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Autore: Khadija    25/06/2012    3 recensioni
- La gente ha bisogno di questo, Edward. Ha bisogno di essere presa per mano. Di rassicurazioni. Di qualcuno che venga a dirle che tutto andrà bene- disse guardandomi con gli occhi di chi non mente.
- Andrà tutto bene- risposi io, senza aggiungere nulla.
Capii che l’avrei amata sin dal primo sguardo. Nei suoi occhi l'infinito! Sussultai quando la sua mano si posò sulla mia guancia... socchiusi i miei occhi.
Ebbi paura. Paura di me! Un vortice di sensazioni, un brivido freddo lungo la schiena. Panico, batticuore.
Dissolto ormai il mio guscio. I pensieri incalzavano. Sentimenti amorevoli...di tenerezza, d'amicizia, poi...
Quest’amore proibito.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Coppie: Bella/Edward
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun libro/film
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Forbidden Love - Amore Proibito

 

 

 

Isabella pov:

Erano le quattro del mattino, maglietta leggera, scarpe da ginnastica, e cominciai a correre, stranamente senza sentire freddo.
Il mio corpo profumava più del solito quella notte, fresco nel vento, di quel profumo rassicurante che spesso mandava.
Correvo senza mai fermarmi, i muscoli che dolevano, ma era un dolore sopportabile, che preferivo ignorare.
Era come se il mio corpo non esistesse, non mi appartenesse più.
Alzai il volume della musica, accelerando quella corsa sfrenata, senza mai fermarmi, senza guardarmi indietro. Senza sapere dove andare.

I wish I was free of this
I see her in my dreams
Wish that she wasn't there.

La vedo. La vedo nel mio sogno tendermi le mani, le sue labbra accennano a un sorriso, il suo volto, incorniciato da una folta chioma castana, ha un espressione dolce e serena, ma solo all’apparenza. Dai suoi occhi traspare un senso di sofferenza e infelicità, che sempre hanno caratterizzato il carattere di mia madre. Quasi sento il bisogno di abbracciarla e rassicurarla.

“No, dannata”. Ancora soffoco nelle sue bugie, nel suo odio. Nel suo disprezzo.

Saltai un tombino aperto. Mi fermai a guardare il baratro. Probabilmente saranno stati 12 piani.
Il vento soffiava tra i miei capelli: 12 piani, 43 metri, 3 secondi netti in caduta libera, ma non mi importava, sarei potuta morire in quel preciso istante, e non me ne sarebbe importato nulla. Alzai ancora il volume della musica per cercare di non sentire più nemmeno i miei pensieri. Correvo via dalla rabbia. Pura rabbia, violenta e irrefrenabile. Mi fermai solo quando cominciai a sentire i polmoni bruciare, e perfino le ossa dolere.
Di quella volta ricordo di aver pianto come mai prima. Lacrime che scendevano copiose lungo le guance. E non c’era modo di fermarle. Troppo fragile. Troppo stanca. Stanca di combattere contro il mio passato. Stanca di portarmi dietro quel rancore. Ero convinta di aver finalmente imparato a gestire le mie emozioni, ad accatastare in una remota parte del mio cuore ciò che mi aveva profondamente segnato in passato. Non era così. E ciò mi rendeva ancora più furiosa.

Quando ero piccola provavo molta invidia per le altre bambine perché avevano una mamma sempre pronta a difenderle e a sgridare chi gli portava via un giocattolo o dava loro uno spintone. La mia non interveniva mai. E quando correvo a lamentarmi per una prepotenza o un dispetto, l’invariabile risposta era: «E tu che cosa hai fatto?». Tutto ciò portò all’edificazione di una specie di corazza, intorno a me, che con gli anni e gli avvenimenti drammatici si rafforzò notevolmente. Spesso la sera mi soffermavo nel letto a pensare, e tante volte anche involontariamente, una lacrime scendeva lungo la mia guancia. Pensavo a quanto l’infanzia avrebbe dovuto corrispondere ad una fase della vita spensierata e priva di responsabilità. E per molte altre bambine era così. Ma non per me. Pensavo a cosa avesse mai potuto fare di così dannoso una bambina di soli cinque anni, per essere riuscita a farsi trattare in quel modo? A farsi odiare… in quel modo. Dicevo di aver imparato a sopportare, a fingere di ascoltare, anche solo a capire, ma non era così. Le continue ingiurie che Renee mi lanciava, gli sguardi riottosi e di puro odio, la consapevolezza che fossi un peso, un rifiuto, facevano male, e a quanto pare il ricordo è ancora più doloroso.

«Buongiorno». Papà mi rivolse uno sguardo mentre versava del caffè in un thermos. «Devo partire per diversi giorni. A Seattle. Un caso di massima urgenza, diciamo. Penso che per il prossimo lunedì sarò di ritorno». Battei le palpebre diverse volte; avevo la vista annebbiata. Sentivo il corpo pesante e intorpidito dalla corsa. «E’ inutile che mi parli. Sto ancora dormendo» mentii. Attraverso la nebbia cominciai a sentire un leggero senso di colpa, per non essere stata più gentile. Non lo vedevo da anni, e ora sarebbe partito anche se per poco tempo, ma era passato ancora più tempo dall’ultima volta che avevamo avuto una conversazione che meritasse di essere definita tale. «Devo sbrigarmi. Ci vediamo presto Charlie» lo salutai con un gesto della mano e allontanandomi dalla cucina lo sentii sospirare rassegnato.

Alla prima ora scolastica avremmo dovuto avere lezione di musica, ma il professore, che ancora non conoscevo, era leggermente in ritardo. Pochi secondi prima che entrasse mi abbassai il cappuccio, spensi l’iPod e cominciai a fingere di leggere un libro. Il nuovo professore era favoloso. Lo sapevo senza neanche alzare lo sguardo. Era evidente. D’altronde come poteva essere altrimenti, se due ragazze di fronte a me cominciarono a bisbigliare eccitate. “Edward Cullen è l’uomo più figo che io abbia mai incontrato…” disse una biondina altezzosa, che avrei dovuto imparare a sopportare. Edward Cullen… E-e-edward?

Trattenni il respiro per un tempo indeterminato, mentre il cuore cominciò a scalpitare freneticamente. 

Trovai il coraggio di guardarlo solo quando mi giunse limpidamente il suono della sua voce. Una voce sensuale, calda, rovente… sconvolgente, e… oh mio dio!

Incontrai i suoi occhi verdi che mi guardavano, brillavano di una strana luce. Sorridevano, erano sinceri e maledettamente dolci. Sulle labbra morbide e sensuali stava nascendo un sorriso che non si voleva far notare. Dio, era così sexy in giacca e cravatta.

La prima volta che lo incontrai non feci caso ai particolari del suo viso, non c’era tempo. Ma poi… poi fu incredibile. Mi incantai nel guardarlo. Mi persi nel verde dei suoi occhi, nei suoi folti capelli ramati, scomposti ma comunque perfetti. Che incredibile visione.

Rimasi attenta per tutto il resto della lezione, intenzionata a fare una buona figura. Lo ascoltai parlare. Era senza alcuna ombra di dubbio un uomo di vasto, versatile e colto ingegno. Il modo in cui si esprimeva alla classe, mettendo enfasi e un pizzico di ironia in ogni frase, parola, anche nei silenzi. Riuniva possanza ed eleganza anche nel più banale dei movimenti e poneva precisione e raffinatezza perfino nella grafia.

Non ritenevo possibile che tante qualità, e chissà quante altre, potessero riunirsi in un’unica persona. Ma lui era la prova vivente. Un uomo esemplare.

Il suono della campanella che segnava il termine della lezione era quasi un dispiacere. Mi ero così abituata al suono della sua voce, che speravo non smettesse mai di parlare. Cominciai molto lentamente a raccattare i libri sparsi lungo il banco. Lentamente, perché ero seriamente intenzionata a rivolgerli la parola, anche solo un cordiale saluto. Quando anche gli ultimi alunni uscirono contenti dall’aula, mi preparai mentalmente un discorsetto efficace, ma andò tutto a farsi fottere quando sentii pronunciare il mio nome.

«Isabella…» ripeté Edward, quasi a volersi convincere che fossi io. Ero di spalle, e avrei voluto rimanere tale, ma sentivo il peso dei suoi occhi sulla mia figura immobile, e più che altro era solo questione di maleducazione non rispondere al proprio professore. Sospirai sconfitta e mi girai accennando un lieve e forzato sorriso.

«Professor Cullen» risposi di rimando, stringendo forzosamente i libri, che portai al petto pochi istanti dopo.

«Pensi che come primo giorno di lavoro sia andato bene?» chiese timidamente, portandosi una mano alla testa. Rimasi perplessa dinnanzi a quella domanda, ma feci cenno di si. «Alla grande. Incontrandola ieri non avrei mai immaginato che facesse il professore, anzi a dirla francamente supponevo fosse uno studente» affermai sinceramente. Rise di buon gusto. Che dolce melodia.

«Non sei la prima a dirmelo Isabella… sarà l’apparenza che forse inganna, o anche il fatto di essere abbastanza giovane per questo tipo di lavoro» ribadì. Evitai di chiedere quanti anni avesse, forse perché la paura di sembrare impertinente sovrastava la curiosità. Dunque sibilai pensosa un semplice «probabile…».

 

Rimanemmo entrambi in un imbarazzante silenzio, che durò diversi minuti. Cominciai a guardarmi attorno, a guardami i piedi, le mani. Cominciai a toccarmi i capelli, a mordermi le labbra. Mi sentivo così fuori luogo.

«Bhè non voglio trattenerti più del dovuto, rischiando così di farti tardare alla prossima lezione, perciò a domani… Bella» sorrise, ricordandosi di come il giorno prima gli avevo suggerito di chiamarmi con il mio soprannome. Sorridendoli a mia volta lo salutai e frettolosamente mi incamminai verso l’aula che seguiva.

Una volta fuori, una vocina mi sussurrò dentro un pensiero tentatore…

Un pensiero che subito depennai.

Angolo autrice:

Salve a tutte quante. Allora inizio ringraziando con il cuore chi mi segue, e continuo con il dire che come avete letto voi stesse, in questo capitolo più che altro viene fuori tutto il dolore e tutto l’astio di Isabella nei confronti della madre. Questo è un argomento che sicuramente approfondirò più avanti. Spero comunque che non sia stato troppo noioso, e in caso fatemi sapere. Ci terrei veramente tanto.

Vi mando un bacio e alla prossima.

:*

  
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