Scoop
Tutti i miei sbagli
Capitolo 3 – Scoop [Part 2 – All That She Wants]
Non ho voglia di
andare d’accordo,
ho voglia di
andare. D’accordo?
Di andare.
D’accordo?
(Caparezza – Ti
Sorrido Mentre Affogo)
Ai piedi dell’imponente sede del Gilmoure
soffiava una brezza gelida, che faceva accapponare la pelle: nessuno si
spiegava come facesse a superare le barriere di tonnellate di costruzioni e
grattacieli che si protraevano per chilometri sul suolo di New York City. Sta
di fatto che non appena mise un piede fuori dalla lussureggiante entrata
dall’edificio, Evan maledisse la propria pessima abitudine di vestire
quadratini di stoffa che a stento contenevano le sue curve procaci. Mettendo da
parte il buon gusto perché la propria pelle scoperta splendesse nella notte,
aveva forse attirato su di sé le ire bigotte di un qualche dio maligno e
bigotto? Onestamente, gli unici momenti in cui le importava di ciò erano quelli
in cui si costringeva a non pensare all’ultima delle proprie malefatte, o presentimenti. Ed ogni volta, c’era
sempre Charlie a distrarla con qualche idiozia.
Tipo quella di trascinarsi al proprio
seguito quei finti artisti ricoperti da abiti da quattro soldi e strane idee
sulla giustizia dalla parte dei poveri.
- Smettila di lamentarti, cervello in
aspettativa! O giuro che ti rispedisco a Babbo Natale nel pacchetto in cui ti
ha consegnata quando eri una neonata: ti accartoccio e ballo sui francobolli. –
Charlie diventava fantasiosa negli insulti in due sole occasioni: quando si sentiva
sotto pressione, o quando era particolarmente contenta. Ed in entrambi i casi
c’era da preoccuparsi, soprattutto se i due stati d’animo combaciavano in un
unico momento. Come quella sera, ad esempio. Sgambettavano oltre l’uscita,
ignorando con fermezza la pelle d’oca alle gambe parzialmente nude, Evie decise
di rispondere all’amica con un semplice sbuffare infastidito e fastidioso, o
almeno così voleva essere: in realtà, Charlie non fece neanche caso
all’irritato suono dell’amica. Ormai, era entrata nel pieno modus operandi di
chi cerca di ignorare tutto e tutti, soprattutto le occhiate interrogative di
chi la conosceva e la stava osservando abbandonare il proprio party di
compleanno prima del quindicesimo brindisi, cosa che solitamente non accadeva mai.
La Jaguar li attendeva, nella sua
sfolgorante e miracolosamente intatta bellezza, tre vicoli più i là del
grattacielo del Gilmoure: Charlie si avvicinò all’automobile con un forte
melodramma a disegnare la sua espressione, buttandosi praticamente addosso al
cofano rosso fiammante, a braccia aperte, e sussurrandole – Ti sono mancata,
piccina? Certo che ti sono mancata! -. I presenti la fissarono senza sapere se
essere divertiti o sconcertati da quel gesto, finché Evie, grugnendo in modo
quasi animalesco, non si affrettò a frugare nella propria borsetta, estraendone
le chiavi d’accensione. Con voluta malagrazia, la biondina le lanciò a Charlie,
che con i riflessi di un bradipo ubriaco le prese al volo solo per lasciarle
cadere a terra e barcollare all’indietro: davanti a quella scena, Vescica ed
Arrapato inorridirono al pensiero di quella ragazza alla guida della Jaguar che
li avrebbe trasportati. Ma allo sguardo feroce di Evie si affrettarono a salire
sui sedili posteriori. Ameba seguì impassibile l’esempio dei due compagni,
apparentemente indifferente a ciò che lo circondava.
- Vediamo di farne valere la pena, eh?
Altrimenti resto qui e mi faccio arrestare. – era evidente come Evie stesse
parlando esclusivamente a Charlie, fingendo che le tre persone dietro non
esistessero. Il suo tono era altamente infastidito ed annoiato, ma la brunetta
seppe immediatamente che l’amica era segretamente contenta di essere stata
ascoltata. – Oh, non ti preoccupare… I nostri amici qui sanno come rendere
felici delle donne! – rispose con noncuranza Charlie, appoggiando il tacco
sull’acceleratore con decisione, bloccando le porte e dando gas al motore. I
suoi pensieri andarono al focoso conservatore che la stava probabilmente
aspettando all’entrata del Gilmoure. Gli ci voleva giusto un po’ d’aria fresca,
perché quel suo cervellino imbalsamato si rendesse conto che era meglio
cambiare partito prima di dare contro a lei.
- Ehi! – la scusa le si presentò svoltato
l’angolo, quando s’infilarono nella strada principale per saettare lontano da
una possibile esecuzione di masso da parte del lungo braccio della legge.
Stranamente per la sua natura calcolatrice, Charlie non aveva tenuto in conto
d’includere qualcuno dei fedeli amici che le avevano organizzato la festa: se
fossero finiti in prigione dopo una retata, avrebbe pagato loro la cauzione e
sarebbero tornati tutti ad essere una grande famiglia di tossici felici. Ora
però, una Carrie ferma sul ciglio del marciapiede, col braccio alzato per
richiamare la sua attenzione, le offriva la possibilità di aggiungere al
mattino nascente un pizzico di brio
in più. – Te la senti di diventare fortunata, bella? – Evie sorrise rassegnata
allo scricciolo dai capelli rossi che Charlie cercò di abbordare, come con una prostituta di Los Angeles. – Facciamo
novanta dollari per cinque notti? – La ragazza sul marciapiede si sporse verso
il finestrino ammiccante, mettendo in bella mostra una borsetta che pareva sul
punto di esplodere tanto era piena. Non lasciava spazio ai dubbi, come il
linguaggio segreto che ella aveva adottato.
- Salta su. – Charlie le sorrise,
indicandole i sedili posteriori con un cenno del capo. I tre ragazzi
osservarono le espressioni delle donne attraverso i finestrini superiori. –
Ehi, ma così non c’è spazio per… - la debole protesta di Vescica venne
soffocata quasi subito dal lancio con cui Carrie s’infilò nell’apertura del
finestrino posteriore abbassato. La brunetta, che stava per sbloccare la
portella per lasciare che l’amica entrasse, rise di gusto nel vedere il
miscuglio d’arti e grida che si venne a creare dove prima c’erano stati i corpi
dei tre ragazzi. Anche la risata di Evie, suo malgrado, si disperse nell’aria,
segno che nonostante tutto era soddisfatta di questo piano alternativo contro
il presentimento.
Perché Carrie aveva portato con sé un’altra
persona: la montagna di muscoli e pelle che si avvicinò al finestrino
anteriore, intenzionato a salutare Charlie e a godere di un minimo riflesso di
quell’indefinita luce che la ragazza emanava. Una vecchia conoscenza. A Charlie
furono sufficienti poche parole casuali, in un ordine strettamente calcolato,
per aggiungere una nuova marionetta
allo spettacolo.
Poi, sorridendo alla notte sul punto di
terminare, Charlie diede di nuovo gas alla Jaguar.
Lo individuò subito, circondato da un
gruppetto di future sedicenni che evidentemente non erano riuscite ad imbucarsi
alla sua festa; distribuiva sorrisi e piccole battutine come una qualsiasi star
da tappeto rosso. Evidentemente, in quel momento si sentiva un grand’uomo. Le
bastarono due colpi di clacson fastidiosi per attirare la sua attenzione, e
qualche occhiata delusa da tutte quelle ragazzine. Lentamente abbassò il
finestrino scuro.
Accadde che, nella foga di fare amicizia
con i nuovi abitanti del suo psichedelico mondo, Carrie rovesciò una bustina
con qualche centigrammo di anfetamine sul sedile posteriore, dal quale si
levarono subito le sue strida confuse. Charlie poté solo immaginare il panico
creatosi fra quei tre poveri disgraziati, eccetto Ameba forse. Era per questo
che adorava Carrie: nella sua incredibile incongruenza, in ogni cosa che faceva
possedeva un tempismo perfetto. La bruna lanciò un’occhiata ad Evie, che
ghignando si allungò per far scattare i blocchi agli sportelli.
Il sorriso arrogante dello sconosciuto
iniziò a titubare non appena gli occhi di Charlie incontrarono i suoi.
- Ma che cazzo…? – Stupore esci dalla bocca
del ragazzo non appena posò, invano, le dita sulla maniglia della porta
posteriore dell’auto.
- Informiamo i signori passeggeri che il
loro volo sta per partire. – Queste parole, insieme alla risata sguaiata che le
seguì, furono l’unica maniera in cui Evie espresse la propria approvazione,
grottescamente rispetto a quanto era abituata a mostrare di sé proprio per
sottolineare la presa in giro nascosta in quella sceneggiata.
- Salve, spilungone. Un bianco conservatore
arrogante come te non può certo voler avere nulla a che fare con un aereo di
linea come questo. – Impudente, Charlie appoggiò i gomiti al bordo del
finestrino abbassato, allungandosi verso la propria vittima e mettendo in
evidenza l’incavo fra i seni che spuntava dalla scollatura. - Io credo che
dell’aria fresca ti darà una schiarita alle idee; intanto, puoi dimostrarti più
che caritatevole nei confronti di quei relitti alla società per cui, un giorno,
approverai un mandato di deportazione. – Quando, dopo una prima fase di smarrimento,
il ragazzo iniziò ad intuire in parte quanto aveva in mente Charlie, digrignò i
denti come un animale; per quanto volesse apparire minaccioso però, la moretta
era fin troppo abituata a scavare dentro alle persone in un battito di ciglia.
“Dov’è
la tua sicurezza?”
- Lurida put… - Charlie gli posò senza
alcuna delicatezza una manina sulla bocca con uno scatto, proprio mentre lo
sconosciuto per apostrofarlo con un epiteto in apparenza decisamente consono.
Egli scostò malamente il suo braccio, afferrandola per il polso con rabbia ma
ammutolendo: sul volto della ragazza non sembrava esserci alcuna paura.
- Aha! Risparmia le finezze per le prossime
elezioni. C’è qui un amico a cui farebbe piacere un po’ di compagnia: sono
sicura che scoprirete di avere molti punti in comune da toccare in un’amabile
conversazione. – Cattiveria pura veniva stillata da quella lingua biforcuta; ed
essa però si contrappose l’energia con cui cercò di liberarsi dalla stretta del
ragazzo, che cercando di decifrare quelle parole malevole era rimasto immobile,
ma non aveva certo mollato. – Apri questa cazzo di porta, stronza! – Sbraitò il
giovane, strattonandola poi verso di sé con vigore, nel tentativo di farla
cadere dal finestrino.
Fu in quel momento che Evie, con una risata
acuta e tintinnante, surreale, allungò velocemente il piede davanti al sedile
del guidatore, e in un gesto di scelleratezza premette con l’alto tacco della
scarpetta l’acceleratore. Qualcuno gridò all’esterno, mentre la vettura veniva
sbalzata in avanti: a Charlie parve che ogni elemento, in quei pochi istanti
d’azione, si confondesse con l’altro, in un viaggio psichedelico di contorni
indistinti e ossa doloranti. Eppure, seppe all’istante che successivamente
avrebbe ricordato ogni singolo dettaglio, e sorrise mentre la stretta delle
dita attorno al proprio polso si affievoliva. Ricordava sempre, anche se per
qualche strana ragione dimenticava il significato
di tutto quel nichilismo insensato.
Non appena senti il polso libero,
istintivamente Charlie scattò ad afferrare il volante avanti a sé, riprendendo
il controllo dei pedali e sterzando bruscamente, infilandosi nel traffico
newyorkese con una manovra pericolosa. Un’auto fu costretta a frenare con un
sonoro stridio di gomme sull’asfalto, evitando per un pelo di schiantarsi
contro la Jaguar rossa che, sgommando a tutto gas, schizzò lontano dal Gilmoure
ad una velocità improponibile in pieno centro. Solo quando la ragazza lanciò
un’occhiata ad uno degli specchietti retrovisori si accorse dell’espressione
terrorizzata che stava distorcendo i suoi lineamenti. E allora sorrise, ripetendosi che tutto faceva
parte del gioco.
Lo sconosciuto, come vide prima che il
marciapiede del Gilmoure diventasse un ricordo nelle strade luminose della
metropoli, barcollò qualche istante prima di capitombolare a terra,
probabilmente sconvolto. Non doveva mancare molto prima che Max lo andasse a
trovare. Tutto procedeva.
E mentre l’auto iniziava una corsa folle e
senza meta, Evie rise di gusto, probabilmente respirando davvero per la prima
volta dall’inizio della serata.
- M-ma
s-sei im-imp-pazzita?! -
Colui che aveva parlato era Vescica. Anzi,
sarebbe più corretto definire colui che
le aveva quasi spaccato un timpano con una voce da usignolo reduce da un
tetè-a-tetè con una bottiglia di rum. Charlie si trattenne dal frenare
bruscamente solo per quel rigido autocontrollo che s’imponeva in ogni
situazione, e che anche se in quel momento era molto labile mai l’abbandonava.
Il signorino, dopo essersi evidentemente
liberato dalla morsa assassina di Carrie, si era sporto verso i sedili
anteriori, aggrappandosi ad essi con le braccia come se fossero l’unico
contatto rimasto con una realtà migliore.
Dagli specchietti retrovisori, Charlie riuscì a distinguere la chioma rossa
della tossica amica coprire il volto di Arrapato: poteva essere un giochino
perverso, come un tentativo della ragazza allucinata di staccare la testa al
povero malcapitato. A Charlie non interessava. Portò lo sguardo invece su ciò
che poteva scorgere del viso di Vescica, continuando a guidare a caso per le
strade di New York.
Non che fosse proprio un bel vedere. Era
palesemente sconvolto: aveva due occhi marroni spalancati, quasi come lo
sguardo di uno strano animale notturno, i capelli ricci scompigliati in una
parodia di un cespuglio di rovi, e la fronte madida di sudore. “Beh”, pensò,
“non è colpa mia se è debole di cuore.”
Non
era mai colpa sua, in fondo.
- Cosa c’è, micetto? – Domandò annoiata e
sarcastica Evie, senza spostare lo sguardo dalle ombre degli edifici che
scorrevano rapide oltre il suo finestrino. Per un attimo, il ragazzo riccioluto
sembrò pentirsi di protestato, boccheggiando senza però proferir parola. Poi
però, ridestandosi, partì a tutta carica.
- B-beh, c-co-ome s-se non c-ci fo-fos-se
n-nulla d-di m-ma-le! – Non l’evidente balbuzie di Vescica a stupire Charlie,
ma la semplicità di quelle parole rispetto agli insulti e alle volgarità senza
fondo che si era aspettata in confronto. Non frenò la corsa, ma iniziò ad ascoltare seriamente, senza cercare
alcun contatto visivo.
- A-avete l-lasciato M-Mitch i-in-indietro!
I-in q-quel p-p-posto d-do-ve c’e-e-era… s-stava… insomma! –
Suscitava un effetto simile a quello dei
fenomeni da baraccone nei circhi d’inizio Novecento: Charlie non riusciva a
staccare gli occhi di dosso da quello spettacolo grottesco che era Vescica, il
suo balbettare sconnesso e la sua genuina mancanza di controllo sulle proprie
emozioni. La ragazza si sentiva affascinata, e al contempo provava una strana
vergogna, come se stesse davvero commettendo
qualcosa di sporco.
E, dopo una vita di disordini, era
incredibilmente violenta un’emozione
di quel genere. Immediatamente, seppe che Evie non stava guardando.
- Mitch, hai detto… - Sorrise beffarda,
approfittando della pausa allibita del giovane per introdursi con un tono di
scherno palese, iperbolico. La bionda intervenne quasi subito dopo di lei: -
Stai tranquillo, micetto. Il tuo amico sta bene. –
Evie centrò in pieno il bersaglio:
nonostante la solita assenza delle quota minima di vocaboli necessari ad
avviare una conversazione, il suo tono piatto e distaccato, e forse proprio per
questo più pungente del ghiaccio, le garantì il totale silenzio da parte di
Vescica. Questi non solo ammutolì, parve addirittura calmarsi. La bonaccia, il pericolo in mare dettato
dalla totale assenza di vento, era l’effetto collaterale più temibile della
personalità di quella bambola bionda.
Le ragazze ripresero quindi il controllo
dei loro ospiti. Gli squittii incoerenti di Carrie tornarono ad essere l’unico
evento degno di nota dai sedili posteriori.
- Piuttosto, dovremmo chiamare. – Mentre l’auto proseguiva la sua folle corse, Evie
spostò l’attenzione su un particolare di fondamentale importanza della serata,
mantenendo l’espressione apatica di cui sempre si avvaleva. Charlie invece non
nascose minimamente di essere appena caduta dalle nuvole, ma il suo
disorientamento durò pochi istanti: come al solito, Evie la chiamava a rapporto
quando la fame di distruzione della brunetta aveva la meglio sulla furbizia.
- Pensaci tu. – Sapeva benissimo cosa Evie
intendeva: qualcuno doveva telefonare a Pablo per informarsi sulla situazione
del Gilmoure; gli eventuali sviluppi della vicenda dettati dalla presenza
dell’agente in borghese erano strettamente connessi alla stabilità di ciò che
più era caro a Charlie e ad Evie: la discrezione
della loro vita spericolata. Con un sospiro quindi, la biondina infilò una mano
nella propria borsa, alla ricerca del cellulare come richiesto dall’amica.
Intanto quest’ultima imboccò, per la prima volta dopo la fuga dal Gilmoure, una
strada verso una metà.
Ci misero quasi un quarto d’ora.
L’agglomerato dei prefabbricati nei quali
si erano infilati con la Jaguar era noto alla malavita della metropoli col
semplice nome di Milo’s, “Da Milo”.
Fra quegli edifici si celava un enorme garage dentro al quale si compivano
autentici miracoli della meccanica automobilistica internazionale, che però
solo pochi portafogli fortunati avevano il diritto e l’onore di visionare. Il
famigerato Milo era un ometto gracilino, pelato e coperto di tatuaggi
dall’oscenità più o meno legale. In quel momento della mattina, il soggetto in
questione era intento a lavorare duramente alla fiancata di una Land Rover
palesemente modificata, o “ristrutturata”,
come lui stesso diceva; del resto, da Milo la notte non era abbastanza per
smettere di lavorare: una cricca di selezionati artisti ed ingegneri circolava
in quello che era il più grande mercato nero delle auto di New York.
- Scendete. – Charlie parcheggiò l’auto
davanti al portellone di uno dei garage più sporchi esistenti. Prese la chiave
e pronunciò quell’unica parola, prima di uscire nella buio e poco rassicurante
piazzola di cemento, seguita poco dopo da Evie che agguantò anche le borse.
I ragazzi rimasero dov’erano.
Carrie invece arrancò fuori, ridacchiando
come una matta ma probabilmente già più lucida di quanto non fosse alla
partenza dal Gilmoure. Aprì lo sportello della macchina e con alcune goffe
mosse scavalcò il corpo di Ameba per poi caracollare sull’asfalto, di fronte ad
una sorridente Charlot. Evie invece già armeggiava col cellulare, intenta a
chiamare un numero ancora ignoto.
- Se volete, io vi lascio anche qui. –
intuendo la perplessità e l’astio di Vescica e compari, la brunetta si sporse
per poter parlare meglio con loro.
- Tu sei fuori di testa. – Per la prima
volta, Arrapato espresse la propria opinione con una serietà che cancellò del
tutto la sua espressione da pedofilo, evitando che Vescica proclamasse ancora
il proprio sconcerto con una serie interminabile di consonanti e sputacchi.
Charlot scosse la testa, chiudendo il portellone.
- Devo far lavare via le anfetamine che
Carrie ha spazzato sui sedili posteriori. – Spiegò, allontanandosi di qualche
passo e continuando a fissare i tre ragazzi beffarda. Loro la guardavano con
occhi e bocche spalancate, ancora incapaci di rendersi conto delle proporzioni
del casino in cui si erano ficcati. – Le opzioni sono due: o avete voglia di
farvi massacrare dagli amici che fra poco mi faranno questo favore, oppure
avete voglia di rischiare che qualche poliziotto curioso scopra il deposito
illegale di Milo, e vi sbatta dentro. – Era impossibile capire se fosse
atterrita dalla prospettiva, oppure solo divertita.
Qualche metro più in là, Evie iniziò ad
alzare la voce contro un disgraziato sconosciuto.
Nathan Reed, Edward Turner e Alex Schneider
decisero che era meglio non fare più domande e uscire infetta da quel
macchinone infernale. Charlie sorrise.
Adorava
vincere.
- Dove ci portate, ragazzi? –
So if you are in sight and the day is right,
she's a hunter, you're the fox:
the gentle voice that talks to you
won't talk forever.
It is a night for passion,
but the morning means goodbye.
Beware of what is flashing in her eyes:
she's going to get you.
(Ace of Base – All That She Wants)
Per raggiungere l’appartamentino nella
palazzina del Lower East Side ci volle poco più di un’ora, a piedi per le
strade di Manhattan. Il quartiere non era lontano dai prefabbricati Milo’s, ma era difficile procedere con
tre scimmioni, una tossica che non la smetteva di ridere per qualsiasi cosa
vedesse per strada e un’Evie al telefono con Pablo.
A farle strada era stato un cupo Vescica,
che aveva anche detto di chiamarsi Nate. Informazione
del tutto superflua.
Il povero ragazzo aveva pensato che, se
proprio dovevano concludere la serata con quelle strampalate, almeno avrebbero
dovuto farlo in un luogo parzialmente sicuro, dove Mitch potesse anche
raggiungerli. Il bilocale dove conviveva con gli altri tre era parso qui come
un’ancora di salvezza.
- Carino. – fu la prima parola di Charlie
quando fecero il loro ingresso in un cucinino disordinato, al terzo piano di un
edificio lindo e anonimo. Nonostante la ragazza sembrasse sincera, Nate non
riuscì a crederle; si limitò a lanciare le chiavi su un tavolino sepolto da
giornali e lattine di birra, prima di voltarsi verso i propri ospiti, rosso in
volto.
- Ewh. – vedendo il naso di Evie
arricciarsi nell’immediato istante in cui entrò nell’appartamento, Nate
distolse lo sguardo e sbuffo; la biondina fu seguita dalla tipetta che aveva
tentato di violentarli tutti in macchina, che subito si aprì in un grande
sorrisone, squadrando l’ambiente con gli occhi semicoperti dalla pesante frangetta
scarlatta, spettinata. – Dove devo dormire io? – cinguettò allegramente, prima
di saltellare in precario equilibrio fra i mobili, quasi fosse abituata ad
ambientarsi in fretta in uno spazio estraneo.
- Bene, principesse. Benvenute nella dimora
Kennedy, speriamo il viaggio sia stato confortevole e la sistemazione di vostro
gradimento. Gradite qualcosa per concludere la serata? – dopo l’attimo di shock
che sembrava aver colpito i neuroni lesi di Arrapato, ecco la ripresa di
controllo da parte degli ormoni del corpo del giovanotto; Charlie si volse a
squadrarlo, inarcando un sopracciglio, divertita anche se sospettosa in un
ambiente sconosciuto, in cui poteva essere svantaggiata. Da perfetta attrice,
lasciò che il ragazzo proseguisse con la pomposa presentazione di quel buco. –
Eddie, per servirti. – egli fece qualche passo avanti, prendendole un polso per
eseguire un baciamano decisamente poco galante, ma accompagnato da un sensuale
ghigno.
Evidentemente, non era così fuori di testa.
A volte, la stessa Charlie era sorpresa di
come potesse farla franca in qualsiasi contesto, a dispetto di come
l’organizzazione precisa di cui avrebbe voluto avvalersi le sfuggiva dalle
mani. Era in queste determinate occasioni che sentiva di avere il controllo
totale sul mondo, in un tripudio di supponenza che la faceva sentire
dannatamente bene.
Un istante dopo, il suo sguardo fu attratto
dalla sagoma di Ameba, o Alex, come le era stato presentato, che silenzioso
strisciò attraverso il bancone della cucina e s’infilò in una porticina scura,
sbattendosela alle spalle e scomparendo dalla loro vista così come era
arrivato.
Curioso.
- Non badare a lui, è un funambolo
dell’anima, un introspettivo, a quest’ora della notte ha bisogno di connettersi
al suo bambino interiore. – a quanto pare, Alex l’Ameba non era l’unica poeta
maledetto mancato, in questi cinque metri quadri scarsi che costituivano la
loro casa. E, dagli sguardi che le lanciava e dal modo in cui il suo pollice le
accarezzava il polso suadente, sembrava che quell’Eddie fosse determinato a
concludere in bellezza una nottata deludente. Charlot sorrise.
Sarebbe stato giusto farsi l’amico di quell’idiota? Perdiana, no. Sarebbe stato fantastico.
Magari, poteva divertirsi ancora un po’,
con quegli idioti. Quella notte era ancora sua: una perfetta festa di
compleanno.
- N-n-non f-fare l-lo s-sce-e-mo, E-eddie.
– borbottò Nate, lanciandosi sul divano-letto piazzato in un angolino di quella
stanzetta infernale, scrutando a braccia conserte la rossa svampita che
sembrava intenzionata a rompere tutti gli oggetti che le capitavano in mano nel
minor tempo possibile. Poi, lanciò un’occhiata a Evie attraverso il casco di
capelli ricciuti, arrossendo poi. – P-puoi se-sede-erti, s-sai? –
corrucciandosi ancora di più, il ragazzo sembrava voler sprofondare nei meandri
del divano.
- No. – Evie non si degnò nemmeno di alzare
lo sguardo. Quando voleva, sapeva essere molto snob, e inoltre era ancora
incollata al proprio palmare, sul quale muoveva freneticamente le dita in un
messaggio che pareva interminabile. Charlie sbuffò: ancora non aveva finito di
contattare gli altri.
- Dove tenete la bamba? –
Quando anche Carrie riemerse dalla
profondità del proprio essere e di una credenzina piuttosto lercia, la brunetta
decise di tagliare la corda col proprio nuovo principe azzurro.
- Ehi, conosco un giochino simpatico da
fare. – Improvvisamente, sentì una voce sussurrarle all’orecchio una proposta
che immediatamente la fece sorridere: la prospettiva di passare un’ora con un
tizio dalla personalità evidentemente schizofrenica, in uno squallido
appartamento, la sensazione di essere inattaccabile e onnipotente, erano inebrianti, se unite al fatto che
quell’altro stronzetto forse sarebbe tornata a casuccia dai suoi amichetti e
avrebbe trovato lei. – Servono due persone simpatiche e spigliate e un affare
che tengo in camera mia. – E poi, quell’Eddie “The Tune” Turner sembrava
proprio il tipo d’uomo col quale non ci si annoia, nel bene e nel male.
- Oh, è una Nikon? – Lo squittio eccitato
di Evie fu come un’esplosione nella stanza. Era raro vederla scomporsi per
qualcosa, ma il gioiellino che, nel marciume generale, aveva attirato la sua
attenzione meritava quell’eccesso. Senza chiedere nulla, la bionda prese in
mano la macchina fotografica, che sembrava d’ultima generazione e decisamente
troppo costosa per quel posto. – Posso vedere! -.
- D-DAMMI!
– ma prima che avesse il tempo di fare qualsiasi altra cosa, Nate la Vescica si
allungò verso di lei con la forza di un cannone, strappandole di mano la Nikon
e portandosela al petto scarno come se fosse stata la sua ultima ancora di
salvezza per il baratro.
Calò un silenzio di gelo.
- Dio, che maleducato. – Evie sembrava
appena scalfitta dall’accaduto, mentre il ragazzo ancora tremava, rosso di
rabbia e dell’imbarazzo suscitato dal fatto di avere gli occhi di tutti
addosso. Ma, non appena la ragazza prese post sul divanetto sfondato, fu chiaro
che non si sarebbe schiodata di lì fino a nuovo ordine, per fumare una
sigaretta dopo l’altra.
Charlie guardò Eddie con rinnovata impazienza.
– Allora, quand’è che mi porti lontano da qui? –
***
Mitch Anderson camminava per una stradina
laterale di Manhattan, veloce, a capo chino e zoppicante. Aveva ricevuto un
brutto calcio sullo stinco che ora lo stava facendo avanzare a rilento, ma la
rabbia che covava in corpo era più forte del dolore fisico e, soprattutto, era
abbinata al disperato bisogno di disinfettarsi al meglio.
I newyorkesi notturni non avevano degnato
di uno sguardo le ecchimosi sul viso, l’occhio nero, e vestiti stropicciati e
sporchi e i graffi sulle braccia: New York era una città per solitari e
menefreghisti. Ma le ferite bruciavano, e anche parecchio. Mitch sputò in un
tombino un grumo di saliva, lieto perlomeno di non sentire il gusto metallico
del sangue in bocca.
Sarebbe potuta andargli peggio.
Ma
Dio, quanto stava odiando quella nottata.
La montagna di muscoli e pelle che l’aveva
fermato fuori dal Gilmoure, un attimo dopo che quella stronza viziata rapisse i
suoi amici e lo lasciasse di sasso, si chiamava Aaron Kustor, ma era conosciuto
come The Iron Lad. Il soprannome era un omaggio a Margareth Thatcher, l’idolo
del omaccione inglese dall’aspetto brutale e dall’omosessualità rassicurante
per coloro che si ritrovavano indifesi contro la cattiveria di certa gente. Era
noto frequentatore di pub per drag queens, e vantava di aver avuto nella
propria vita di quarantenne numerosi partner, fra i quali Sir Elton John.
E fra questi ex fidanzati, ce n’era uno
storico nella cricca di frequentatori del Gilmoure di cui Mitch aveva fatto la
malaugurata conoscenza qualche settimana prima. Richie aveva collezionato una
serie infinita di boyfriends prima d’innamorarsi perdutamente di Adam e
perseguire l’obiettivo di convolare a giuste nozze con quel meraviglioso
connubio di stile e fascino hipster. Fra i poveri sfortunati che avevano dovuto
farsi da parte, c’era anche The Lad, che da allora aveva covato un profondo
rancore per ogni ragazzo si chiamasse Adam o per qualsiasi bambinetto indie
vagasse per le stesse feste che lui frequentava.
E di sicuro quella troia l’aveva saputo fin dall’inizio.
Mitch non era tipo da feste del genere. Non
si trovava mai a proprio agio fra figli di papà che fingevano di essere
disadattati, e in locali come il Gilmoure. Aveva sempre avuto l’impressione,
nelle occasioni in cui aveva frequentato la movida newyorkese che contava, di essere intriso a propria
volta di quell’ipocrisia per niente raffinata e decisamente fastidiosa che si
portavano appresso.
Ma avrebbe dato qualsiasi cosa per suonare in un posto come il Gilmoure.
New York era una città spietata con chi
proveniva dalla provincia americana, dagli stati retrogradi del Sud U.S.A. o più semplicemente con chi non era in
grado di ambientarsi in fretta e cambiare
in fretta, adattandosi ai ritmi di quell’isola che era un mondo a sé
stante. L’industria musicale aveva un gerarchia solida che ammetteva un artista
su mille di quelli con una storia tragica o comunque interessante alle spalle.
Quella newyorkese, poi, era particolarmente snob: se a Los Angeles manager e
dirigenti si facevano vedere volentieri a feste ed eventi in compagnia di
ragazzino di vent’anni più giovani, gli uomini d’affari di NYC rifuggivano la
grossolanità e preferivano sobri cocktails nei loro alti grattacieli, lontano
dalla spazzatura urbana.
A New York, i veri agganci per gli artisti
emergenti erano i giovani come loro. Giovani ricchi, giovani annoiati disposti
a mettere buone parole con genitori o conoscenti pur di soddisfare il proprio
bisogno di svago e poter scrivere su Twitter di essere stati promotori del
successo di un indie rock band, come quelle che andavano tanto di moda in quel
periodo.
Giovani
con soldi da spendere e sicurezza da acquistare.
Charlot Valenti non era un nome come tanti
altri in quella città raffinata e impaziente; apparteneva ad una cricca di
ragazzini incapaci ma potenti, e consapevoli di esserlo. Era una delle star
della Columbia, con quella capacità di essere presente un po’ ovunque ma
restare invisibile, inafferrabile. Avevano saputo della sua festa di compleanno
in ritardo: gli anni scorsi erano stati invitati da un giro di passaparola
incredibile, ma non erano mai riusciti a partecipare.
Troppo
insicuri.
Quell’anno erano andati con la missione di
fare colpo su qualcuno di quegli ipocriti.
Ma dovevano sapere che le troppe
aspettative generavano solo amarezza. Mitch, invece di affascinare, era rimasto
affascinato, da un serpente che con le proprie spire aveva avvolto la sua
razionalità. Nessuno saprà mai.
Generalmente, una regola taciuta era non fare nulla di proibito con possibili
datori di lavoro. La virtù porta
rimpianti.
Aveva perso di vista l’obiettivo quando lei
gli si era parata davanti, carina come tante, carismatica come poche. Insomma,
suadente.
Eppure gli avevano detto che quella ragazza
era una stronza con tanto di patente, una calcolatrice, una manipolatrice. Aveva pensato che finché
si limitava ad una bevuta e una scopata gratuita, poteva cavarsela con poco;
anzi, forse avrebbe addirittura potuto approfittarsene, per il bene della band
naturalmente. Ma quella Charlot aveva trovato il modo di non lasciarsi fregare
e di fregarlo, rigirando una situazione banale, quasi fastidiosa, a proprio
favore.
E farlo pestare per una miserabile
insubordinazione.
Mitch ancora non riusciva a rendersi
perfettamente conto di dove si trovasse. Ricordava che The Iron Lad gli si era
avvicinato proprio mentre la macchina rossa schizzava via: aveva urlato “Sei
tu, Adam?” prima di tirargli il primo cazzotto. Nessuna delle troiette che
l’avevano riconosciuto e osannato alla porta del Gilmoure era corsa in suo
aiuto. Solo qualche urletto, prima di correre ai ripari.
Aaron l’aveva poi trascinato nel vicolo più
vicino, quasi immune ai suoi tentativi di difendersi o di scappare. Chi li
aveva avvistati, si era girato dall’altra parte. L’aveva pestato per almeno un
quarto d’ora, prima di gettarsi a terra in ginocchio, per poi piangere come un
bambino. Un bambino intrappolato in una
montagna di muscoli e pelle nera.
Sarebbe potuta andargli peggio, davvero, ma
finché Aaron non se n’era andato, apparentemente dimentico di lui, non era
stato in grado di alzarsi.
Dopo attimi interminabili, si era ripulito
alla meglio e aveva riacquistato un minimo di senso dell’orientamento,
ricordando dove si trovasse. Si era rialzato a fatica, trovandosi indifferente
alla musica rimbombante che proveniva dal grattacielo, in confronto al pulsante
dolore sordo che avvertiva su tagli, ematomi, e un orgoglio ferito. Non aveva
dubbi che si trattasse di uno stratagemma di quella Charlie.
Ed era con questi pensieri a corrodergli il
cervello che aveva ritrovato la via di casa, a piedi, mentre attorno a lui la
città di risvegliava davvero, e non per tuffarsi in pub e discoteche. Avrebbe
anche visto un barlume di alba, se non fosse stato per gli ammassi di cemento e
vetro che gli oscuravano la vista. Non sapeva quali e quante vie aveva
percorso, ma poco a poco aveva riacquistato un minimo di confidenza con l’atto
di camminare e nella vista. Aveva iniziato a riconoscere i nomi delle vie, la
struttura degli edifici che lo circondavano. Aveva iniziato a smaltire la
sbornia
Aveva
iniziato ad arrabbiarsi di nuovo, come una bestia.
- Vi siete divertiti, stronzi? Dove cazzo
siete andati?! – spalancò la porta evidentemente convinto che in quella casa i
suoi amici fossero tornati, e che fossero soli.
Il guaio di Mitch, pensò Nate, era che
quelle non rare volte in cui si sentiva sicuro di sé fino all’inverosimile, per
lui erano fatali.
- Ciao! Come ti chiami? – La visione di
Nate rannicchiato sul divano, e due ragazze stese a pancia in giù in quel
pezzettino di pavimento rimasto libero da mobilio e scartoffie, fu il saluto
che giunse a Mitch come un colpo di pistola. Il ragazzo posò lo sguardo sulla
rossa sconosciuta che, pacifica, gli sorrideva da sopra un gioco di tavolo di
cui non ricordava la provenienza, o l’esistenza semplicemente. Sembrava
beatamente ignara di qualsiasi male nell’universo, ma aveva un’espressione vuota sul viso sorridente.
La chioma bionda dell’altra ragazza, quella
che gli dava le spalle, non accennava nemmeno a farsi vedere in faccia. – Tocca
a te, Carrie. – La sentì borbottare annoiata.
In pochi istanti, Nate gli fu addosso.
Mitch riuscì a vederlo in faccia per poco, prima che i folti capelli tornassero
a coprirgli il viso: aveva gli occhi sbarrati e la pelle rossa e sudato. Era
palese che stesse avendo uno di quegli attacchi di panico che erano soliti
delle situazioni su cui non aveva il controllo, ovvero quasi tutte; anche se stavolta Mitch non riusciva a non dargli
ragione.
- M-M-Mi-itch, n-non s-so c-che f-f-fare,
q-que-este n-non v-v-voglio-ono anda-a-arsen-ne e-e n-non s-sape-evo che t-ti
a-ave-evano f-fatto m-ma E-Eddie d-dice d-di r-rilas-sa-sa-sarsi, c-che
v-vole-evano s-solo f-farti u-u-uno sche-sche-sche… - quando Nate giunse al
punto in cui non fu più in grado di smuoversi dall’ultima sillaba pronunciata,
Mitch lo afferrò per il bavero della camicia, scuotendolo in modo molto forte e
decisamente rude. Un gesto necessario, se voleva che l’amico non proseguisse
come un disco rotto.
- Nate! Nate!
Basta. – Sibilò, non curandosi più delle due ragazze sul pavimento e
concentrandosi sull’amico. Il braccio sinistro gli doleva terribilmente, ma
continuò a tenere salda la presa sui vestiti del ragazzo che aveva di fronte,
avvertendo i muscoli di questo tremare convulsamente. – Dai, amico, stavo
scherzando anch’io, non sono incazzato. –
Eccome, se era incazzato. Non ce l’aveva
solo con quella sgualdrina, ma anche con quei tre disgraziati, che se n’erano
andati con lei.
Nate si accorse subito della bugia, infatti.
Come sempre quando l’ira prendeva il sopravvento su di lui, Mitch aveva le vene
del collo che pulsavano in maniera inquietante, fronte e naso rosso e
sopracciglia aggrottate in un’espressione arcigna che gli faceva guadagnare
vent’anni in più di quanti ne aveva. Ciononostante, Nate si calmò quasi subito;
non smise di tremare, ma chiuse la bocca e impedì al flusso di parole di
prendere la forma di un’apologia senza senso. Iniziò a respirare più a fondo.
- C-che
ca-caz-zo t-ti è s-suc-cesso? – poi irruppe in un irato strillo, un acuto
degno di una femminuccia, come l’avrebbe definito Eddie se non fosse stato
occupato a fare dell’altro. Si vergognò immediatamente, ma la preoccupazione
per le botte che gonfiavano la pelle dell’amico gli fece scordare in pochi
secondi l’imbarazzo. Come scottato, Mitch lasciò la presa dagli abiti
dell’amico, arricciando il naso in una smorfia che voleva essere da duro.
Ma
davanti alla quale Charlot Valenti sarebbe scoppiata a ridere. Amareggiato, Nate
la definì da pallone gonfiato. – E’ solo qualche graffio, vecchio. Tu
piuttosto, che hai combinato? – La conferma la ebbe con questa risposta,
pronunciata a denti stretti dall’offeso Mitch. – Te ne sei andato con quelle
sgualdrine, eh? Pensavo che almeno tu non ti saresti fatto fregare. –
ostentando un orgoglio incrollabile, ecco come l’amico lo stava affrontando.
Nate non si considerava affatto fortunato nel dovergli dire che la possibilità
di rifarsi dall’umiliazione stava nell’altra stanza a sollazzarsi con quello
scemo di Eddie.
- Chi
si è fatto fregare? –
Non fu Nate a rispondere. Una voce
femminile vagamente bassa, con una punta fastidiosa di noia in ogni accento e
sillaba, pronunciò quella domanda palesemente retorica prima che il ragazzo
avesse il tempo di balbettare qualsiasi cosa.
Nel riconoscere Evan McLair, la ragazza del
presentimento, quella che si era
fatta beffe di lui senza bisogno di parole sul sedile del passeggero della
Jaguar XF, Mitch fece quasi un infarto.
La ragazza gli sorrise, sfoderando la
smorfia di chi, dopo aver annusato un odore pessimo, incolpa educatamente il
vicino dello sgradevole misfatto. Le iridi cerulee brillarono, prima di tornare
alla solita noia.
- Lei è qui?! – ridandogli le spalle per
poter effettuare il proprio lancio di dadi e proseguire il gioco con Carrie,
Evie alzò gli occhi al soffitto grigiastro, trattenendosi a stento dallo
sbuffare sonoramente. Quel tipo sembrava uscito da un film d’azione di
quart’ordine. Era un pallone gonfiato, e Charlie l’aveva capito. Se l’era mangiato come spuntino.
Anche Nate aveva formulato questo pensiero.
Guardo di straforo la biondina, prima di posare nuovamente lo sguardo su Mitch,
che sembrava sul punto di esplodere. L’orgoglio era il punto forte e allo
stesso tempo debole di Mitch, e quella Charlot Valenti gliel’aveva fatta
grossa.
Il punto era che quella brunetta sembrava
il genere di persona abituata a fare a pezzi l’orgoglio della gente, e Mitch,
con quel suo istinto naturale del leader e la sua sicurezza, ancora non aveva capito che, anche se la
guerra non era sicuramente finita, quella primissima battaglia l’aveva vinta la
ragazza.
- E’ d-di l-là, c-con E-Eddie. –
E lo guardò partire come un toro verso la
porta della camera da letto.
But how was I to know
that she'd been shuffled before?
Said she'd never had a Royal Flush,
but I should have known
that all the cards were comin'
from the bottom of the pack.
And if I'd known what she was dealin' out
I'd have dealt it back.
( AC/DC – The Jack)
Li trovò seduti proprio sul suo letto. Il
narghilè comprato in un mercatino dell’usato in un lontano viaggio a Seattle
era in bilico a dividere i loro colpi, e il fumo che appestava la stanza li
circondava, trovando sbocco solo da una finestrella aperta quasi per dispetto.
Mitch non seppe dire se reputasse una sfortuna o una benedizione non averli
colti in pieno fattaccio.
Comunque, si erano impegnati per rendere la
situazione fraintendibile.
Charlot, seduta a gambe incrociate sulla
trapunta consunta, era in semplice biancheria, e aveva in mano il bocchino del
narghilè, un’espressione di soddisfazione sul viso e la bocca di Eddie sul
collo latteo. Il ragazzo sembrava essersi fumato tutte le scorte di cannabis
che avevano risparmiato in quei mesi, e ostentava la sensazione di pace col
mondo che doveva provare in quel momento. E nessuno di quei due disgraziati
mutò espressione quando lo videro entrare con la forza di un tuono, arrabbiato.
In un angolo, su un materasso ad acqua, giaceva la sagome di Alex, che dava
loro la schiena e pareva totalmente indifferente alla situazione e alle persone
presenti.
- Sei ancora qui. – era entrato nella
stanza con l’intenzione di spaccare il mondo a suon di urla e parolacce, ma di
fronte all’immagine di Charlie, che di nuovo appariva peccaminosa e disinibita,
si era pietrificato in una smorfia di disgusto che arrivava anche ai pugni,
serrati.
Eddie volse lo sguardo su di lui, e il
sorriso beato vacillò vistosamente: i suoi occhi, arrossati dal fumo, si
posarono sulla faccia in frantumi dell’amico, spalancandosi pericolosamente. –
Ma che cazzo, Mitch! – l’intelligente commento venne sputato un attimo dopo. E
forse, fu proprio quello il segnale che scatenò l’inferno.
- Eddie, esci da questa cazzo di stanza, ORA! – il sibilo assomigliava a
quello di un serpente inferocito e molto pericoloso, in procinto di attaccare
la propria preda. Eddie rimase imbambolato a fissare l’amico per qualche
istante, ma in si fece ripetere due volte l’avvertimento: l’erezione era
scemata e l’effetto della cannabis pure, sostituiti da una paura bestiale di essere
picchiato a sangue dal proprio coinquilino. Charlie non era più così
affascinante, di fronte a quella prospettiva. Afferrò la propria t-shirt in
velocità, passando accanto a Mitch come un fulmine per timore che l’amico,
ripensandoci, decidesse di non risparmiarlo e gonfiarlo di botte seduta stante.
Charlie rimase a guardare mentre il bel
ragazzo con il quale si era divertita per un numero interminabile di minuti se
la svignava, accavallando le gambe e attendendo che l’altro giocattolino della serata si facesse
sentire in tutta la propria potenza. Squadrò Mitch da capo a piedi, senza però
provare alcun divertimento, anzi, vestendosi di una serietà che non aveva
niente a che fare con la nudità della sua pelle. Una protezione per l’anima:
aveva l’impressione che non si sarebbe sottratta ad un confronto diretto con
qualche giochetto per dilettarsi.
Meglio
così.
Gli avrebbe dato un’altra lezione.
- Ti sei divertita? – l’ironia con cui le
pose la domanda era crudele e violenta, una combinazione di diverse emozioni
anche contrastanti, ma intense. Charlie osservò le sopracciglia scure inarcarsi
sul viso espressivo del ragazzo, il petto gonfiarsi di un nuovo respiro. Aprì
la bocca per sospirare, ed appoggiò un gomito sul ginocchio, mettendosi comoda.
– Certo, tu evidentemente ti diverti così. – la ragazza arricciò un labbro,
sentendo una vaga nausea provocata da quelle parole. Pretendeva di trattarla come se la conoscesse.
- Vorrei ucciderti, in questo momento. Dico
sul serio, vorrei ammazzarti! Cazzo!
– Charlie non faticava a crederci: non trattene un piccolo sussulto di
spavento, quando Mitch calciò con forza una sedie di legno dall’aspetto
malconcio, mandandola a sbattere contro il muro. Ma riacquistò immediatamente
la calma, rassicurata da
quell’atteggiamento. Orgoglioso, per lei il ragazzo pensava che
quell’atteggiamento da maschio dominante ferito ma di certo non morto potesse
riscattarlo dall’umiliazione; ai suoi occhi però, stava confermando sempre più
di essere un qualunque marmocchio in attesa di una sculacciata.
In realtà, Charlot Valenti era empatica
fino a dove voleva arrivare lei, e se lo avesse capito avrebbe anche intuito
che Mitch non si stava affatto difendendo, e soprattutto che non stava pensando.
- Credi di poter trattare la gente come una
merda solo perché un bel macchinone e degli amichetti servizievoli ti fanno
sentire la regina del mondo?! Dio, sei proprio la stronza di cui tutti parlano.
– per un attimo poi, Mitch, smise di camminare avanti e indietro come una fiera
in gabbia, puntandole l’indice contro. – E non
prenderla come un complimento, perché non sei una regina di ghiaccio col mondo
ai propri piedi, sei solo uno schifo di persona. Disposta a cadere in basso per
dimostrare agli altri di poterli manipolare! –
Charlot lo lasciò sfogare, ascoltando il
suo discorso dapprima affascinata, poi decisamente annoiata ed infine
infastidita. Un primo istinto le impose di alzarsi in piedi e reclamare delle
scuse, visto che quel disgraziato sembrava ancora non aver capito con chi
avesse a che fare. Ma s’impose un forte autocontrollo: Mitch non meritava tanto
spreco di energie, no?
E
poi, non sarebbe stato affatto coerente. Per quanto gli altri sparlassero, c’erano
dei valori tutti personali dietro quell’atteggiamento.
- Hai finito? – chiese poi, quasi interrompendolo
dopo l’ennesima valanga d’insulti, sforzandosi per mantenere un naturale
sorriso falso fino al midollo ed un tono tranquillo nella voce strafottente. Mitch
si volse a guardarla con astio di scatto, quasi facendosi male tanto improvviso
fu il movimento. – Sono davvero molto colpita, parole degne del miglior avvocato, o politico,
o quant’altro. – il sarcasmo col quale parlò, e quale si portò la mano sul
cuore delicata e velenosa, fu l’ennesima puntura di spillo per il ragazzo.
- Ma ti rendi conto di quello che fai?! –
Mitch spalancò le braccia, gridando. Il sorriso di Charlie non fece altro che
allargarsi. – Molto più di quello che credi tu. – egli non faticò a realizzare
che la ragazza stava parlando seriamente; fu un autentico tuffo al cuore, rendersi
conto che credeva fermamente in ciò che aveva fatto.
– Seriamente, perché sei ancora qui a
parlarmi? Credi di ottenere qualcosa con questi tuoi insulti sparati a caso,
con questa tua rabbia? Ti umili da
solo, cocco. Darmi della stronza, della troia, dell’atea fasulla, della
comunista o quello che vuoi non ti aiuterà a riguadagnare la dignità. Anzi,
ogni secondo che passa ne perdi un altro pezzettino. – Crudele, Charlie fece
segno di piccolezza con pollice ed indice, in un disegno che ben poco aveva di
dignitoso e che forse per questo era più che adatto. Le parole affluivano dal
cervello alla bocca senza sforzo, studiate nell’arco di due secondi da brava
improvvisatrice. Era una vera goduria sapere che lui stava ascoltando ogni
parola, e che credeva che lei avesse assimilato facilmente la scenata. Alex,
addormentato o forse solo indifferente, giaceva ancora sulla schiena.
- Hai addirittura sbattuta fuori dalla
camera il tuo amico. Andiamo, se ne avessi avuto l’opportunità, avresti fatto
esattamente come lui. Hai fatto di peggio, se così possiamo dire, al Gilmoure.
Non sprecare altro fiato. –
Poi tutto accade nel giro di pochi secondi.
Charlot si ritrovò schiacciata contro il
materasso dal peso di un corpo non così estraneo ormai. I polsi le dolevano, perché
si trovava sotto la morsa di mani brutali che li stavano stritolando,
trattenendole le braccia sopra la testa. Contro il viso poteva sentire
l’infrangersi di un respiro pesante, rabbioso come quello di un animale
selvaggio: il viso di Mitch era dove era stato fino a qualche ora prima,
separato dal suo da pochi centimetri di vuoto che sembravano non esistere
quando la ragazza posava gli occhi su quelli di lui.
Grigi
e tempestosi.
- Non giocare col fuoco, ragazzina. Potrai comandare a bacchetta
tutti i manichini della tua università per ricconi, ma IO non sono come loro e
non ti permetto di rivolgerti a me in questo modo. – in quel momento, Charlot
pensò che davvero l’avrebbe uccisa con le proprie stesse mani; aveva una carica
d’ira che la opprimeva contro la superficie del letto più della forza di
gravità sui loro corpi. Il viso del ragazzo era una maschera di rabbia, e quel
che era peggio era che questa non era ancora esplosa: si stava trattenendo quel
tanto che bastava per non perdere completamente il controllo.
Per la prima volta in quella sera, Charlie
ebbe paura. E, poteva scommetterci, lui lo sapeva.
- Chiedi scusa. – poi arrivarono quelle due
parole. Erano più pesanti del cemento armato, più del corpo della ragazza che
fra le braccia di quello sconosciuto (perché altri non era che uno sconosciuto)
si sentiva pesante, oppressa da ogni propria azione. – Fallo. – quegli occhi
grigi ora avevano perso la loro cattiveria: erano soltanto duri, violenti come
quell’abbraccio.
Per tutta risposta, la ragazza allungò il
collo per toccargli la punta del naso con la lingua, languida e rapida.
Le dita attorno ai polsi si strinsero
ancora di più; Charlie non credeva fosse possibile trovare un peso più
insostenibile di quella leggerezza,
la leggerezza con cui l’aveva trattato per tutta la sera, e il modo in cui lui
glielo stava rinfacciando. – Chiedi scusa o, giuro, non sarò responsabile delle
mie azioni. – La durezza era stata di nuovo sostituita con la rabbia. Bene.
- Avanti, fallo. – il tono era quello di
una gatta che faceva le fusa, ma non riuscì a nascondere il tremore di quella
tensione.
Pesantezza,
leggerezza.
- Sai che non mi cambierebbe un bel niente.
–
Mitch per un attimo fu davvero tentato di
prenderla di nuovo lì, poco importava se nella stanza c’era Alex e in cucina
tutti gli altri. Voleva strapparle i vestiti di dosso senza sensualità, e
possederla pretendendo le sue scuse come gemiti, dimostrarle di non potersi
fare gabbare. Ma il sorriso che trovò su quelle labbra carnose gli dimostrò che
lei non aspettava altro, da lui: non vedeva l’ora di vederlo cedere alla
rabbia, di divertirsi un altro poco e poi andarsene con la prova sul proprio
corpo di aver lasciato un segno indelebile su di lui.
- Vai al diavolo. –
Rotolò su un fianco senza la minima
delicatezza, mettendosi poi a sedere sul bordo del letto e passandosi le mani
fra i capelli in un gesto di pura esasperazione. Charlot rimase per un attimo a
fissare il soffitto muffito, senza riuscire a godere di quell’improvvisa leggerezza ritrovata, che viva con gli
occhi sgranati e le braccia ancora alzate come lui le aveva messe.
Si sentiva indispettita? Sì. Perché aveva
creduto che lui si sarebbe allontanato dalle sue braccia solo dopo averle dato
conferma di ogni certezza. Ma ora Mitch attendeva che lei si rivestisse e se ne
andasse, portandosi dietro la propria cricca di amichette e il proprio essere leggero e pesante allo stesso tempo. Non pretendeva più nulla da lei, e
nemmeno la sua rabbia reclamava le scuse per cui per poco non le aveva mosso
violenza.
Aspettava
solo
che levasse le tende.
Si alzò in piedi arricciando il nasino,
dando volutamente la schiena al ragazzo per sottolineare il dispetto che
provava per Mitch. Afferrò poi con violenza le proprie scarpe col tacco,
buttate a terra in precedenza, riversando su di loro la propria collera per
seppellire in un angolo della testa la sensazione terribile di stare agendo
come una vera immatura. Il solo
campanello d’allarme del genere in tutta la sera.
Mitch osservò quella ragazza che era stata
in grado di scatenare l’inferno per qualche ora e, al contrario di ciò che si
aspettava, non la trovò affatto perfetta.
Era piuttosto alta, anche se in confronto a lui era uno scricciolo, ma non si
poteva dire che fosse magrissima: le gambe il sedere erano generosi, anche se i
fianchi erano stretti e non sembrava esserci l’ombra di pancia. Dal reggiseno
invece non faceva capolino granché, se non un leggera imbottitura che le donava
una prima. E col trucco sbavato e i capelli scompigliati sembrava aver bisogno
di una bella dormita.
E quando si accorse che la stava fissando,
Charlie non poté nascondere un vago senso di disagio, una vulnerabilità che
colpi i suoi occhi con rapidità ma con dolore. Mascherò subito e bene
quell’emozione indefinita, ma Mitch fece in tempo ad accorgersene, assorbendo
quella visione come un boccone amaro mentre lei si rinfilava il vestito rosso.
Il ragazzo si rese conto che tutto ciò che lei voleva era sembrare perfetta e
sfruttare questa sembianza, ma esserlo realmente era tutta un’altra storia.
Almeno, avrebbe ricordato un’immagine di
lei che fosse vera.
Evie guardò l’orologio digitale appeso in
un angolo, prima di posare lo sguardo su The Tune, che da quando era stato
cacciato dalla camera da letto sembrava intenzionata a far sapere al mondo la situazione
insoddisfacente nei suoi pantaloni, facendo a gara di urla con due piccioncini
di un appartamento nello stesso palazzo.
Si stava annoiando da morire: non sopportava quelle trovate di Charlie, perché spesso e
volentieri l’amica non le lasciava altra opportunità oltre a seguirla verso i
posti più bassi e disgustosi di New York. Charlie era anche più snob di lei, ma
si adattava più velocemente, ed Evie associava all’arroganza aristocratica un
certo disagio nel trovarsi in mezzo a gente che non l’avrebbe mai capita,
nemmeno con tutta la buona volontà e il tempo del mondo.
Come
quei tizi.
- T-ti p-pia-ace l-la m-musica? – Nate, o
Vescica, cercava di fare conversazione da quando lei e Carrie avevano finito la
partita ad un gioco dal nome impronunciabile, con ovvia vittoria di Evie. Si
vedeva che nemmeno a lui andava bene aver per casa tre perfette sconosciute che
l’aveva trascinato in un’avventura delirante, e per nulla gradita. Era nervoso,
e scattava ad ogni loro movimento: cercava di tenere in piedi qualche parola
giusto per non sentirsi ancora più a disagio.
- Non particolarmente. – rispose annoiata,
appoggiando il mento alla mano e continuando a guardare Carrie che cercava di
capire cosa stesse dicendo Eddie, il quale blaterava di un narghilè e di due
paia di gambe che non l’avrebbero atteso più. Poi, la porta si aprì.
Charlie attraversò con lunghe falcate
quella sorta di cucinino per sfigati, facendole cenno frettolosamente di
alzarsi dal divano letto. – Andiamocene. – aveva aspettato tutta la sera di
sentirsi dire quelle parole, eppure Evie aveva l’impressione che ci fosse un
suono sbagliato in quella voce, che avrebbe dovuto essere armoniosa e calda di
una vittoria. Invece, sembrava proprio che Charlot avesse appena preso picche,
un’opzione non contemplabile nella normalità delle cose.
Istintivamente, Evie sorrise: ne avrebbe
sentite di belle, una volta tornata a casa. Poco importava che domani ci
fossero le lezioni, che ancora non sapevano cosa fosse successo al Gilmoure,
che domani fosse semplicemente un altro giorno, pieno di cosa da sbrigare e
persone da rassicurare. Prese Carrie per mano, e senza una parola uscì da
quell’appartamento di matti.
In
fondo, quel domani di cui parlava era già finito da quattro ore.
Tutto quello che lei avrebbe voluto, sarebbe
stata una nuova alba.
All that she wants is another baby,
she's
gone tomorrow.
(Ace of Base – All That She Wants)
NOTE DELL’AUTRICE
Un grande ritorno, dopo praticamente otto
mesi di assenza da EFP (circa, non ho tenuto il conto preciso). La mia
ispirazione ha fatto cilecca, però alla fine non mi ha impedito di pensare di
nuovo a Charlie e ai poveri quattro nuovi arrivati nella storia.
Spero, come sempre, di non essere stata
scontata, noiosa, o poco credibile nella storia. Smetto di cianciare, vi lascio
le citazioni.
Non so se fra gli amanti di Sir Elton John
ci si anche un certo The Lad, ma questo è un personaggio creato da me, e in
quanto tale ne detengo i diritti,
come di tutti gli altri personaggi originali della storia.
“Nessuno
saprà mai.” e “La virtù porta
rimpianti.” sono versi della canzone Serpente
dei Subsonica.
“Atea
fasulla.”, omaggio a quella capra di V.S.
“Trovare
un peso più insostenibile di quella leggerezza.” e quanto di simile segue,
da L’insostenibile leggerezza dell’essere,
di Milan Kundera.
E poi basta. Caspiterina, così poche
citazioni? Ebbene sì.
Vi lascio alcune foto prese da Lookbook, la
mia idea di come dovrebbero essere i miei quattro disgraziati.
Bye folks.