La tua volontà sarebbe rimasta lì, inchiodata al pavimento, ad inghiottire l’ennesimo fiotto di bile fino a soffocarti. Lei, soprattutto, ti ha sempre fatto orrore. Non hai mai saputo tenerle testa, andare oltre il suo cumulo di cazzate come cenere lanciata negli occhi, perché entrare nella testa dell’idiota richiedeva un’energia che non avevi. Che non hai. Solo che adesso vederla agitarsi davanti ai tuoi occhi, le parole attutite sotto strati di nebbia e di ovatta, è come osservare una macchia sul muro.

E poi fa quello che non doveva fare: ti afferra per un braccio e ti fissa con quegli stupidi occhi color marciume finto-innocenti. Introduttivi al vuoto cranico. Quella voce fastidiosa da bambina che gioca a fare la grande, il dolore altrui come unico coefficiente di ironia.

- Sparisci! – la incalzi.

Un urlo liberatorio, direttamente dal cuore.

Fuori dalle palle. Tutti. Avete cercato di rovinarmi la vita perché mi avete guardato in faccia e avete deciso che toccava a me. Perché non ero dei vostri. E l’avete fatto con Gabriele e chissà con chi altri ancora…

Le tue mani cozzano contro le sue spalle e la rilasciano con forza, spingendola lontano. Sara barcolla, frenando la sua corsa contro la parete, come se il peso del seno imponente la sbilanciasse all’indietro.

Io sì che sono figa, perché ho i fianchi stretti, sono alta e porto la quinta di reggiseno.

Loria che cazzo si imbottisce a fare? Tanto è comunque arrapante come un apriscatole.

Sara sembra terrorizzata. Dalla furia che ti ha visto negli occhi. Da quel disgusto totale.

Stronza. Non dicevi così, quando ridevi di me a cazzo, o del fatto che non ti avessi mai attaccata al muro.

- Va’ al diavolo anche tu! Tornatene da loro, trovatevi un’altra vittima sacrificale e mettete in conto che qualcuna sia anche libera di spaccarvi il culo.

Nessuna sensazione. Nessun eufemismo.

Sara ti fissa come se ti fossero spuntate due teste. Forse non è neanche stupida come appare. Magari non ha mai superato la fase asilo infantile. Isa, invece, continua a imprecare contro Alberti e sprizzare odio contro l’universo. Thompson sembra una figuretta sbiadita, gli occhi sgranati, troppo grandi sul viso quasi cianotico, intagliato a spigoli vivi. O forse è il trucco intorno agli occhi a dargli quell’aria di stupore perenne.

 

Non mi cedere adesso, tesoro. Non svenire. Lo so che hai visto più di quel che avresti creduto possibile.

Saranno tutti santi, dalle tue parti? Vienitene via, prima che sia troppo tardi.

 

Il fatto è che mi fate schifo tutti. Tutto e tutti. Schifo, pena, nausea, biasimo. Ipocriti, fottuti ipocriti. Fottuti fighetti vestiti da coglioni.

Tranne lui, lui che splende come un diamante incontaminato.

 

- Thompson.

Sembri diverso…

Lo sguardo cala distratto su di lui, sulla sua figura nerovestita.

- Vieni via.

Prima che ti intossichino con il loro veleno o decidano di fare di te il punching-ball di riserva su cui sfogare la rabbia, le frustrazioni, l’odio e la voglia di spaccare il mondo nelle sue manifestazioni più fragili. Come marmocchi crudeli in pieno delirio di onnipotenza. Impuniti.

Vieni via, anima candida, prima che ti disgustino troppo.

Thompson sembra tramortito, immobile contro il pilastro alle sue spalle, circondato dalle vibrazioni d’odio di Isa. Lei non la riconosci più, ed è sempre peggio, ogni minuto che passa: sembra una belva in cattività, l’immagine capovolta della lucida, ineffabile manipolatrice emotiva che credevi di conoscere. Ha perso ogni controllo: forse ha davvero bevuto-fumato-inalato qualche cocktail astruso che, mixato alla rabbia e al veleno, è esploso in una miscela tossica con deriva totale dei neuroni.

Invece Thompson sembra un fotogramma ricavato col fermo immagine. Quegli occhi troppo fermi e troppo pallidi, verde bosco, rame scuro che sfuma verso i bordi, fissano un punto casuale tra la tua fronte e l’attaccatura dei capelli. Le labbra socchiuse per dire qualcosa, qualunque cosa possa rivelarsi utile a rendere tutto meno squallido. O magari deve starnutire e si è trattenuto all’infinito – ipotesi non irreale, perché Isa e Alberti, a lungo andare, danno allergia e assuefazione.

Alla fine è riuscito a staccarsi dalla sua nicchia di ombre. Da loro che lo fissano come un chewing-gum spiaccicato sull’asfalto, come l’intruso delle quattro e mezza.

Vieni via. Prima che ti trascinino nel loro alienante tiro al bersaglio. Non sembri capace di reggere certi ritmi: hai la pelle troppo delicata. Soccomberesti.

Vieni via, Thompson. È tutto una merda, un ammasso di schifo. Crema inacidita.

Thompson ammicca verso di te come di fronte alla rivelazione. Scrolla le spalle.

A dieci centimetri in linea d’aria, sembra più alto di come lo immaginavi. Più di Andrea, ma forse è il gioco di prospettiva, la vicinanza estrema, le ossa che gli sporgono dai fianchi, o quei capelli assurdi. La catena che porta appesa alla cintura tintinna sinistra ad ogni passo.

E ora che lo osservi meglio, ti rendi conto all’improvviso che palpita di vita, dalle dita dei piedi alle punte sbiadite dei capelli – e che è immune da loro, dal loro sistema dentro-fuori; e che nonostante tutto è ancora vivo, non un fotogramma pescato a casaccio, un ennesimo cliché del cazzo tagliato con l’accetta a misura di cretino, pronto a finire in pasto al prepotente di turno. Non è l’ennesimo pregiudizio ambulante. Le vene azzurrine dei polsi continuano a pompare energia sotto l’epidermide.

- Bene – i tuoi capelli guizzano veloci dietro le spalle, morbidi tra le dita che provvedono a rimetterli al loro posto – Adesso dimentica tutto quello che hai visto.

 

* * *

 

- Perché non mi hai detto niente? – Andrea punta le mani sul tavolo, bloccandoti ogni via di fuga e imponendosi sulla tua visuale.

Sa essere quasi comico.

- Perché è successo dopo – gli sussurri, aleggiando su di lui con occhi distratti – Perché non ho il dono della preveggenza. È successo di pomeriggio, dopo che tu sei andato via. Posso chiederti la stessa cosa: cos’è successo tra te e Isa? Era irriconoscibile, completamente partita.

- A suo tempo – Andrea scrolla le spalle – Non potevo mica sbilanciarmi in mensa.

- Neanch’io – rilanci – E poi c’era Lastella, e un sacco di gente a origliare i discorsi.

- Cos’hai contro Lastella? – Andrea si strofina il mento, interrogativo – Lo dici con la stessa faccia con cui diresti “malattia allo stadio terminale”.

- Contro il tuo amico, proprio niente. Ma scusa, permettimi di tenere per me i fatti miei, visto che non ci conosciamo – lo interrompi, ribaltando le posizioni.

Ora è il suo turno di chinare lo sguardo verso terra.

- Voi invece vi conoscete? – lo incalzi.

- Più di quanto immagini – Andrea sorride, candidamente, prima di sganciare la rivelazione della serata – È stato il mio primo ragazzo.

Questa, poi.

La madre di tutte le coincidenze.

Vorresti non scoppiare a ridere, tra l’isterico e il liberatorio, ma la tensione accumulata tra il diaframma e il bottone della camicia, è decisamente troppa.

Mio Dio…

- Perché ridi?

- Scusami – ti asciughi le lacrime, con noncuranza.

Andrea e Patrizio Lastella. Lastella!

- Mica vi conoscevate alle superiori? – indaghi: tanto vale giocarsela, quando Andrea è un fiume in piena.

Cincischia con una mano ficcata in tasca, l’altra agganciata alla testiera del letto. La camera spoglia ed eccezionalmente in ordine.

Finalmente un posto dove riposare tranquilli, lisciarsi il pelo come i gatti.

- Liceo “Da Vinci”, no? – Andrea scuote le spalle – Non dirmi che…? Siamo stati compagni di scuola senza saperlo?!

- No, frena l’entusiasmo! – scuoti la mano, ridendo – Non ho fatto il linguistico.

- E allora com’è che conosci Lastella? – Andrea sgrana gli occhi, stranito – Se ho capito bene, anche voi vi conoscete… in qualche modo. O che ne so!

- No, non lui. Luca – sollevi gli occhi al cielo, e per un attimo svelare un frammento di passato diventa quasi un bisogno vitale, il sollievo di raccontarsi, tracciare un profilo, un vissuto – Siamo stati insieme… più o meno.

- No…! – Andrea spalanca le palpebre, dimenticando di colpo quel che stava facendo.

Conversare tranquillamente, forse. O carpire informazioni ad andamento sparso, senza un disegno.

- No! – esala, un attimo prima di crollare in una risata liberatoria – È assurdo.

Elena e Luca. Andrea e Patrizio. La coincidenza e la rivelazione.

Pensare che siete stati così vicini da potervi sfiorare, che ignoravi la sua esistenza finché non l’hai visto calcare il suolo dell’Accademia.

Che entrambi avete amato Lastella. Il filo che continua ad avvitarsi su se stesso.

- Sapevo a malapena che avesse un gemello – mormori fra te mentre, con una fuga strategica, concentri tutta l’attenzione sul radunarti i capelli dietro la nuca, arrotolarli e fermarli con una matita.

Che avesse un gemello. E che lui sia diventato così bello.

Una volta non era così. Magro allampanato, con i capelli scuri e arruffati che svolazzavano da tutte le parti, e gli occhiali da miope, non avresti scommesso un centesimo che fosse capace di scatenare una vera e propria strage di cuori. Era troppe cose, tranne il figo da copertina.

Ma la sua voce sprizzava sesso e intelligenza ad alternanza continua e costante, specie quando calava di pochi decibel e raschiava in gola. Note vibranti come tocchi sapienti su un nervo scoperto, a rammentarti per magia il profumo della cioccolata dopo un’uscita sotto l’acquazzone, o il concerto del tuo cantante preferito dopo ore d’attesa.

Chi ha detto che le cose che arrivano dritte al cuore, debbano essere le più belle, tecnicamente impeccabili?

In fondo, l’alchimia del contatto non pretende spiegazioni. Quando vi siete fissati, e i suoi occhi sottilissimi ti hanno fulminato, i secondi hanno smesso di scappare.

Peccato che nessuno ti abbia creduta, che ti abbiano riservato il solito, trito distillato di indifferenza – a suo tempo. C’era una scintilla da qualche parte, un barlume di consapevolezza, ma tutto il resto era tenebra, vibrazioni non traducibili.

E tu eri giovane, infantile e piccola di sentimenti; procedevi tentoni con l’egoismo tracotante dell’adolescenza e puntavi i piedi. Puerile e terribilmente stupida. L’ho visto prima io.

In un’altra maglia qualsiasi del tessuto spazio-tempo, l’altro Lastella, quello più figo, si smaltava le unghie di nero e insegnava ad Andrea com’è che si fa l’amore.

E intanto tutto scorreva, e continuavi ad appassire, a morire e a rinascere.

- Davvero stavate insieme? – Andrea ha il vizio di distoglierti dai tuoi pensieri quando ti sembra di pervenire all’illuminazione.

Eppure è delizioso. Delizioso mentre frigge di curiosità e si tormenta una ciocca di capelli.

- No… non esattamente.

E avanti, dillo.

Scopamicizia? Fuoco di paglia? Amore non corrisposto? Delirium tremens? Suicidio indotto dei coglioni? Come si chiama? Basta affibbiarle un nome, per sancire che colore abbia.

Andrea ridacchia, cristallino.

- E così si scopre che abbiamo più cose in comune di quanto crediamo – miagola – Interessante.

Gli stessi maestri di vita, per esempio.

Questa città è un buco. Un buco nero che risucchia tutto e non ti risputa indietro niente. Solo l’impressione di potervi perdere quando desiderate, di tranciare i legami che fanno male, ma poi alla fine siete tutti qui, a litigarvi una boccata d’ossigeno, a lavorare gomito a gomito alla catena di montaggio. Ma è sempre tutto tra voi.

 

* * *

 

‘fanculo! ‘fanculo tutto.

Gabriele impreca mentalmente contro le porte del mezzo che tardano a spalancarsi sotto il suo naso. Ha prenotato la fermata all’ultimo momento, nello sferragliare annoiato del vecchio bus elettrico.

Tutto ciò che ha fatto di buono nel corso della giornata è stato fuggire inseguito dai demoni, nell’ansia inconsapevole di sottrarsi al contatto diretto, alla collisione accidentale con Andrea, entrambi chiusi nel vicolo cieco di una spiegazione pretesa.

Perché sei fuggito? Perché è tutto il giorno che non fai che fuggire, dribblare, negarti, parlare a bassa voce?

Sospira. È come una voce strisciante dentro la testa che ripete non ora, non è il momento; aspetta, guadagna tempo, guardati intorno. Prima di maturare la resa decisiva.

C’è qualcosa che non lo fa stare tranquillo, che lo tiene sulla corda. Tutto grigio, sfumato, istintuale.

È andata così con Andrea. Prendersi una vacanza dai suoi occhi cospiratori, dalla frenesia che gli inocula sottopelle, credeva sarebbe stato un compromesso accettabile, stretto tra l’esigenza di rimandare all’infinito, cullato nel suo sogno dai contorni sfocati, e l’esigenza di stringerlo a sé.

Succede, quando ti ritrovi con la tua stessa coscienza che urla compressa sotto lo sterno.

Non sa neanche se parlarne con Elena, perché poi riattaccherebbero con il vecchio disco. Occasione sprecata.

Non ha perso un secondo, esaurite le sue lezioni. Si è letteralmente defilato. Ha trascorso il primo pomeriggio collassato sul divano a tende spalancate, un braccio teso davanti a sé a schermarsi gli occhi dai raggi più cocenti, e un principio di colpo di calore.

Si è destato di soprassalto con la folgorazione estemporanea del testo da mandare giù entro domani mattina, pena atroci ritorsioni, lasciato sotto il banco nella fretta, la mente già proiettata allo scoccare dell’ora X, all’urgenza di mettere più chilometri possibili tra sé e quelle facce che oggi gli davano la nausea più del solito.

Forse ce la faccio. A tornare là, recuperarmi le mie cose e levare le tende fino a domani. A evitare di mandare a prostituirsi il lavoro di settimane.

 

Strano a dirsi, nessuno ha avuto l’idea malsana di intascarsi il suo copione, il suo prezioso plico di fogli malamente pinzati. Ed è persino riuscito a passare inosservato.

Il sollievo gli fa quasi girare la testa – da quando sei così suscettibile?

Poteva andare molto peggio.

Dov’è che hai la testa?

Ancora tra le gambe di Andrea.

Può solo lasciarsi andare su una panchina nel piazzale, godersi l’inaspettata botta di fortuna e il tramonto incipiente. Shakespeare può attendere, con buona pace sua e di Eleonora Balducci.

Sospira. Vista da questa prospettiva, senza veleni a ribollire in superficie e convivenze forzate con gente che non vorresti nemmeno al tuo funerale, l’Accademia sembra quasi il Grand Hotel, bianca e viva contro il cielo dorato del tramonto e i baluginii rosso vivo tra le fronde degli alberi.

E poi, di colpo, uno schiaffo improvviso che lo riporta alla realtà. Qualcosa cambia, le prospettive si rovesciano. Niente più tramonti, niente silenzi così pastosi da rasentare lo stato onirico.

C’è qualcosa che non va. Non va per niente.

Dalla sua posizione sopraelevata, può socchiudere gli occhi e vedere non visto, regalarsi l’anteprima assoluta.

Accasciato contro la balaustra, fino a qualche secondo fa c’era solo Alex Thompson che fumava.

Non è più solo. Li osserva, e si sente mancare. Il gelo nelle ossa.

Calma.

Uno lo riconosce, è il tizio col codino e la faccia da pirata incazzoso che ieri ha dato in escandescenze. Non può vederlo in faccia, dalla sua posizione, ma, se si concentra bene, può sentire. Ed è quasi sicuro che stia ridendo insieme ai suoi due sgherri. Uno se ne sta in disparte come una garanzia – forse è quello che fa da palo – e sembra non sappia che farsene della borsa che tiene per la tracolla; l’altro gli sta inchiodato alle costole.

Basile, ecco com’è che si chiama. Il boss.

Un nodo d’angoscia gli taglia in due lo stomaco come una pugnalata, quando si rende conto con orrore che no, non ce la farebbe mai a intervenire in tempo. I postumi della canna di quella mattina – e di quelle che l’hanno preceduta –, le poche ore di sonno gli annebbiano la vista.

Fa’ qualcosa, Gabriele. Urla, attira l’attenzione, fa’ da esca. Interrompi l’allegro ménage, distraili con una scusa qualsiasi.

Scusate, sapete dov’è il bagno?

Voglia di vomitare l’anima e un assurdo presentimento incollato alle pareti dell’esofago.

Basile è troppo veloce per lui, per i suoi sensi intorpiditi dal calore asfissiante che gli batte sopra la testa.

Stupido, non dovevi sbracarti al sole! Sei una lucertola?

Troppi metri da coprire tra sé e il fulcro della tragedia. L’andatura troppo instabile. Basile, se vuole, ha tutto il tempo di ridurre Thompson in formato spalmabile e poi occuparsi di lui con tutta calma.

Tre contro uno non è leale.

- Oi, Thompson – Basile muove mezzo passo – Non sapevo che fumassi.

Pronti, puntare, fuoco!

Sono le sette e là sotto sta per consumarsi la strage dell’innocente.

Thompson continua a guardare fisso davanti a sé come sotto incantesimo, il volto pallido perfettamente immobile. Per un attimo, Gabriele si ritrova quasi ad ammirarlo.

- Lo sai che i bravi bambini non fumano di nascosto? – Basile ridacchia e gli strappa di mano la sigaretta fumata a metà – Non dovresti essere di là a far le valigie?

Thompson socchiude le palpebre e non lo degna di un’occhiata.

- Uhm… No. Direi proprio di no – scandisce con voce metallica.

L’apprendista suicida.

- Invece ti conviene fare il bravo, sai? – il compagno coraggioso, quello che sta sempre attaccato al culo di Basile, incalza verso Thompson, portandosi alle sue spalle come a bloccargli la via di fuga.

È il tipo coi capelli semilunghi e vagamente unti, un sorriso sbilenco perennemente stampato in faccia.

- Lo sai cosa succede, poi, ai bambini che non ubbidiscono?

Tutto si svolge troppo velocemente, come se qualcuno abbia azionato il turbo.

Tre contro uno è facile. Troppo facile. Non è leale, è la legge della giungla. Dov’è Lastella, quando serve?

Dov’è Derossi?

Forse faresti in tempo… Se non ti girasse tanto la testa e se una mano invisibile non ti trattenesse lì, pesante come piombo ad assaporare il gusto della tragedia sulla punta della lingua.

Basile si porta la sigaretta alle labbra, servendosi di una lunga boccata.

- Comunque, vedo che non sei ancora pronto. Vuoi perdere l’ultimo volo tratta Parigi-Londra-Fanculo?

- Per Fanculo non c’è mai l’ultimo volo. Ne partono di continuo – Thompson sorride e sembra trattenere una risata sull’orlo dell’isteria – Ma questo dovrebbe essere il tuo – sibila.

- Stronzetto, sei anche spiritoso – Basile brucia quegli ultimi centimetri di sicurezza che li separano – Fammi vedere se hai preso tutto. Cosa ti serve in viaggio? – ridacchia, e allunga la mano per stracciargli la borsa. Col cellulare e cazzi vari.

Le dita di Thompson si serrano sulla tracolla come tenaglie.

Non provarci.

- Tieni. Giù. Le. Mani.

Dio. Non è il momento di aggrapparsi unghie e denti alla propria dignità. È il momento di correre.

Basile gli afferra un polso e quasi glielo stritola. Fa male, a giudicare dalla faccia di Thompson, l’avambraccio scoperto dalla manica arrotolata che inizia a diventare viola. Cerca di strattonarlo via, invano.

L’altro stronzo alle sue spalle lo abbranca per i capelli e quasi gli torce il collo all’indietro.

Fine dello show.

Ripetilo adesso, Thompson.

Basile solleva la sigaretta ormai consumata dalla brace rossastra e gliela preme contro il braccio.

Un urlo stupefatto e una torsione inaspettata alla base della nuca.

Basile si avvicina ancora, quasi a togliergli il respiro, ad annullarlo con la sua presenza, e per un attimo sembra volergli sputare in faccia.

Due contro uno. Ma quell’uno è disarmato. Più un terzo uomo che fa il palo, che continua a oscillare da un piede all’altro come se non vedesse l’ora di gettarsi alle spalle tutto lo schifo.

Thompson si agita per liberarsi dalla presa duplice, lo sguardo che guizza da una parte all’altra come una slot impazzita, come un uccello in gabbia. Mugugna qualcosa di incomprensibile.

- No, brutto frocio di merda, non te ne vai così – gli alita Basile, annuendo al suo posto con fare allusivo – Non sei un idiota: hai capito – conclude, pasticciando con il mozzicone avanti e indietro sulla pelle martoriata finché le scintille non si esauriscono del tutto, per poi lasciarlo andare con uno strattone che lo inchioda al muro – Hai capito tutto, perfettamente. Patti chiari, amicizia lunga.

 

 

   
 
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