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Autore: _Hysteria_    02/07/2012    1 recensioni
Questa è 'una storia come tante', come dice il prologo. La storia di una problematica ragazza, Hope, che alla vigilia del suo dicissettesimo compleanno decide di prendere in mano la sua vita, l'unica cosa che possiede. Leggete, se v'incuriosisce! E, se volete, lasciatemi una recensione con ciò che ne pensate! ;)
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo III

 

 3 ore e 42 minuti dopo.

 

 Hope si trova ancora nella sua stanza, sul suo letto, stavolta accovacciata in posizione fetale.

 Piange… e ciò non succedeva da anni, ormai. Ha smesso di piangere che era ancora una bambina. “Le lacrime non servono!” le urlò contro una suora dell’orfanotrofio quando la bambina, piangendo, si lamentava di un taglio sul ginocchio. A quanto pare la disturbava con quelle sue lacrime, la disturbava in qualunque modo. Non poteva giocare, cantare, ridere, leggere nient’altro che non fosse ‘La Sacra Bibbia’ ( le cui copie sommergevano quell’orfanotrofio), ascoltare della musica… Adesso non poteva neanche provare dolore, non poteva piangere. Le rimase l’odio. Nessuno poteva impedirle di odiare qualunque individuo si aggirasse là attorno.

 Ed ora, dopo anni che quelle gocce d’acqua salate non rigavano più il suo volto, si ritrova lì, distesa, a piangere per ‘non sapeva bene cosa’.
 Hope non capisce il perché di quelle lacrime; stava pensando a come sarà una volta lontana da quel posto ed è scoppiata a piangere, stupendo se stessa. Non sa perché, forse perché là fuori sarà sola. Sola fisicamente, pensa. O perché non saprà dove ripararsi dalla pioggia battente, perché nessuno le rivolgerà la parola, perché per chiunque lei sarà NESSUNO.

 Sta addirittura singhiozzando, sembra che niente la possa tranquillizzare.

 “Se solo avessi qualcuno” pensa. E continua a piangere maledicendo sua madre, il giorno in cui l’ha messa al mondo e quello in cui l’ha abbandonata; maledice la direttrice di quello schifosissimo ed infernale posto e tutte quelle suore vecchie e ormai senza fede; maledice il custode di quel’orfanotrofio che continua a lanciarle sguardi espliciti da quando aveva quattordici anni ed iniziava ad assomigliare ad una donna ma che, per fortuna, non l’ha mai sfiorata con un dito; maledice tutti i bambini che entrano là dentro, perché simili ma diversi da lei, ma soprattutto maledice quelli che da lì usciranno mano nella mano con i loro ‘nuovi’ genitori. Infine maledice se stessa, il suo carattere, il suo destino. Il suo essere così dannatamente sbagliata che la porta solo a fare errori, a odiare e farsi odiare da tutti.

 Maledice la sua stessa vita ma, in fondo, la ama talmente tanto da rischiarla per poterla avere in pugno e, finalmente, vivere davvero.

 Ma ormai è quasi ora di andare, lasciare quel posto e correre il più possibile lontano da là. È già vestita; tira su la zip della felpa, mette in spalla la sua sacca e scende le scale che dal dormitorio portano all’atrio principale al piano terra.

 Non può uscire da lì, deve trovare una porta secondaria. Allora entra nelle cucine e tenta di aprire la porta che da sulla parte laterale del giardino. Sembra bloccata, è una porta abbastanza vecchia, in fondo. Bene, dovrà metterci più forza e… STRAM! La porta si apre facendo un trambusto assurdo a seguito del quale sente qualcuno, sicuramente una delle suore addette alla cucina, che si muove nelle stanze adiacenti a questa.

 È in quel momento che, seppur presa dal panico, capisce che deve fare una sola cosa: correre. Più veloce che può.

 Attraversa il grande giardino correndo a perdifiato, col cuore in gola, e tenta di arrampicarsi sull’enorme cancello nero all’entrata mentre il custode e due suore azzardavano una stanca corsa per raggiungerla. Urlavano il suo nome e pian piano tutto l’orfanotrofio si è risvegliato illuminandosi e illuminando maggiormente il giardino.

 Non mi prenderete, stronzi! pensa Hope mentre continua a scivolare sul ferro umido. Aveva paura di non farcela, ma era determinata. E oltretutto confidava nell’odio che la legava a quella gente che non avrebbe messo troppo impegno nell’impedirle la fuga. Ma continuavano a correre e lei non riusciva ad arrampicarsi. Poi, col panico che le velava gli occhi e la mente, si diede una spinta con braccia e gambe e riuscì a ‘scalare’ l’umido e freddo ostacolo che la teneva lontana dalla sua libertà. Giunta il cima lo scavalcò e saltò giù atterrando con dolore sulle gambe. Doveva continuare a correre, stavano facendo aprire il cancello: il dolore non poteva fermarla.

 Correre, correre, correre, Fin quando le gambe reggevano, fin quando i polmoni glielo permettevano. Non sapeva dove sarebbe arrivata e non le importava gran che. L’importante era arrivare il più lontano possibile dal quieto inferno nel quale era cresciuta.



  
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