Cicatrici
Cicatrice
[ci-ca-trì-ce] s.f.
·
1 Tessuto
che si ricostituisce dopo un trauma o un
processo morboso dei tessuti molli animali o vegetali; segno visibile
del
processo di cicatrizzazione.
·
2 fig. Ricordo
di
un'esperienza dolorosa.
Fosse
così semplice. O bastasse sapere questo.
Tutti,
abbiamo delle cicatrici. Alcune,
è vero, derivano da incidenti e lasciano un segno visibile.
È così semplice,
spiegare da dove provengono.
“Sai,
sono scivolata. Caduta sul marciapiede. Mi sono scottata.”
Sono
quelle cicatrici che non
fanno male per sempre. Quelle che ti dimentichi addirittura di avere,
perché del
tutto prive di importanza. Insomma, non c’è una
storia da raccontare, dietro ad
una scivolata. O forse si, ma non è niente di importante.
~
“La
sofferenza
peggiore è nella solitudine che l'accompagna.”
André
Malraux, La
condizione umana, 1933
Annabeth era piena
di cicatrici. Ne aveva
tantissime: una volta aveva provato a contarle tutte, ma quando era
arrivata a
quindici, aveva perso il segno e aveva rinunciato.
C’era
quella sul ginocchio, di quella volta
che quell’energumeno di Ryan Saunders l’aveva
spinta mentre correvano sulla
pista di atletica della scuola. Oltre al taglio, non le aveva fatto
troppo
male. Era solo un piccolo dispetto da parte di un bullo arrogante. Ma
l’umiliazione
di ritrovarsi stesa per terra, non l’avrebbe mai dimenticata.
C’era
quell’altra, quella scottatura sul
braccio. Ryan ci aveva spento la sigaretta, dopo che lei
si era “permessa” di guardarlo storto,
solo perché le aveva buttato l’intero pranzo nel
cestino.
E poi
c’erano quelle sui polsi. Erano numerose,
quelle. Forse una decina, forse di più. Ed era sempre per
colpa di Ryan, che
non aveva fatto altro se non renderle la vita un inferno. E lei, che
non era
riuscita a trovare nessuna valvola di sfogo, aveva pensato che se
avesse
sofferto per un altro motivo, forse si sarebbe dimenticata della sua
infelicità.
Aveva
funzionato, per
un po’.
Il dolore bruciante
e il sangue l’avevano
distratta abbastanza a lungo da scordarsi persino del perché
aveva preso in
mano quella lametta. Così, una volta che aveva capito il
meccanismo, era
diventato fin troppo facile chiudersi in bagno – o in
qualsiasi altro posto,
non importava dove – ed estraniarsi, almeno per un
po’, da quella realtà di
ingiustizia e di dolore che, nel profondo del suo cuore, era certa di
non
meritarsi affatto.
Andava tutto bene,
davvero. Si sentiva un po’ debole,
ma non tagliava mai tanto a fondo da rischiare di perdere i sensi e
dissanguarsi. Non era mica pazza, lei. Sapeva qual’era il
limite e non si
spingeva oltre.
Nessuno
immaginava
cosa succedesse, nella sua testa. Per gli altri, lei
era la solita Annabeth.
Quella pacata, studiosa e votata al quieto vivere. Quella che se poteva
aiutava
tutti, senza chiedere niente in cambio. Quella che non rispondeva a
Ryan
Saunders solo perché non voleva litigare, perché
con l’anima buona che si
trovava, non avrebbe sostenuto uno scontro aperto.
Nessuno riusciva a
capire la sua sofferenza. Nessuno.
Né Coleen, che era troppo impegnata ad inseguire un ragazzo
diverso ogni
giorno, né Monica, che ormai pensava solo al suo futuro e a
quale college
avrebbe scelto. Né sua madre, suo padre, suo fratello.
Annabeth era sola e
nessuno sarebbe arrivato
ad aiutarla. Avrebbe continuato a crogiolarsi nel dolore, nella
sofferenza e
nella solitudine.
Era una brutta
bestia, la solitudine. Forse più
dell’ingiustizia, forse più dei tagli. Cosa
c’era di peggio, di quel senso di
smarrimento e abbandono, che le impediva di dormire la notte, di
concentrarsi
sugli studi, di smettere di farsi del male?
Era
colpa della
solitudine, se lei non trovava via di scampo.
Poi
era arrivato Niall.
~
“Non
c’è speranza senza paura, né paura
senza speranza.”
Carol Wojtyla
Grant, che in genere mal tollerava i ritardi, aveva annuito seccamente e aveva ordinato a Niall di sedersi accanto alla signorina Hollister. Annabeth, che ormai si era abituata a non condividere il banco con nessuno, si era irrigidita parecchio.
Niall le si era seduto accanto e aveva sorriso, mettendo in mostra l’apparecchio per i denti. Tuttavia, lei non vi aveva fatto caso, troppo impegnata com’era a fissare il suo quaderno degli appunti.
«Come ti chiami?» aveva domandato Niall, alla fine delle lezioni. Annabeth, che camminava rasente al muro e con lo sguardo basso, si era guardata intorno, cercando di capire se quelle parole fossero davvero state rivolte a lei.
«Si, dico a te.» aveva confermato lui, tenendole la porta aperta per farla passare. Annabeth era arrossita lievemente e aveva farfugliato un ringraziamento.
«Annabeth. Mi chiamo Annabeth.» aveva risposto, dopo qualche secondo. Niall si era presentato a sua volta, tendendole la mano. Lei l’aveva guardata dubbiosa per qualche istante, aveva valutato se la maglia che indossava fosse abbastanza lunga da coprirle i polsi e poi aveva stretto la mano di Niall con titubanza.
Avevano parlato tante volte, dopo quel giorno. O, almeno, Niall parlava, Annabeth si limitava ad ascoltare, qualche volta a sorridere timidamente. Ma era da un paio di settimane, che la lametta giaceva abbandonata sul fondo del terzo cassetto del comò e lei si sentiva stranamente serena. Non felice, quello non ancora.
E il merito era di Niall. Perché lui era riuscito a superare quella barriera che lei aveva costruito tra sé e il resto del mondo e l’aveva fatto con discrezione, con delicatezza e con il sorriso. Alla perpetua sensazione di solitudine, era subentrata la speranza. E, insieme a lei, anche la paura. Perché se anche Niall le avesse voltato le spalle, Annabeth non era certa che sarebbe riuscita a riprendersi.
Perché se le cicatrici sui polsi erano guarite, lo squarcio che aveva nel cuore era ancora aperto, e sanguinava.
«Non dovresti frequentarla, Niall. Girano strane voci, su di lei.» aveva detto Coleen. Niall aveva inarcato un sopracciglio, palesemente perplesso, ma interessato.
Aveva notato anche lui che in Annabeth c’era qualcosa di strano. Qualcosa che andava aldilà della sua timidezza, o delle occhiate imbarazzate o delle poche parole che pronunciava.
Tutto, in quegli occhi, sembrava gridare “aiuto”.
«Quali voci?» aveva domandato.
Coleen aveva sospirato, con aria teatrale, prima di accarezzare la spalla di Niall con un po’ di malizia. Niall si era scostato, infastidito.
«Allora?»
«Si dice in giro che lei si… be’, sai… si tagli.» aveva confessato infine, con una punta di soddisfazione. Niall si era trattenuto a malapena dal tirarle uno schiaffo. Non sopportava che parlassero in quel modo di Annabeth.
La sua Annabeth, così dolce e così indifesa. Così timorosa di affrontare le situazione a viso aperto, perché qualunque cosa – qualsiasi – sarebbe stata abbastanza da distruggerla.
E allora Niall decise che sarebbe toccato a lui, accogliere la sua richiesta d’aiuto.
~
Annabeth aveva
distolto lo sguardo dal libro per rivolgerlo alla porta, oltre la quale
qualcuno bussava insistentemente da oltre dieci secondi.
Non aveva voglia
di vedere nessuno, quel giorno.
«Sto per entrare,
ti avverto.»
Aveva riconosciuto
immediatamente la voce di Niall e si era stupita del tono duro che
aveva usato.
Aveva fatto qualcosa di sbagliato?
Sentì la paura
attanagliarle le viscere. Crudele, senza lasciarle scampo.
Poi la porta si
era aperta e Niall era entrato in camera, si era guardato intorno con
circospezione e aveva individuato Annabeth.
Gli si era stretto
il cuore, perché sembrava così piccola e
così indifesa che l’unica cosa che era
riuscito a fare era stato sedersi accanto a lei e stringerla in un
abbraccio.
Annabeth aveva
lasciato che Niall le circondasse le spalle con le braccia e si era
rifugiata
contro il suo petto, in un abbraccio caldo e confortante. Non le
capitava da
tempo, di sentirsi così al sicuro stretta tra le braccia di
qualcuno.
Dopo qualche
minuto, che ad entrambi parve lungo un secolo, Niall si era separato e
si era
seduto sul letto con le gambe incrociate.
«Dobbiamo
parlare.»
Eccolo, il panico.
Stava per dirle che non voleva più parlarle,
perché si era accorto di quanto
lei fosse insignificante rispetto a tutte le altre. Stava per dirle che
non
poteva credere di aver perso tanto tempo prezioso insieme a lei. Stava
per
dirle che…
«Fammi vedere i
polsi, Annabeth.»
Lei aveva scosso
la testa, terrorizzata all’idea che qualcun altro oltre lei
fosse a conoscenza
del suo segreto e aveva raccolto le mani in grembo.
Niall aveva
sospirato, poi, con fermezza, le aveva afferrato la mano destra e aveva
sollevato la manica della maglietta.
Annabeth aveva
chiuso gli occhi, per nascondergli le lacrime che premevano per uscire
e aveva aspettato
il momento in cui Niall si sarebbe dichiarato inorridito e disgustato.
E lei
sarebbe rimasta sola. Ancora.
Poi aveva sentito
qualcosa di delicato e tiepido sfiorare le cicatrici con gentilezza.
Aveva socchiuso
prima un occhio, poi un altro ed era arrossita violentemente, quando si
era
resa conto che quel qualcosa erano
le
labbra di Niall.
Allora era
scoppiata a piangere, come una bambina e, con il corpo squassato dai
singhiozzi, si era rannicchiata al fianco di Niall. Lui non si era
minimamente
scomposto, anzi. Le aveva accarezzato la schiena con dolcezza e le era
rimasto
accanto fino a che i singhiozzi non erano cessati.
Solo allora aveva
parlato.
«Non sei sola,
Annabeth. Non lo sarai mai più.»
~
E
poi
ci sono le altre cicatrici.
Quelle
che, come dice il vocabolario, sono “ricordo
di un’esperienza dolorosa”.
A volte
lasciano segni visibili, come delle linee traslucide in
prossimità dei polsi, o
sull’avambraccio. Altre, non sono tangibili e non sono
facilmente
individuabili. Sono quelle, le peggiori.
Perché
per risanarsi e chiudersi, richiedono tempo, cura e dedizione.
Sono
quelle cicatrici che cerchiamo di lasciare nascoste, invisibili. Quelle
che
proteggiamo con tutta la nostra forza di volontà,
perché riaprirle è molto più
facile e veloce che richiuderle.
E molto
più doloroso. E, una volta che il dolore è
tornato a galla, è sempre più
difficile riportarlo a fondo.
A
meno che non ci sia qualcuno pronto a sorreggerti e a portarti in
salvo. Solo
allora, forse, quelle cicatrici
smetteranno di fare male.
~
Questa
One-Shot è stata in assoluto
la più difficile che io abbia mai scritto. Probabilmente non
è neanche
eccezionale e perfetta, ma mi ha scosso. Non lo so perché.
E
non sono neanche brava a trattare
temi così forti, perché non ho mai provato niente
del genere. Almeno, non fino
a questo punto.
Perciò
chiedo scusa se ho urtato
qualcuno, o se ho scritto una marea di stupidate. Non era mia
intenzione.
Detto
questo, spero che vi sia
piaciuta.
Se
volete, fatemi sapere cosa ne
pensate.
Con
affetto,
Fede.