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Autore: Arlic Do Rei    25/06/2012    0 recensioni
- Il Bitume è una sostanza semisolida di colore nero. Veniva usata per rendere i muri delle case impermeabili all'acqua.
Una Casa di Bitume non permette infiltrazione né verso l'interno né verso l'esterno. Eppure non riesco a fare a meno di immaginarla come una grossa raccapricciante costruzione di melma scura. -
La vicenda tratta di una casa immaginaria senza una località fissa, un luogo diverso dal normale e abitato da persone ancora più insolite. Queste sono gli emarginati della società, coloro che si sono allontanati di propria iniziativa da un mondo incapace di stabilire con loro un rapporto sano.
Questa è la storia di Michele, un ragazzo che si è promesso di riprendersi la cosa più importante che la Casa di Bitume e Medardo gli hanno portato via.
Genere: Dark, Drammatico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Avanzava lento. La fretta è cattiva consigliera. Avanzava lento portando un passo dopo l'altro, accompagnandoli con grazia, con amore forse. Ora che era arrivato perché mai avrebbe dovuto avere fretta?
Appena mise piede nel cortile esterno percepì l'aria diversa, carica di tensione carica di elettricità. C'erano due uomini davanti al portone principale. Sollevò la testa: la magione si estendeva in tre punti abbracciando il cortile esterno pavimentato e miseramente abbellito da una fontana con serpi e rettili che gettavano acqua dalle fauci. La casa era buia, da nessuna finestra traspirava anche solo un bagliore di luce, niente faceva pensare che fosse effettivamente abitata. Mentre si avvicinava al portone principale la sua testa e il suo sguardo scorrevano da una parte all'altra della villa, osservava i bassorilievi, le decorazioni, quel sovrapporsi esagerato di stili, tra il classico e il decadente. Non c'era che dire: una casa mostruosa. Priva di gusto.
- Buonasera.
Il primo uomo gli porse un saluto cordiale sorridendo. L'altro rimase in silenzio in disparte. Thai abbassò lo sguardo e non sorrise.
- Buonasera a lei.
I due uomini non sembravano avere intenzione di farlo passare ma decise di non dare importanza alla cosa. Si fece strada per avvicinarsi al portone. Reattivo il primo uomo gli sbarrò la strada.
- Vai da qualche parte? - sogghignò.
- Lasciatemi passare.
Il secondo uomo non si mosse ma si coprì il volto per non farsi vedere. L'altro invece gli stava da pochi centimetri dal naso: era un uomo brutto, aveva un leggero olezzo di rum economico, i denti giallognoli, i capelli spenti e grigi, la pelle trascurata. Sembrava stanco.
- Sono desolato. Non sei sulla lista degli invitati.
A Thai l'ironia non era mai piaciuta. Non l'aveva mai divertito, in fondo la trovava un po' patetica. Era l'ultima arma che un uomo possedeva, probabilmente la più sorprendente e provocatoria, ma non la più efficente. La spada non necessitava di munizioni, non andava ricaricata, non bisognava riflettere sul come usarla, solo agire di istinto.
- Lasciatemi passare.
Non c'era nessun disturbo nella sua voce, nessuna increspatura, nessun tipo di emozione. Insicurezza alcuna.
- Forse non hai capito ragazzino. - L'uomo scostò la mantella che aveva addosso mostrando una pistola allacciata alla cintura.
- Non c'è proprio niente da scherzare. Questo posto non fa per te.
Il secondo uomo rimase immobile a guardare. Thai spostò lo sguardo su di lui, percepiva un occhiata gelida da parte dell'altro che lo fissava insistentemente ma con grande imbarazzo. Quasi non si sentisse all'altezza di chi avesse davanti. Ciò lo rallegrava: allora qualcuno si era accorto che era più di un ragazzino.
- Simon - proferì la seconda figura con un accento leggermente francese - Allontanati da lui.
- Cosa? Philippe ti ci metti anche tu adesso?
Simon cominciò a schiamazzare. Era volgare, era pacchiano, era insopportabile. A Thai serviva grande controllo per rimanere immobile, per tenere la sua destra ferma, le cui dita continuavano ad aprirsi e chiudersi come in una morsa letale, smaniose di afferrare qualcosa con forza. Magari l'impugnatura della sua spada. Niente gli dava più piacere che brandire vigorosamente la lama. Riusciva già ad immaginarsi la scena: la sua mano scendeva silenziosa alla cinta, con un colpo estreva la spada e con un solo taglio, flebile nell'aria, gli avrebbe tagliato la mano. Avrebbe poi continuato recidendo con precisione ossessiva e ritmo lento ma inesorabile, ogni suo arto, lasciando che il contenuto di ogni arteria e vena potesse ricoprire il suolo, le colonne, il porticato dove sostavano e il suo viso. Tutto quel sangue sul suo viso. Sospirò languidamente e abbassò la testa. Doveva controllarsi.
- Questo qui è diverso. 
Simon il vecchio si girò nuovamente verso Thai. "E' un ragazzino fragile, un corpicino gracile, appena vent'anni avrà" pensò.
- Se è tanto diverso mettiamolo alla prova.
Simon spostò la mano destra per afferrare la pistola. Ma era troppo tardi: stava già rotolando mozzata sul pavimento di marmo che ricopriva il porticato.
 
- Abbiamo ospiti. - sussurrò Medardo.
Tutti i presenti a tavola si fermarono. In alcuni si poteva leggere un lieve stupore o sorpresa, in altri la notizia lasciò totalmente indifferenti, quest'ultimi si erano immobilizzati solo per rispetto nei confronti del padrone. Medardo posò la forchetta, si portò il fazzoletto alla bocca e si ripulì educatamente. Stava mangiando anatra in salsa di mirtilli: squisita, apprezzava la carne al sangue e la buona cucina. Non poteva certamente dire lo stesso degli ospiti inattesi.
- Simon e Philippe sono morti.
Nessuna reazione da parte degli altri commensali.
- Scusate, chi sono? - la voce dolce di Greta spezzò il ghiaccio.
Medardo la guardò con compassione e tenerezza. Aveva un debole per lei. Le sorrise e con tono amorevole rispose:
- Servitù. Non ha importanza ormai.
Si portò la destra all'orecchio e prese a massaggiarsi il lobo, socchiudendo gli occhi, prestandovi attenzione, come se fosse una cosa preziosa e fragile. Qualcosa che andava protetto. Pensava alle scomodità di un estraneo che riusciva a uccidere le guardie a sangue freddo e senza farsi alcuno scrupolo. Una tale efferratezza e stupidità lo incuriosiva e lo infastidiva allo stesso tempo.
- Ma come fate... - aveva nuovamente preso la parola Greta - Come fate signor Medardo a sapere che è successo?
La ragazzina era la più giovane e inesperta tra i membri della famiglia. Non aveva molta dimestichezza con le capacità del padrone della casa e non aveva avuto modo di poterne fare conoscenza.
- Adelaide - la splendida donna voltò la testa sorridendo - fai sapere a Edgar che deve sbarazzarsi dei cadaveri. Nikolay - pronunciò con un tono più severo - vai a ricevere il nostro ospite.
Mentre l'altra faceva lo stesso preoccupandosi di non causare ulteriore disturbo, il nordico si alzò dalla sedia divertito  Era l'occasione perfetta per dimostrare la sua fedeltà e le sue abilità. Gettò un sguardo di sfida a Marco dall'altra parte del tavolo. Era anche l'occasione adatta per dimostrare al suo contendente di cosa fosse capace.
- E per cortesia - aggiunse Medardo - assicurati che il nostro estraneo capisca che non amo essere interrotto durante la cena.
Rispose il fazzoletto sulle ginocchia, afferrò la forchetta in una mano nell'altra il coltello e staccò un pezzo di carne. Lo intinse nella salsa.
- Spaccagli la testa se necessario, ma non macchiare il tappeto.
E lo divorò in un sol boccone.
 
Le porte della magione si spalancarono.
Avanzava lento. Con calma. Senza fretta. Con la sinistra trascinava il corpo di Philippe. Lasciava un enorme macchia di sangue dietro di sé, una macchia di sangue lucido e brillante sul pavimento bianco. Era tutto così assurdo: l'aveva fatto di nuovo. Lasciò cadere il corpo e rinfoderò la spada. Si stroppicciò gli occhi: non sapeva dire quale dei due, se le mani o il viso, fossero più intrisi di sangue, poi le sue vesti erano luride, c'erano macchie, segni, tracce ovunque. Lo aveva fatto di nuovo. Aveva ucciso. Si era dimenticato la sensazione che gli dava: potere.
- Non hai avuto molto riguardo.
La stanza di ingresso era bianca, dalla pianta ovale e si estendeva per una ventina di metri, su una punta era collocato il portone di ingresso che aveva appena varcato e sull'altro una mirabile scalinata che portava ai piani superiori. Un uomo giovane, dai lineamenti duri e nordici ridacchiava con aria arrogante. Era la sua voce ad aver risuonato dandogli un caloroso benvenuto.
- Non volevano farmi entrare.
- Avresti potuto bussare o quantomeno chiedere "Perfavore".
Thai aveva ancora tutto il sangue di quei due uomini addosso. E considerando che nell'organismo di un essere umano adulto circolano in media cinque litri di sangue poteva spiegare perché si sentisse il gusto fin nello stomaco. L'odore aveva appestato la sala di ingresso.
- Hai reciso loro gambe e braccia. - incrociò le braccia come se fosse infastidito dalla cosa - Che uomo crudele.
Si vedeva dall'espressione di quel nordico e dal suo ghigno che non pensava veramente quello che stava dicendo. Doveva trattarsi di altra ironia, una cosa che Thai non gradiva due volte in una giornata. Inoltre lo turbava quella voce baritonale dall'accento strano.
- Hai un accento strano. Cosa sei? Russo?
Quello sorrise. Fino ad allora doveva essere l'unico ad aver indovinato al primo tentativo 
- Nikolay Petruski è mio nome.
- Appunto.
Thai cominciò a fare qualche passo in avanti, sguainò nuovamente la spada scintillante e un rumore metallico accompagnò le sue parole.
- Tuo nome, prego?
- Non credo sia rilevante.
- Ma io voglio sapere nome di vita che sto per spegnere.
Thai rimase un momento immobile. Lo squadrò: non aveva pistole ne spade con sé, era tutto impacchettato per bene in un vestito da sera per uomo, un completo elegante con tanto di cravatta, ma oltre a questo non aveva nulla tra le mani.
Era forse ammattito? Si lasciò scappare una risata. In guerra ne aveva visto di cose orrende e assurde, persino i bambini impugnare le mitragliatrici e cercare di ammazzarlo; ma un uomo disarmato che ne affrontava un altro munito di spada. No, questo non lo aveva ancora visto.
- Per dire certe cose ti servirebbe qualcosa di più della tua prestanza fisica.
- Non ti preoccupare. Ho tutto quello che mi serve. Proprio qui.
Con la punta delle dita si batte tre volte sul petto. Il suo corpo? Era questa la sua carta vincente, la sua arma? Doveva essere proprio ammattito.
 
Zeno si accese un altra sigaretta. Scrutava nella notte buia, tra le stelle, tra le cime degli alberi, nel volo raro di qualche ucello o di qualche pipistrello a caccia, cercava qualcosa, un segno, magari un presagio o un augurio di buona fortuna. Era sempre stato superstizioso. La vita non era un susseguirsi casuale di eventi. già di per sé l'organismo umano era qualcosa di troppo perfetto, di infinitamente complesso e articolato per essere stato creato da un semplice casualità, da degli organismi che in condizioni favorevoli si erano semplicemente "evoluti". No, secondo Zeno, era stata la volontà di una creatura cosciente. Ma lui non lo chiamava Dio ne tanto meno Signore, non si poteva trattare dell'incarnazione del sommo bene, della somma bontà e della perfazione. poiché quella volontà era diabolica. La vita era una gabbia, era limitata da vincoli, era una strada in salita lastricata di trappole e dei cadaveri di chi era stato sconfitto. Perchè mai avrebbe dovuto dimostrare riconoscenza a qualcuno che lo aveva scaraventato in un mondo così? Non si poteva certamente trattare di un Dio. Magari di un Demone. L'uomo non poteva che essere la malefica invenzione di qualcuno, o no? Dopotutto la guerra era qualcosa proprio dell'uomo. Gli animali in natura si ammazzavano solo per questioni di sopravvivenza, perché qualcuno rubava il cibo a qualcun altro. Ma gli uomini erano più astratti, ammazzavano per soldi, per donne, per sentimenti a volte come la rabbia o la gelosia. Veramente avrebbe dovuto pensare che tutto questo era volto a un piano celeste, divino e perfetto? Era più facile pensare la volontà del Demonio avesse dato vita a tutti loro per riempire le giornate noiose dei mostri che da qualche parte dal cielo li guardavano e sceglievano al posto loro.
Spense la sigaretta con il piede. Accanto a lui c'era un grosso cane nero, massicio e robusto, pareva un lupo ma possente e docile allo stesso tempo. Gli passo una mano sull'ispido pelo. Quello non si mosse. Stava con la lingua a penzoloni e fissava il cancello della casa: oscillava accompagnato dallo stridio insopportabile dei cardini.
 
Il russo non cadeva. Rimaneva in piedi, con il completo fatto a brandelli e pezzi di tessuto sparsi qui e lì sul pavimento, rimaneva immobile nell'attesa che venisse colpito, che venisse ferito.  Non cadeva. Thai ansimava a pochi passi da lui, stremato ma illeso, la lama ancora alta carica di sfida, di sfrontatezza, di superbia. Ci aveva provato. Aveva brandito violentemente la spada su Nikolay almeno una decina di volte, ma la sua pelle pareva fatta di roccia o di metallo, non si tagliava, non sanguinava e ogni volta che si lanciava su di lui con l'idea di staccargli un braccio ad attenderlo c'era solo il tintinnio della lama che pareva rimbalzare sul corpo del russo. Era assurdo, era inumano.
Nikoly dal canto suo se la rideva.
- Allora piccolo uomo, quando è che cominci a fare sul serio?
Quello era solo il primo dei mostri della casa.
  
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