Mi alzo di scatto. La fronte lievemente sudata, gli occhi spalancati.
Ogni notte ho un incubo, sempre lo stesso. Torna imperterrito ogni volta che fa buio, per ricordarmi che sono sola.
Mi alzo frustrata e controllo l’orologio, le cinque. Tanto non mi riaddormento, è inutile. Il senso di oppressione e la malinconia mi causano un forte mal di testa.
Con una lentezza infinita raccolgo i vestiti e prendo un asciugamano dall’armadio. Mi dirigo in bagno per la doccia rinfrescante del mattino, come ogni giorno. Oggi faccio tutto con più calma anche perché si ritorna a scuola dopo le vacanze di natale. Si ritorna in quel buco nero pieno di ochette sempre con la borsetta e il lucidalabbra in mano, pseudo-calciatori con un ego eccessivo e secchioni-so-tutto-io che ti guardano con aria di superiorità. Certo, le vacanze non sono tanto meglio, io odio il natale. Lo odio perché mette in risalto l’amore e l’unione famigliare. Non ricevo un regalo da quando ho 6 anni, ma di quello non mi importa più di tanto. E’ il fatto simbolico che mi manca.
Prendo il mio zaino grigio e polveroso ed esco di casa senza fare rumore. Già la giornata era cominciata male, non è il caso di peggiorarla svegliando mio padre, sempre se è in casa e non a bere da qualche parte. L’autobus è in ritardo, come sempre, ma non ci do troppo peso. Arrivata in classe mi siedo stancamente su una sedia a caso, non avendo i posti assegnati.
-Hey bellissima, quella è la mia sedia!- starnazza Adèlle, l’oca maestra, il capobranco, quella con le zampe più palmate, il becco più appuntito e si, anche le piume più splendenti, viste tutte le visite nei centri di bellezza.
-Dove ci sarebbe scritto scusa?
-Umh… è scritto nel fatto che sei una sfigata!
-Ma fottiti, mi siedo dove voglio!
-Oh povera, ho offeso Miss Salverò-il-mondo! Vai a piangere dalla mammina dai! Oh, aspetta un attimo… non puoi!- forse quello che ha detto, forse il tono con cui l’ha detto, forse lei stessa, o forse tutto insieme mi fanno montare velocemente la rabbia.
Okay, non devo metterle le mani addosso. Abbie, non farlo, poi te ne penti. Sinceramente penso che non me ne pentirei mai.
Meglio non mettersi nei casini, ma non posso neanche mettermi a piangere per la frustrazione lì, davanti a tutti.
Devo fregarmene. Non ce la faccio, è una cosa impossibile.
Fanculo, dove è finito il mio menefreghismo? Proprio ora che mi serve disperatamente.
Dove sono finita? In un posto di merda! E la verità è che non ce la faccio più.
Adèlle mi sta ancora guardando, aspetta una risposta per continuare con gli insulti. Non gliel’avrei mai data vinta.
Mi alzo di scatto, proprio come avevo fatto questa stessa mattina per cancellare i ricordi dell’incubo, perché per certi versi anche questo lo è.
Afferro lo zaino e cammino verso l’uscita a passo svelto, non corro, non voglio darle un’altra soddisfazione, a quella.
Appena varco la soglia mi metto a correre senza neanche aspettare l’autobus. La scuola chiamerà a casa ma non me ne può importare di meno, la mia vita non può peggiorare.
Sbam. Sbatto la porta di casa e subito dopo quella della mia camera.
Afferro la mia chitarra rosso fuoco e suono.
Suono.
Suono a tutto volume.
Suono per sfogarmi.
Suono per comunicare la mia rabbia.
Suono per dimenticare il mondo.
E suono per ricordare le poche cose piacevoli.
La musica, che bella cosa, non ci fosse lei sarei già morta da un pezzo.
Sono incazzata e anche la mia musica lo è.
E’ incazzata col mondo, vorrebbe prenderlo e capovolgerlo. Quello che sta sotto andrebbe sopra. Quello che sta a destra, a sinistra. E quello che sta dentro, andrebbe fuori.
E’ incazzata con le persone, la gente, la massa, i potenti.
Che mondo del cavolo.
Bum. Dolore.
La chitarra smette di suonare con un rumore stridulo.
Bum. Mio padre urla cose incomprensibili e mi tira un altro ceffone.
Ha bevuto di nuovo, bene.
La mia mente non ragiona più, la rabbia ha scollegato il mio cervello. Sto per scoppiare.
Afferro la mia felpa preferita, quella dei Foo Fighters, prendo la chitarra e corro. Ormai la mia vita è fatta di corsa. La mia vita è scappare, scappare dalla vita stessa. Corro e cammino per le vie, le piazze, i parchi. Sono sfinita, ho attraversato la città.
Un edificio alto si impone davanti a me in tutta la sua altezza e la sua maestosità. Senza ragionare e pensarci due volte entro dal cancelletto e percorro la breve stradina del cortile anteriore. Suono il campanello e faccio in tempo a leggere, su un quadrato di ferro ossidato, la scritta ‘’Orfanotrofio’’ prima di non vedere più nulla.
Buio. Nero. Sono morta? Forse mi piacerebbe.