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Autore: TheOnlyWay    25/06/2012    19 recensioni
Cicatrice
[ci-ca-trì-ce] s.f.
• 1 Tessuto che si ricostituisce dopo un trauma o un processo morboso dei tessuti molli animali o vegetali; segno visibile del processo di cicatrizzazione
• 2 fig. Ricordo di un'esperienza dolorosa
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Niall Horan, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Cicatrici

 

 

 

 

 

 

 

 

Cicatrice

[ci-ca-trì-ce] s.f.

·                                


            1
 Tessuto che si ricostituisce dopo un trauma o un processo morboso dei tessuti molli animali o vegetali; segno visibile del processo di cicatrizzazione.

·                                  2 fig. Ricordo di un'esperienza dolorosa.

 

 

 

Fosse così semplice. O bastasse sapere questo.

 

Tutti, abbiamo delle cicatrici. Alcune, è vero, derivano da incidenti e lasciano un segno visibile. È così semplice, spiegare da dove provengono.

 

“Sai, sono scivolata. Caduta sul marciapiede. Mi sono scottata.”

 

Sono quelle cicatrici che non fanno male per sempre. Quelle che ti dimentichi addirittura di avere, perché del tutto prive di importanza. Insomma, non c’è una storia da raccontare, dietro ad una scivolata. O forse si, ma non è niente di importante.

 

 

 

 

~

 

 

 

 

“La sofferenza peggiore è nella solitudine che l'accompagna.”

André Malraux, La condizione umana, 1933

 

 

Annabeth era piena di cicatrici. Ne aveva tantissime: una volta aveva provato a contarle tutte, ma quando era arrivata a quindici, aveva perso il segno e aveva rinunciato.

 

C’era quella sul ginocchio, di quella volta che quell’energumeno di Ryan Saunders l’aveva spinta mentre correvano sulla pista di atletica della scuola. Oltre al taglio, non le aveva fatto troppo male. Era solo un piccolo dispetto da parte di un bullo arrogante. Ma l’umiliazione di ritrovarsi stesa per terra, non l’avrebbe mai dimenticata.

 

C’era quell’altra, quella scottatura sul braccio. Ryan ci aveva spento la sigaretta, dopo che  lei si era “permessa” di guardarlo storto, solo perché le aveva buttato l’intero pranzo nel cestino.

 

E poi c’erano quelle sui polsi. Erano numerose, quelle. Forse una decina, forse di più. Ed era sempre per colpa di Ryan, che non aveva fatto altro se non renderle la vita un inferno. E lei, che non era riuscita a trovare nessuna valvola di sfogo, aveva pensato che se avesse sofferto per un altro motivo, forse si sarebbe dimenticata della sua infelicità.

 

Aveva funzionato, per un po’.

 

Il dolore bruciante e il sangue l’avevano distratta abbastanza a lungo da scordarsi persino del perché aveva preso in mano quella lametta. Così, una volta che aveva capito il meccanismo, era diventato fin troppo facile chiudersi in bagno – o in qualsiasi altro posto, non importava dove – ed estraniarsi, almeno per un po’, da quella realtà di ingiustizia e di dolore che, nel profondo del suo cuore, era certa di non meritarsi affatto.

 

Andava tutto bene, davvero. Si sentiva un po’ debole, ma non tagliava mai tanto a fondo da rischiare di perdere i sensi e dissanguarsi. Non era mica pazza, lei. Sapeva qual’era il limite e non si spingeva oltre.

 

Nessuno immaginava cosa succedesse, nella sua testa. Per gli altri, lei era la solita Annabeth. Quella pacata, studiosa e votata al quieto vivere. Quella che se poteva aiutava tutti, senza chiedere niente in cambio. Quella che non rispondeva a Ryan Saunders solo perché non voleva litigare, perché con l’anima buona che si trovava, non avrebbe sostenuto uno scontro aperto.  

 

Nessuno riusciva a capire la sua sofferenza. Nessuno. Né Coleen, che era troppo impegnata ad inseguire un ragazzo diverso ogni giorno, né Monica, che ormai pensava solo al suo futuro e a quale college avrebbe scelto. Né sua madre, suo padre, suo fratello.

 

Annabeth era sola e nessuno sarebbe arrivato ad aiutarla. Avrebbe continuato a crogiolarsi nel dolore, nella sofferenza e nella solitudine.

 

Era una brutta bestia, la solitudine. Forse più dell’ingiustizia, forse più dei tagli. Cosa c’era di peggio, di quel senso di smarrimento e abbandono, che le impediva di dormire la notte, di concentrarsi sugli studi, di smettere di farsi del male?

 

Era colpa della solitudine, se lei non trovava via di scampo.

 

Poi era arrivato Niall.  

 

 

 

~

 

 

 

 

“Non c’è speranza senza paura, né paura senza speranza.”

Carol Wojtyla

 

 

 

 

 

Niall si era trasferito da Mullingar quando l’anno scolastico, ormai, era giunto a metà. Si era presentato in classe con ben mezz’ora di ritardo e si era scusato con il professor Grant dicendo che aveva sbagliato classe per ben cinque volte, prima di trovare quella giusta.
 
Grant, che in genere mal tollerava i ritardi, aveva annuito seccamente e aveva ordinato a Niall di sedersi accanto alla signorina Hollister. Annabeth, che ormai si era abituata a non condividere il banco con nessuno, si era irrigidita parecchio.
 
Niall le si era seduto accanto e aveva sorriso, mettendo in mostra l’apparecchio per i denti. Tuttavia, lei non vi aveva fatto caso, troppo impegnata com’era a fissare il suo quaderno degli appunti.
 
«Come ti chiami?» aveva domandato Niall, alla fine delle lezioni. Annabeth, che camminava rasente al muro e con lo sguardo basso, si era guardata intorno, cercando di capire se quelle parole fossero davvero state rivolte a lei.
 
«Si, dico a te.» aveva confermato lui, tenendole la porta aperta per farla passare. Annabeth era arrossita lievemente e aveva farfugliato un ringraziamento.
«Annabeth. Mi chiamo Annabeth.» aveva risposto, dopo qualche secondo. Niall si era presentato a sua volta, tendendole la mano. Lei l’aveva guardata dubbiosa per qualche istante, aveva valutato se la maglia che indossava fosse abbastanza lunga da coprirle i polsi e poi aveva stretto la mano di Niall con titubanza.
 
Avevano parlato tante volte, dopo quel giorno. O, almeno, Niall parlava, Annabeth si limitava ad ascoltare, qualche volta a sorridere timidamente. Ma era da un paio di settimane, che la lametta giaceva abbandonata sul fondo del terzo cassetto del comò e lei si sentiva stranamente serena. Non felice, quello non ancora.
 
E il merito era di Niall. Perché lui era riuscito a superare quella barriera che lei aveva costruito tra sé e il resto del mondo e l’aveva fatto con discrezione, con delicatezza e con il sorriso. Alla perpetua sensazione di solitudine, era subentrata la speranza. E, insieme a lei, anche la paura. Perché se anche Niall le avesse voltato le spalle, Annabeth non era certa che sarebbe riuscita a riprendersi.
 
Perché se le cicatrici sui polsi erano guarite, lo squarcio che aveva nel cuore era ancora aperto, e sanguinava.
 
 
 
~
 
 
 
 
«Non dovresti frequentarla, Niall. Girano strane voci, su di lei.» aveva detto Coleen. Niall aveva inarcato un sopracciglio, palesemente perplesso, ma interessato.
 
Aveva notato anche lui che in Annabeth c’era qualcosa di strano. Qualcosa che andava aldilà della sua timidezza, o delle occhiate imbarazzate o delle poche parole che pronunciava.
Tutto, in quegli occhi, sembrava gridare “aiuto”.
 
«Quali voci?» aveva domandato.
Coleen aveva sospirato, con aria teatrale, prima di accarezzare la spalla di Niall con un po’ di malizia. Niall si era scostato, infastidito.
«Allora?»
«Si dice in giro che lei si… be’, sai… si tagli.» aveva confessato infine, con una punta di soddisfazione. Niall si era trattenuto a malapena dal tirarle uno schiaffo. Non sopportava che parlassero in quel modo di Annabeth.
 
La sua Annabeth, così dolce e così indifesa. Così timorosa di affrontare le situazione a viso aperto, perché qualunque cosa – qualsiasi – sarebbe stata abbastanza da distruggerla.
 
E allora Niall decise che sarebbe toccato a lui, accogliere la sua richiesta d’aiuto.

 

~

 

 

 

Annabeth aveva distolto lo sguardo dal libro per rivolgerlo alla porta, oltre la quale qualcuno bussava insistentemente da oltre dieci secondi.

Non aveva voglia di vedere nessuno, quel giorno.

«Sto per entrare, ti avverto.»

Aveva riconosciuto immediatamente la voce di Niall e si era stupita del tono duro che aveva usato. Aveva fatto qualcosa di sbagliato?

 

Sentì la paura attanagliarle le viscere. Crudele, senza lasciarle scampo.

Poi la porta si era aperta e Niall era entrato in camera, si era guardato intorno con circospezione e aveva individuato Annabeth.

Gli si era stretto il cuore, perché sembrava così piccola e così indifesa che l’unica cosa che era riuscito a fare era stato sedersi accanto a lei e stringerla in un abbraccio.

 

Annabeth aveva lasciato che Niall le circondasse le spalle con le braccia e si era rifugiata contro il suo petto, in un abbraccio caldo e confortante. Non le capitava da tempo, di sentirsi così al sicuro stretta tra le braccia di qualcuno.

Dopo qualche minuto, che ad entrambi parve lungo un secolo, Niall si era separato e si era seduto sul letto con le gambe incrociate.

 

«Dobbiamo parlare.»

 

Eccolo, il panico. Stava per dirle che non voleva più parlarle, perché si era accorto di quanto lei fosse insignificante rispetto a tutte le altre. Stava per dirle che non poteva credere di aver perso tanto tempo prezioso insieme a lei. Stava per dirle che…

 

«Fammi vedere i polsi, Annabeth.»

 

Lei aveva scosso la testa, terrorizzata all’idea che qualcun altro oltre lei fosse a conoscenza del suo segreto e aveva raccolto le mani in grembo.

Niall aveva sospirato, poi, con fermezza, le aveva afferrato la mano destra e aveva sollevato la manica della maglietta.

 

Annabeth aveva chiuso gli occhi, per nascondergli le lacrime che premevano per uscire e aveva aspettato il momento in cui Niall si sarebbe dichiarato inorridito e disgustato. E lei sarebbe rimasta sola. Ancora.

 

Poi aveva sentito qualcosa di delicato e tiepido sfiorare le cicatrici con gentilezza. Aveva socchiuso prima un occhio, poi un altro ed era arrossita violentemente, quando si era resa conto che quel qualcosa erano le labbra di Niall.  

 

Allora era scoppiata a piangere, come una bambina e, con il corpo squassato dai singhiozzi, si era rannicchiata al fianco di Niall. Lui non si era minimamente scomposto, anzi. Le aveva accarezzato la schiena con dolcezza e le era rimasto accanto fino a che i singhiozzi non erano cessati.

Solo allora aveva parlato.

 

«Non sei sola, Annabeth. Non lo sarai mai più.»

 

 

 

~

 

 

 

 

E poi ci sono le altre cicatrici.

 

Quelle che, come dice il vocabolario, sono “ricordo di un’esperienza dolorosa”.

A volte lasciano segni visibili, come delle linee traslucide in prossimità dei polsi, o sull’avambraccio. Altre, non sono tangibili e non sono facilmente individuabili. Sono quelle, le peggiori.

 

Perché per risanarsi e chiudersi, richiedono tempo, cura e dedizione.

 

Sono quelle cicatrici che cerchiamo di lasciare nascoste, invisibili. Quelle che proteggiamo con tutta la nostra forza di volontà, perché riaprirle è molto più facile e veloce che richiuderle.

E molto più doloroso. E, una volta che il dolore è tornato a galla, è sempre più difficile riportarlo a fondo.

 

A meno che non ci sia qualcuno pronto a sorreggerti e a portarti in salvo. Solo allora, forse, quelle cicatrici smetteranno di fare male.

 

 

 

~

 

 

 

Questa One-Shot è stata in assoluto la più difficile che io abbia mai scritto. Probabilmente non è neanche eccezionale e perfetta, ma mi ha scosso. Non lo so perché.

E non sono neanche brava a trattare temi così forti, perché non ho mai provato niente del genere. Almeno, non fino a questo punto.

Perciò chiedo scusa se ho urtato qualcuno, o se ho scritto una marea di stupidate. Non era mia intenzione.

Detto questo, spero che vi sia piaciuta.

Se volete, fatemi sapere cosa ne pensate.

Con affetto,

Fede.  

   
 
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