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Autore: SognoDiUnaNotteDiMezzaEstate    02/07/2012    10 recensioni
Era quello che volevo, no? L’occasione giusta per mandare tutto all’aria e concedermi del tempo per me.
Avevo immaginato di mandare al diavolo il mio lavoro e la mia coinquilina tante di quelle volte che nemmeno ricordavo quando la mia insofferenza nei loro confronti fosse iniziata. Quello che non avevo immaginato, però, era di non intraprendere quel viaggio da sola; e che ad accompagnarmi sarebbe stata una delle persone da cui cercavo disperatamente di fuggire in quel momento: Edward Cullen.
Genere: Avventura, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Coppie: Bella/Edward
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun libro/film
Capitoli:
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Route 66

No looking back when I am gone,

Follow your heart it's never wrong,

No looking back when I am gone,

Don't second guess the note you're on.

Out of time, all out of fight,

You are the only thing in life that I got right.

Yellowcard - Sing For Me

18. What I was looking for

Fortunatamente, essendo il nostro un viaggio on the road che consisteva nello spostarsi quasi ogni sera, avevo tutte le mie cose già ritirate in valigia, quindi non appena tornammo in hotel dal ristorante non ebbi molto da fare, oltre a ritirare i vestiti che mi ero tolta prima di uscire per andare a cena. Lasciai fuori solo il prendisole che avrei indossato il giorno dopo e un cambio di intimo, poi chiusi la valigia, accantonandola in un angolo della stanza, accanto alla porta.

Edward mi osservava seduto sul bordo del letto, lo sguardo che mi seguiva in ogni minimo movimento e l’espressione illeggibile. Non avevamo detto nulla. Del resto cos’altro c’era da dire ancora? Ormai le decisioni erano state prese, e potevamo solo accettare quello che sarebbe stato il nostro domani.

Quando terminai il mio lavoro di sistemazione sospirai pesantemente, guardandomi attorno un’ultima volta per essere sicura che non avessi dimenticato nulla.

«Okay, penso di avere preso tutto…», mormorai, pensierosa.

Edward tese una mano verso di me, e mi avvicinai fino a stringergliela. Mi fece sedere sulle sue gambe, e appoggiai il capo sulla sua spalla, alla ricerca di quella sicurezza che né io né lui sembravamo possedere in quel momento.

Sentivo le sue dita giocare con i miei capelli sulla schiena, e chiusi gli occhi cercando di rilassarmi.

«Vedrai che andrà tutto bene», disse. «Devi solo restare tranquilla, okay?»

«Ci proverò», risposi.

«Andiamo a dormire?», mi chiese dopo diversi minuti di silenzio, accarezzandomi la schiena.

Annuii, alzandomi dalle sue gambe per fare il giro del letto e infilarmi sotto il lenzuolo, troppo infreddolita dall’aria condizionata per restare scoperta. Edward mi seguì subito dopo, e cercai riparo fra le sue braccia, calde e accoglienti. Mi accoccolai sul suo petto, e chiusi gli occhi, nonostante sapessi che non sarei riuscita a prendere sonno molto presto.

Con una mano disegnavo ghirigori immaginari sul petto nudo di Edward, cercando di addormentarmi, ma ottenendo invece l’effetto opposto di svegliarmi ancor di più.

«Sei tesa», sussurrò a un certo punto, nell’oscurità.

Fermai il movimento della mia mano, credendo di averlo infastidito. «Scusami», mormorai.

Con la punta delle dita scivolò dalla mia nuca fino al bordo dei pantaloncini, provocandomi una cascata di brividi nonostante il tessuto della canottiera avesse ridotto il contatto.

«Forse posso fare qualcosa per cercare di rilassarti un po’», disse, e nella sua voce lessi una nota maliziosa.

Premetti le labbra contro il suo collo, inarcando la schiena e sorridendo sulla sua pelle. «Sarà un’impresa difficile».

«Allora dovrò impegnarmi sul serio», rispose, divertito.

Non sapevo se quella fosse la scelta più saggia, perché il giorno dopo sarebbe stato ancora più difficile lasciarlo, se anche quella notte avremmo fatto sesso.

Ma ormai ero già in gioco. Sarebbe stato comunque difficile lasciarlo, e non volevo farlo con il rimorso di aver sprecato la nostra ultima notte insieme.

Perciò mi lasciai andare, lasciando che Edward riuscisse a rilassarmi, e alla fine caddi addormentata fra le sue braccia, senza più pensieri in mente.

 

Il museo dedicato alla Route 66 di Victorsville era come tutti gli altri musei. O almeno così mi era parso. A dire la verità, non avevo prestato molta attenzione a ciò che mi circondava mentre camminavo lungo le sale d’esposizione. Ero troppo concentrata su Edward e sul pensiero che subito dopo saremmo partiti per raggiungere l’aeroporto per soffermarmi sulle fotografie e le auto d’epoca immobili da chissà quanti anni.

Quando uscimmo non ricordavo nemmeno di aver scattato delle fotografie, talmente ero distratta.

Il viaggio in furgoncino fino all’aeroporto LAX sembrò durare un attimo. Era passata più di un’ora e mezza da quando avevamo lasciato Victorsville, eppure all’improvviso mi ero ritrovata davanti alle porte automatiche dell’aeroporto, con il trolley accanto ed Edward che mi faceva strada. Comprai il biglietto aereo al bancone del last minute accanto all’ingresso, poi ci dirigemmo verso la dogana.

Era arrivato il momento. Ci saremmo dovuti separare; forse solo per qualche giorno, forse per qualche settimana, ma sapevo che anche se si fosse trattato di poche ore avrei comunque trovato quel momento uno dei più difficili che potessi affrontare.

Edward fermò il mio trolley accanto a noi, a metà, come a voler porre già una barriera fra i nostri corpi, come se non bastassero tutte le miglia che nel giro di un paio d’ore ci avrebbero separato. Infilò le mani in tasca, e fece vagare lo sguardo da me alla dogana alle mie spalle.

«Ci sentiamo più tardi?», gli chiesi, non sapendo cos’altro dire. C’erano tante cose che avrei voluto dirgli, ma nessuna sembrava adatta alla situazione né riuscivo a trovare il coraggio per farlo.

Lui annuì. «Cerca di non dormire troppo in aereo, o stanotte a Chicago non chiuderai occhio», mi ricordò.

Scossi il capo in segno affermativo, provando a cingere le braccia intorno al busto, ma incontrando l’ostacolo della mia macchina fotografica. La feci dondolare, poi la sfilai dal collo.

«Potresti fare delle fotografie per me a Los Angeles?», gli chiesi. Tesi le braccia, porgendogli la mia macchina.

«Lo sai che sono negato nella fotografia», borbottò lui, allungando comunque le mani per afferrarla. Le sue dita sfiorarono le mie, e indugiai sulla macchina fotografia, godendomi la sensazione della sua pelle a contatto con la mia.

«Non sei così male», sussurrai, anche se quella non era proprio la verità. «E poi una foto mal riuscita è sempre meglio di niente, no? Così quando le vedrò potrò fingere di essere stata lì anch’io, anche c’era solo la mia macchina».

Edward non disse niente, e sfilò la macchina fotografica dalle mie mani, mettendosela al collo tramite la cinghia.

«E così sarai obbligato a tornare a Chicago presto per ridarmela», mormorai, cercando di imprimere una nota allegra e scherzosa alla mia voce, ma senza riuscire a conferire al mio viso le stesse emozioni che stavo fingendo così malamente.

Le braccia di Edward mi circondarono prima ancora che me ne rendessi conto, e affondai il viso nella sua spalla, con la macchina fotografica premuta contro il seno, fra di noi; non avevo mai odiato la mia macchina fotografica, ma in quel momento avrei volentieri accettato di lasciarla cadere a terra pur di rimanere il più vicino possibile ad Edward per quegli ultimi momenti senza intralci. Strinsi le braccia intorno alla sua vita, chiudendo gli occhi e intimandomi mentalmente di non piangere. Ci stavamo separando per soli pochi giorni del resto; non c’era da farne un dramma; le mie sensazioni negative non dovevano diventare una paranoia, o quella settimana sarebbe durata un’eternità.

Edward mi carezzò la schiena, su e giù, cercando di mantenere un ritmo lento e costante che mi riuscì a rilassare - anche se di poco, rispetto a come sarebbe riuscito normalmente - quel tanto che bastava a farmi allentare la presa intorno a noi. Fu lui a fare il mezzo passo indietro che ci consentì di guardarci di nuovo negli occhi. Con il dorso delle dita accarezzò la mia guancia, facendo un mezzo sorriso.

«Ci rivediamo tra qualche giorno, okay? Chiamami quando arrivi a casa», aggiunse, ed io non potei fare altro che annuire lievemente, scuotendo il capo come un automa.

Poi chinò il capo, e mi baciò. Sfiorò le mie labbra lentamente, con tocchi leggeri e delicati, quasi incerto. Prima che si allontanasse, però, allacciai le braccia intorno al suo collo, e alzandomi in punta di piedi premetti con più forza la bocca contro la sua, cancellando tutte le sue incertezze. Sentii le sue braccia intorno alla vita, e il suo bacio farsi più intenso, quasi disperato. Le sue labbra cercavano le mie, e la sua lingua si legava alla mia come a non volermi più lasciare. Non mi importava di essere nel bel mezzo di un aeroporto con la gente intorno a guardarci, non mi interessava di star dando spettacolo, sapevo solo che quello era l’ultimo momento in cui avrei potuto stare con Edward per chissà quanto tempo, e non volevo che l’ultimo ricordo di lui fosse quello di un bacio incerto e triste.

Con la mano accarezzò la mia guancia un’ultima volta, poi si staccò, e nei suoi occhi lessi la stessa malinconia che provavo io.

Lo guardai allontanarsi, e strinsi la maniglia del trolley fino a far sbiancare le nocche. Poi voltai le spalle, e mi misi in fila alla dogana, imponendomi di non voltarmi, perché sapevo che se l’avessi visto ancora fermo ad aspettarmi non avrei trovato la forza per andare avanti e sarei tornata indietro da lui.

Varcai il confine della dogana, resistendo alla tentazione di voltarmi, e in fretta e furia scesi le scale mobili che conducevano ai gates; quando mi girai, trovando solo un muro di scale davanti a me, e non più la barriera della dogana, rilasciai un sospiro a metà sollevato e metà arreso.

Arrivai davanti all’imbarco per Chicago, dove diverse persone erano già sedute in attesa. Mi accomodai su una poltroncina di pelle nera poco lontana dalla porta del gate, e aspettai.

Cercavo di distrarmi osservando le altre persone, tirando a indovinare i motivi della loro partenza. Molti erano uomini d’affari, intenti a ticchettare le dita sui tasti dei portatili, incuranti della gente intorno a loro, altri erano concentrati su un’enigmistica, mentre le poche famiglie con bambini presenti nella sala attendevano pigramente la chiamata del loro volo, intimando i più piccoli di fare silenzio. Alcuni cartelloni pubblicitari erano posizionati nelle aiuole di piante finte, che come delle isole erano posizionate ai lati del lunghissimo corridoio di quel terminal, creando zone chiuse in cui erano posizionati tavolini e panchine dei diversi locali di ristorazione. Su uno di quei cartelloni pubblicitari vidi la fotografia di una delle tante magnifiche spiagge di Los Angeles, ripresa al momento del tramonto e con una coppia vista di schiena, seduta a fare un picnic a pochi passi dall’oceano. Mi chiesi se anche Edward sarebbe andato in riva all’oceano quella sera, a vedere il tramonto, e se si sarebbe sentito solo come mi stavo sentendo io in quel momento.

Scacciai quel pensiero, tornando a concentrarmi sulla gente intorno a me. Il suono di un cellulare che squillava attirò la mia attenzione, e mi concentrai sull’uomo d’affari davanti a me, che stava rispondendo alla chiamata. Parlò a voce abbastanza alta, commentando con quello che pensavo fosse un suo collega di un’importante transizione per la società per cui lavorava. Poi aggiunse che stava tornando a Chicago solo per consegnare il rapporto e poi sarebbe tornato a Los Angeles per altri cinque giorni per prendersi qualche giorno di riposo. Quel commento fece scattare nella mia mente un’idea, e non prestai più attenzione alla chiamata. Avrei potuto fare anch’io come quell’uomo: avrei potuto tornare a Chicago per il colloquio e poi sarei potuta ripartire in serata per tornare qui a Los Angeles con Edward. Sapevo che sarebbe stata un’impresa dispendiosa e sfiancante - dodici ore di aereo nel giro di sole ventiquattr’ore non erano una passeggiata - ma ne valeva la pena. Stavo già cercando il cellulare per informare Edward di quell’idea, quando un altro pensiero sopraggiunse: cosa avrei fatto se mi avessero chiesto di iniziare a lavorare fin dal giorno dopo, ovvero sabato? Avrei potuto cercare di convincere il redattore del giornale a farmi iniziare solo da lunedì, ma sapevo che era una mossa rischiosa per un nuovo dipendente: farlo avrebbe rischiato di mettermi in cattiva luce fin dall’inizio, e se non volevo mandare in fumo il sacrificio di lasciare Edward in California da solo avrei dovuto lasciar perdere quella proposta. Smisi di cercare il cellulare, tornando ad affondare nello schienale della poltroncina. Coprii con una mano uno sbadiglio, e presi in considerazione la possibilità di andare a bere un caffè al piccolo bar lì vicino, prima che iniziassero l’imbarco.

Proprio quando mi alzai, sentii la voce dell’altoparlante che annunciava il codice del mio volo, e mi voltai immediatamente in direzione del gate, sentendomi nuovamente sulle spine. Era il momento.

Ma quel momento non arrivò. Infatti, subito dopo aver snocciolato il codice del volo per Chicago, la voce femminile annunciò un ritardo di ben tre ore, a causa di problemi tecnici al velivolo. Un coro di lamentele si alzò dai passeggeri in attesa, e il banco dell’imbarco fu preso d’assalto da un gruppo di persone infuriate, mentre le più scocciate si avvicinavano solo per riuscire a capire quali fossero i motivi del ritardo.

Rinunciai a prendere il caffè, decidendo di approfittare di quelle ore per provare a riposare. Andai verso una fila di sedili posizionata di fronte all’immensa vetrata che si affacciava sulle piste di decollo e atterraggio, sedendomi sulla poltroncina accanto alla colonna di cemento, a cui mi appoggiai con la spalla, cercando una posizione comoda per addormentarmi. Guardai un aereo prendere il volo, poi mi addormentai.

 

Non ricordavo granché del volo. A dire il vero non ricordavo nemmeno di essere salita a bordo. Ma in qualche modo dovevo essere salita sull’aereo, perché in quel momento mi ritrovavo a passare il mio documento d’identità ad un poliziotto alla dogana, e mi stavo dirigendo verso l’area degli arrivi dell’aeroporto di Chicago.

Mi sembrava di essere un automa. I piedi si muovevano per conto proprio, trascinandomi verso casa mia, verso il mio nuovo lavoro. Non mi guardavo intorno, perché sapevo di essere sola. Nonostante tutta la gente che si muoveva velocemente intorno a me l’unica persona che avrei davvero voluto vedere era a miglia di distanza, ed ero stata io a scegliere di lasciarla lì.

Quando varcai le porte automatiche che conducevano all’atrio degli arrivi, però, venni richiamata da due voci. Due voci squillanti e familiari, che solo in quel momento realizzai quanto mi fosse mancato sentirle dal vivo in quelle settimane. Appena superai la barriera venni travolta da Rosalie ed Alice, che mi stritolarono in uno degli abbracci di gruppo che tanto adoravamo. Lasciai andare il trolley accanto a me, stringendole a mia volta.

Le avevo chiamate solo poche ore prima di prendere l’aereo, ed ero felice che avessero rinunciato ai loro piani della serata per venire a prendermi all’aeroporto, risparmiandomi il viaggio in autobus da sola. Mi riaccompagnarono a casa a bordo della decappottabile rossa fiammante di Rose, iniziando quello che aveva tutta l’aria di essere un interrogatorio. Alice insisteva affinché le riferissi un racconto dettagliatissimo di tutto quello che era successo con Edward, mentre Rosalie si limitava ad intervenire di tanto in tanto con commenti e domande affini. Riuscii a cavarmela con un breve riassunto di come stavano andando le cose, promettendole che appena avrei avuto io stessa le idee più chiare sarebbero state le prime a saperlo. Perché effettivamente era quella la verità: non sapevo cosa stava succedendo davvero fra me ed Edward. Ero convinta che entrambi provassimo ancora qualcosa, ma come facevamo a sapere se quello che stavamo attraversando fosse qualcosa di nuovo che poteva avere un futuro e non una reminiscenza del passato?

Perciò rimasi in silenzio, preferendo non condividere quei pensieri con le mie amiche. Sapevo che entrambe mi avrebbero detto solo la pura verità, e anche per questo non volevo dirle nulla. Avevo paura di quello che avrebbero detto, paura di aprire gli occhi e di scoprire che quei giorni insieme ad Edward passati in una bolla di felicità erano destinati a scomparire con il suo ritorno. In quel momento avevo solo bisogno di cacciare dalla testa quei pensieri negativi e concentrarmi piuttosto sul colloquio che l’indomani avrei dovuto affrontare.

 

Ero seduta nell’immenso studio del capo redattore del Chicago Tribune da più di un quarto d’ora ormai. L’uomo davanti a me era grassottello, con un paio di occhiali rettagolari da vista che teneva quasi sulla punta del naso; i capelli grigi erano talmente radi che era già stempiato. Assomigliava in maniera impressionante al mio ex capo - quello che mi aveva licenziata per un paio di gambe snelle e dai principi a dir poco discutibili - e la cosa mi aveva reso nervosa fin dall’inizio del colloquio. Pure lo studio mi sembrava familiare, anche se nella vecchia redazione di certo non avevamo locali privati così spaziosi.

Dopo avermi fatto qualche domanda sulla mia carriera e i miei studi si concentrò sul mio stile di scrittura, indagando quali fossero le mie idee a proposito della politica, l’economia e cose molto in generale, soffermandosi soprattutto sui primi due argomenti.

Alla fine, dopo una lunga pausa di riflessione, durante la quale scrutò un’ultima volta il mio curriculum e alcuni articoli, alzò il capo verso di me.

«Molto bene, signorina Swan», disse, ed io mi preparai già a sentire la fatidica frase “Le faremo sapere al più presto”, che in quei casi significava sempre che non eri stata assunta e non ci avrebbero ripensato due volte. «Può iniziare lunedì».

Lo guardai, cercando di mascherare malamente la mia sorpresa. Sii professionale, Bella.

Il capo redattore si alzò in piedi, tendendomi la mano attraverso la scrivania imbandita. Lo imitai, sperando che non notasse il tremolio di emozione nella mia mano.

Ringraziai con voce - fortunatamente - ferma, e dopo un breve saluto uscii dalla redazione, tornando all’aria aperta. Faceva più caldo rispetto allo studio - l’afa di Chicago sembrava addirittura quadruplicata dopo aver passato mezz’ora in un locale climatizzato -, e corsi a ripararmi all’ombra degli alberi del lungofiume di Chicago. Mi sedetti su una panchina nascosta dal sole e presi il mio cellulare, componendo velocemente il numero di Edward.

Impiegò un paio di secondi a rispondere, e non appena sentii la sua voce un’ondata di malinconia mi travolse. Il pensiero che ci fossero quasi duemila miglia a dividerci in quel momento mi faceva più male che mai, ed anche se cercavo di non pensarci era difficile non farlo mentre gli parlavo.

«Com’è andato il colloquio?», mi chiese subito, e avvertii in sottofondo il verso dei gabbiani. Era vicino all’oceano, quasi sicuramente. Un’ondata di invidia mi sommerse; avrei voluto essere lì con lui a godermi quella spiaggia anziché essere in centro città, con solo il fiume Chicago come fonte di freschezza a pochi passi.

«Mi hanno assunta», risposi in un sussurro, ancora incredula. Non mi aspettavo che fosse così semplice, che mi prendessero subito, una volta finito il colloquio; mi aspettavo di attendere qualche giorno, dopo che avessero ricevuto anche altri potenziali dipendenti.

Edward si complimentò vivacemente, e nella sua voce colsi tutta la sua felicità per me. «Hai visto che ne è valsa la pena tornare a casa prima?», aggiunse, con tono scherzoso.

Sorrisi mestamente, e non commentai. «Com’è Los Angeles? Ti piace?»

«Non è male…», mormorò, e lo immaginai mentre infilava una mano in tasca e guardava verso l’orizzonte segnato dall’oceano. «Però in centro città c’è un’afa che ti uccide».

Risi appena. «Fa più caldo che in centro a Chicago in pieno luglio?»

«No. Per battere quel caldo dovremmo andare nel Sahara probabilmente».

Mi morsi il labbro inferiore. Avrei voluto chiedergli quando sarebbe tornato a casa, ma mi trattenni. «Stai facendo delle foto?»

«Ci sto provando. Questo affare è più complicato di quello che sembra. Se lo schermo rimane nero significa che devo guardare nello spioncino?»

Trattenni una risata. Mi aveva fatto la stessa identica domanda quando avevo provato a spiegargli il funzionamento della macchina fotografica durante il viaggio. «No. Significa che hai dimenticato di togliere il coperchio all’obiettivo».

Lo sentii borbottare qualcosa, e lasciar cadere il discorso. I successivi minuti li trascorremmo parlando di Los Angeles, o meglio, lui mi parlava di LA, mentre io lo ascoltavo in silenzio, senza sapere cosa dire. Da quello che avevo capito si stava divertendo parecchio a girare per le varie spiagge, aveva perfino pensato di prendere qualche lezione di surf nei giorni seguenti. Intanto io, dentro di me, reprimevo continuamente la vocina che mi urlava di chiedergli quando sarebbe tornato a casa. Sarebbero stati giorni infernali a causa di quelle telefonate che erano sia la causa della mia tristezza che il motivo per cui affrontavo i giorni senza lasciarmi scoraggiare.

 

I giorni passavano veloci, senza che nemmeno me ne rendessi conto. Avevo iniziato a lavorare al giornale, occupandomi ancora di articoli minori, giusto per iniziare. Tutto sembrava procedere bene, ma non riuscivo a cancellare la strana sensazione che provavo. Le telefonate con Edward erano diventate più rare e più brevi; c’era qualcosa nel suo tono che non mi convinceva. Sembrava stanco e distratto mentre gli parlavo. Morivo dalla voglia di chiedergli quando avrebbe deciso di iniziare il viaggio di ritorno a Chicago, ma non volevo costringerlo a partire contro la sua volontà. Se voleva rimanere ancora qualche giorno a Los Angeles del resto non era la fine del mondo, potevo cavarmela bene anche da sola. Ma anche se continuavo a ripetermi queste parole non riuscivo comunque a cancellare la sensazione di abbandono e mancanza che provavo. Era questo uno dei motivi per cui inizialmente ero stata così restia ad accettare di riavvicinarmi ad Edward. Non volevo riprovare questa sensazione di necessità e bisogno nei suoi confronti. Volevo essere indipendente non solo economicamente, ma anche sentimentalmente. Non volevo sentirmi triste e sola in quel modo. Tuttavia, non ci riuscivo. Non riuscivo a fare altro che chiedermi quando sarebbe tornato a Chicago, e perché ci stesse mettendo così tanto. Ormai era passata una settimana intera da quando ci eravamo lasciati, ma Edward non aveva ancora parlato di rientrare; forse aveva bisogno di altro tempo per stare lontano da casa e affrontare gli ultimi fantasmi del suo passato. Tornare a Chicago per lui avrebbe significato anche tornare a pensare a Lizzy, e avrei voluto essergli accanto in quel momento, per fargli capire che io per lui c’ero. Non volevo parlargli di queste cose per telefono, e non potevo nemmeno insistere perché tornasse a casa prima che si sentisse pronto a farlo. Dovevo concedergli il suo tempo, e resistere.

Il secondo weekend che passai a Chicago sembrava destinato ad essere come lo scorso: pigro e privo di novità. Uscii con Alice e Rose, andando come al solito a passeggiare sul lungolago. Stavamo parlando degli ultimi acquisti di Alice, quando il cellulare di Rosalie prese a suonare. Rispose subito, allontanandosi dopo averci mimato un “È Emmett”.

Quando raggiunse nuovamente me ed Alice sbuffò. «Quell’orso è matto da legare», commentò, riferendosi al suo ragazzo. Quello di “orso” era il soprannome che noi ragazze usavamo rivolgendoci a lui, in quanto la sua stazza era proprio quella. «Mi ha chiamato solo per lamentarsi di Edward. Non ci avevi detto che si era rotto un tubo dell’aria condizionata durante il viaggio», disse, rivolgendosi infine a me.

Scrollai le spalle. «Non mi sono ricordata», mentii. In realtà Edward ed io avevamo deciso di far finta di nulla con Emmett, per evitare che si infuriasse. Mi stupiva che Edward avesse deciso di dirglielo alla fine.

Rose fece un gesto con la mano che lasciava intendere che non importava. «Comunque adesso Em sta progettando qualcosa che possa fargliela pagare ad Edward. Spero non ricada anche su di te questa punizione».

Mi rabbuiai. «Ha un sacco di tempo per pensarci. Chissà quand’è che Edward tornerà in città».

Alice e Rosalie rimasero in silenzio. Quando mi voltai a guardarle entrambe avevano un’espressione strana e crucciata.

«Che c’è?», chiesi. Avevo detto qualcosa di strano?

Si lanciarono un’occhiata a vicenda, poi Alice si schiarì la voce. «Bella… Edward è già tornato in città».

Sgranai gli occhi. «Cosa? Da quando?»

Lei aggrottò le sopracciglia. «Non lo sapevi?», mi chiese, ignorando la mia domanda.

Scossi il capo, gli occhi ancora sbarrati. «Perché non me l’avete detto prima?»

Rosalie si avvicinò. «Non hai mai parlato di Edward in questi giorni, pensavamo che lo sapessi e vi foste già visti. Pensavamo stessi aspettando di sentirti pronta per parlarcene».

Aggrottai le sopracciglia, cercando furiosamente il cellulare nella borsa, senza aggiungere niente.

Alice posò una mano sul mio braccio, cercando di rassicurarmi. «Magari ti sta organizzando una sorpresa. Lo sai com’è lui».

Mi morsi il labbro inferiore, estraendo il cellulare. Nessuna chiamata persa, nessun messaggio. Non mi aveva cercata per avvisarmi, e in questi due giorni non ha fatto altro che fingere di essere ancora a Los Angeles quando invece era già in città.

«Devo andare», dissi alle ragazze, voltandomi per raggiungere la strada, dove avrei potuto trovare un taxi.

Alice e Rosalie annuirono semplicemente, intuendo al volo dove stavo andando e rinunciando a fermarmi, sapendo che non ci sarebbero riuscite.

Diedi l’indirizzo di casa di Edward al primo taxi che riuscii a fermare sul ciglio della strada, e tamburellai nervosamente le dita sul cellulare, aspettandomi che da un momento all’altro si mettesse a squillare. Pensai ai mille motivi per cui avrebbe dovuto tenermi all’oscuro del suo ritorno, e l’ipotesi di Alice - secondo cui stava organizzando una sorpresa per me - non mi sembrò neanche lontanamente credibile e accettabile; non mi servivano sorprese in grande stile, mi bastava solo che lui tornasse a casa da me, maledizione. Mi bastava rivederlo e capire che tutto era a posto, e che avremmo iniziato una nuova vita insieme, questa volta senza più errori.

Quando il taxi mi scaricò davanti a casa di Edward trovai le ante delle finestre aperte, ma le tende tirate non mi consentivano di vedere all’interno. Non c’era la sua Volvo nel vialetto, né la Jeep di Emmett, ma poteva benissimo essere ritirata nel garage.

Decisi di concedergli un’altra chance. Avviai la chiamata al suo cellulare, e lui rispose dopo quasi un minuto.

«Pronto?»

«Edward? Sono Bella», dissi, cercando di mantenere un tono di voce indifferente e di nascondere la tensione.

«Ehy», rispose, e non mi parve di avvertire alcune tensione nella sua voce. «Va tutto bene?»

Deglutii. «Non lo so», ammisi. «Dove sei adesso?»

Impiegò alcuni secondi a rispondermi. «Ancora a Los Angeles. Che succede?»

Sembrava sincero. Maledettamente sincero. Mi morsi il labbro inferiore. «Niente. Solo… mi manchi».

Lo sentii sospirare leggermente. «Lo so. Mi dispiace. Vedrò di tornare presto, okay?»

Annuii, e dopo un breve saluto riagganciai la chiamata. Guardai la porta di casa sua, chiusa, e le voltai le spalle, decisa a tornare in centro. Forse Rosalie ed Alice si erano sbagliate. Perché avrebbe dovuto mentirmi così sfacciatamente? Sapeva cosa provavo, non l’avrebbe mai fatto.

Mi stavo già incamminando lungo la strada, decisa a tornare verso il centro in attesa che un taxi passasse da quelle parti, ma mi fermai. Tornai indietro rapidamente, attraversando il ciottolato che conduceva dritto alla porta d’ingresso di casa di Edward, e suonai il campanello con furia per tre volte di seguito. Prima che premessi nuovamente il pulsante la porta si aprì, ed Edward apparve sull’uscio.

Sentii il mio cuore perdere un battito, e non riuscii a respirare per qualche secondo. Lui sgranò gli occhi, e la bocca si schiuse senza rilasciare alcun suono.

«Lo sai che questa non è Los Angeles, vero? Non so se l’hai notato ma la polvere che vedi per strada non è sabbia. E di certo il lago Michigan non è uno sconfinato oceano», sputai, con i pugni stretti lungo i fianchi, ricacciando indietro la tristezza e le lacrime e lasciando che fosse solo la rabbia a dominarmi.

«Bella…», cominciò Edward, abbassando gli occhi.

«No, Edward. Spiegami per quale motivo non mi hai detto la verità. Sei tornato da due giorni, dannazione. Due giorni, e non hai fatto altro che dirmi bugie al telefono!»

«Mi dispiace».

«Ti dispiace?», ripetei, esterrefatta. «È l’unica cosa che hai da dire?»

Lui rimase immobile, le braccia lungo i fianchi.

Lanciai un’occhiata alle sue spalle, scorgendo uno scatolone colmo di libri ancora aperto. Feci un passo dentro casa, passando fra Edward e lo stipite della porta. Oltre a quello c’erano molti altri scatoloni nel salotto, alcuni chiusi, altri aperti e colmi di oggetti. Le mensole della libreria erano state svuotate, e la televisione era staccata.

«Cosa stai facendo?», sussurrai, fermandomi, impietrita.

Mi voltai a guardarlo, trovandolo con una mano sulla nuca, segno che era nervoso. Non disse nulla.

«Ti stai trasferendo?», riuscii a chiedergli, e nella mia voce non c’era alcun segno di accusa, solo sorpresa.

Edward annuì cautamente. «Mi hanno offerto un posto al Ronald Reagan. È uno dei migliori ospedali della costa occidentale, non potevo rifiutare».

Socchiusi gli occhi. «Non volevi», precisai. «Quindi nei giorni scorsi sei andato a cercare un lavoro a Los Angeles? Tutti i giri per la città e le colline che dicevi di fare erano solo bugie?»

«Tu sei andata ad un colloquio. Non ho anch’io il diritto di cercare un lavoro?», ribatté, come se fosse un fatto ovvio.

«Non sto dicendo questo. Semplicemente non capisco perché non mi hai detto nulla».

«Perché sapevo che ti saresti preoccupata e non ti saresti concentrata sul tuo nuovo lavoro. Volevo dirtelo, ma quando mi hai chiamato per dirmi che ti avevano assunta ho deciso di non farlo. Questo è il lavoro dei tuoi sogni, non volevo rovinarti la tua prima settimana di lavoro».

Strinsi le braccia intorno al busto. «Beh, l’hai appena fatto. Avevi almeno intenzione di dirmi che ti stai trasferendo oppure avresti aspettato che tornassi io a Los Angeles di persona a cercarti per dirmelo?»

«Te ne avrei parlato prima di trasferirmi», rispose semplicemente, con una calma che mi irritava.

Mi morsi le labbra, sentendo che la rabbia stava lentamente cedendo il passo alla disperazione. «E non credi che avresti dovuto parlarmene prima di prendere questa decisione? Insomma noi…», mi interruppi. Non avevamo discusso prima della mia partenza di quale fosse la nostra relazione. Potevamo considerarci una coppia a tutti gli effetti? «… con quello che è successo credo che avessi il diritto di saperlo».

Edward distolse lo sguardo. «Noi non siamo una coppia, Bella, quindi non ero obbligato a riferirti tutto quello che stavo pensando di fare», disse seccamente.

Sentii chiaramente il mio cuore perdere un battito, e mi immobilizzai, senza riuscire a respirare.

Lui sospirò. «Sono state delle settimane fantastiche, non lo metto in dubbio. Ma quello che c’è stato fra di noi non era reale, Bella. Ci siamo fatti trascinare dalla situazione ed i ricordi, tutto qui. Niente di quello che provavamo era il presente».

Non dissi niente. Non reagii nemmeno. Probabilmente era così che ci si sentiva quando si era sotto shock.

«In fondo è stato un bene che te ne sia andata da Los Angeles», continuò, incurante. «Ho finalmente capito che non è cambiato niente da un anno fa. Tu hai scelto il lavoro piuttosto che la nostra relazione, proprio come avevo fatto io. Questa volta però i ruoli si sono invertiti».

La realtà mi crollò addosso come un macigno. Presi un respiro spezzato, realizzando che fino a quel momento avevo trattenuto il fiato. Gli occhi si inumidirono.

«È meglio così per entrambi. Abbiamo capito che non siamo destinati a stare insieme. Il lavoro è troppo importante per entrambi, e non riusciremo mai a convivere in questo modo».

Mi voltai verso la porta, incapace di ascoltare oltre. Perché non me ne ero andata subito? Perché ero rimasta ad ascoltare quelle crudeltà?

Mi fermai sull’uscio della porta, sentendo le parole sulla punta della lingua.

«Per me non era il passato», dissi, con la voce malferma e le lacrime che ormai imperlavano le ciglia. «Questo è reale. Io…»

 

«Signorina?»

Tenni gli occhi serrati con forza, sentendo le lacrime scivolare lungo le guance. Mi sembrava di vedere ancora il volto impassibile di Edward anche attraverso le palpebre chiuse.

«Signorina, si sente bene?»

Aprii gli occhi lentamente, in attesa di vedere Edward fermo davanti a me, ma al suo posto trovai una donna alta e bionda. La guardai stralunata, chiedendomi cosa ci facesse a casa di Edward. Poi il mio sguardo scivolò sulla sua figura, avvolta da una divisa blu con una targhetta che riportava quello che presumevo fosse il suo nome; lo stemma di una compagnia aerea era ricamato sopra il taschino della giacca. Un’hostess.

Guardai alle sue spalle, e i miei occhi si puntarono sulla pista di decollo di un aeroporto, oltre la vetrata a parete. E lo scenario non era di sicuro quello del Chicago O’Hare International Airport, ma quello del LAX.

Guardai nuovamente la donna davanti a me, che mi osservava preoccupata. «Si sente bene?», ripeté, e solo allora notai la sua mano posata sulla mia spalla.

Scossi i capo in maniera affermativa. «Mi scusi. Credo di aver avuto un incubo», disse solamente, sentendomi ridicola. Asciugai velocemente le lacrime.

Lei sorrise. «Non si preoccupi. Sono venuta a svegliarla perché stiamo imbarcando per Chicago. È il suo volo, giusto?»

Mi drizzai a sedere. Allora non ero mai partita. Non ero mai stata a Chicago, Edward non mi aveva mai lasciata con parole così fredde e crudeli.

«Sì», risposi, senza fiato. «Mi può dare solo un minuto?»

Lei annuì, dirigendosi verso la fila di persone all’imbarco. Erano le ultime, probabilmente, e dovevo ringraziare quella donna per avermi vista nonostante tutta la gente. Sistemai la borsa sulla spalla, tirando fuori il biglietto aereo.

“Ho finalmente capito che non è cambiato niente da un anno fa. Tu hai scelto il lavoro piuttosto che la nostra relazione, proprio come avevo fatto io. Questa volta però i ruoli si sono invertiti.”

Rabbrividii nonostante il caldo soffocante. Sapevo che quelle parole erano solo frutto della mia mente preoccupata, ma non riuscivo a cancellarle dalla memoria. In cuor mio sapevo che stavo facendo un errore madornale ad andarmene, allora perché mi ero ostinata a fingere che fosse la cosa giusta da fare? Non mi importava di avere il lavoro che avevo sempre sognato se non potevo condividere quel successo con Edward, non mi interessava avere i soldi e una carriera invidiabile se quando tornavo a casa la sera trovavo solo un appartamento vuoto. Se avessi lasciato Edward a Los Angeles forse le cose non sarebbero andate come nel mio incubo, ma di sicuro mi sarei rimproverata per il resto dei miei giorni di non aver seguito il mio cuore ed essere rimasta con lui. Stavamo ricostruendo una storia, e non volevo né potevo commettere gli stessi errori del passato. Sapevo cosa voleva dire sentirsi lasciati in disparte a causa del lavoro, e non volevo che Edward provasse la stessa sensazione.

Avrei avuto altre occasioni di lavoro una volta tornata a casa. Non importanti né paragonabili a quelle del Chicago Tribune, probabilmente, ma sapevo che se ci fosse stato Edward al mio fianco avrei affrontato ciò che mi attendeva con maggiore serenità e gioia.

Mi alzai in piedi con nuova forza. Mi diressi verso il banco dell’imbarco, dove c’erano più sole poche persone. Una volta giunta davanti alla donna che mi aveva svegliata - per fortuna, perché non credo avrei resistito alto tempo in quell’incubo - mi schiarii la voce. Lei sorrise gentilmente.

«Non voglio imbarcarmi», dissi. «Mi può dire dove devo andare per uscire dall’aeroporto?»

La hostess parve sorpresa. Annuì leggermente. «Se aspetta un paio di minuti finiamo l’imbarco e la posso accompagnare. Mi può dare la sua carta d’imbarco? Devo annullare la sua prenotazione».

Mentre ticchettava le dita sul computer davanti a lei, cancellando il mio nome dalla lista dei passeggeri, mi informò che il biglietto purtroppo non era rimborsabile - in quanto avevo dato la disdetta solo al momento dell’imbarco, mentre per ottenere un rimborso per lo meno parziale avrei dovuto disdire almeno tre ore prima. Accettai comunque, senza sentire alcun dispiacere nei confronti di quei soldi buttati al vento.

Aspettai trepidante accanto al bancone fino a quando non chiusero le porte del gate, e l’hostess si avvicinò a me con un sorriso, chiedendomi di seguirla. Mi fece percorrere a ritroso la strada che avevo fatto per raggiungere il luogo dell’imbarco, conducendomi oltre alla dogana attraverso delle porte che solo il personale dell’aeroporto poteva superare grazie ad un apposito badge. Mi lasciò davanti all’ingresso delle partenze, e la salutai ringraziandola.

A quel punto mi guardai intorno, chiedendomi se avrei trovato ancora Edward fermo lì ad aspettarmi, ma subito capii che era impossibile. Il mio volo sarebbe dovuto partire ben tre ore prima, quindi lui era sicuramente già lontano, probabilmente lungo la costa. Avessi saputo dove cercarlo mi sarei fatta portare da un taxi da lui per fargli una sorpresa, ma non sapevo dove sarebbe potuto andare una volta rimasto solo. Mi morsi il labbro, scegliendo di andare comunque verso Santa Monica. Di sicuro Edward era in quei dintorni, e anche se morivo dalla voglia di vederlo non volevo restare ancora in quel maledetto aeroporto.

Uscii dalle porte scorrevoli, ed entrai nel primo taxi che si fermò per far scendere altra gente alle partenze. Quando il tassista mi chiese “dove di preciso a Santa Monica?”, riuscii a cavarmela con l’indirizzo dell’incrocio presso cui la Route 66 terminava, ovvero fra la Lincoln Boulevard e la Olympic Boulevard - ascoltare Edward per tutti quegli anni parlare del suo sogno di giungere alla fine della strada ne era valsa la pena-

Mentre il taxi si infilava nel traffico accesi il cellulare, che avevo spento appena giunta accanto al gate per evitare di dimenticarmene una volta salita sull’aereo, e trovai un messaggio di Rose, che mi chiedeva di farle uno squillo una volta atterrata così lei ed Alice avrebbero saputo quando iniziare a cercarmi nella sala d’arrivo dell’aeroporto. Avevo dimenticato perfino di informarla del ritardo del volo, quindi decisi di chiamarla, prima che iniziasse a prepararsi per raggiungere l’aeroporto, dove non avrebbe trovato nessuno.

«Quindi sei rimasta lì?», mi chiese dopo il mio breve riassunto - evitando la parte riguardante l’incubo -, come se non avesse capito bene.

«Sì», risposi. «Ci saranno altre occasioni di lavoro. Non serve preoccuparsi», aggiunsi, sperando che non lo facesse.

«Lo spero. Hai già chiamato Edward per farti venire a prendere?»

«No… sto andando a Santa Monica. Gli chiederò di trovarci lì. Non mi sembra il caso di farlo tornare indietro fino all’aeroporto. Di sicuro sarà già in spiaggia».

«Se lo dici te. Mi raccomando non girovagare per la città da sola. Senza cartina ti perderai in un battibaleno, e la zona della spiaggia non è esattamente la più sicura», mi ammonì.

«Rose, sto andando a Santa Monica, non in chissà quale sobborgo di Chicago all’una di notte», risi leggermente. Mi faceva piacere che Rosalie si preoccupasse per me, ma spesso aveva la tendenza ad esagerare.

«E non accettare le loro erbe come medicinali se ti fai male. Lo sai che lì ci sono i pronto soccorso che usano la marijuana, vero? Vai piuttosto fino in ospedale, ma non accettare niente da loro», continuò, come se non avessi neanche parlato.

«D’accordo, Rosalie», accondiscesi. Come se potessi mai accettare della droga come medicinale. «E comunque non è detto che mi debba per forza fare male. Mi stai forse portando sfortuna?»

«No, tesoro. Semplicemente ti conosco e so che non riesci a restare almeno una settimana senza farti male», disse semplicemente. «Adesso ti lascio. Ci penso io a informare Alice, tu vedi di trovare Edward. Chiamami quando l’hai trovato, altrimenti mi fai stare in pensiero».

«Va bene», risposi. «Grazie, Rose. A più tardi».

Chiusi la chiamata, e riposi il cellulare nuovamente nella borsa. Lasciai vagare lo sguardo fuori dal finestrino, lungo le strade assolate e afose di Los Angeles. Mi aspettavo di vedere l’oceano da un momento all’altro, e rimasi delusa quando il taxi si fermò ad un incrocio in pieno centro città. Al lato della strada scorsi il cartello bianco che segnalava la fine della Route 66, ma di Edward non c’era traccia. Pagai comunque il tassista, scendendo a quell’incrocio. Memorizzai il cartello, sperando che Edward avesse scattato la fotografia, e poi chiesi indicazioni ad alcuni passanti per raggiungere la spiaggia.

Dopo un quarto d’ora di ricerca, passata a chiedere informazioni continuamente - perché non riuscivo ad avere nessun punto di riferimento che mi consentisse di trovare la strada da sola in mezzo a quel reticolato di vie e viali - riuscii a giungere davanti ad un assolato parco oltre il quale si vedeva l’oceano. Proseguii verso il Santa Monica Pier, da cui vedevo spiccare una ruota panoramica che da quel punto sembrava ergersi sopra all’oceano.

Percorsi il ponte in pietra che si allungava sopra l’acqua, giungendo accanto al lunapark. A quel punto decisi di telefonare ad Edward. Gli avrei chiesto di raggiungermi in quel posto, così da essere sicura che ci saremmo trovati nonostante il caos di persone intorno. Se eravamo fortunati anche lui era nei paraggi, quindi mi avrebbe raggiunto in fretta.

Avviai la chiamata, e quando finalmente sentii la sua voce trattenni il fiato. «Edward?»

«Bella?», chiese, perplesso, dato che a quell’ora avrei ancora dovuto essere in volo. «È tutto a posto? Sei già arrivata a Chicago?»

«No. Io… dove ti trovi adesso?», gli domandai, inceppando nelle mie stesse parole.

«A Los Angeles», rispose, come se fosse un fatto ovvio.

«Okay, ma dove di preciso?», insistetti.

«Sulla spiaggia di Santa Monica. Mi stai forse cercando con qualche programma di visione satellitare?», aggiunse, ridendo.

«Vai subito sul molo, davanti al lunapark», dissi tutto d’un fiato, sporgendomi dalla balaustra e osservando la spiaggia poco distante. Lui era lì, da qualche parte. Non era lontano.

«Perché? Dove ti trovi?»

Mi morsi le labbra. Aveva sicuramente capito che mi trovavo lì, soprattutto perché in sottofondo poteva sentire i versi dei gabbiani in cielo, il chiacchiericcio della gente e le urla e la musica provenienti dal lunapark. Ma non volevo che avesse la certezza fino alla fine. «Tu vai e basta».

Rimasi in ascolto, mentre parlava chiedendomi cosa avessi in mente, e mi sembrava quasi di sentire il suo fiato farsi più pesante, come se stesse correndo o camminando molto velocemente.

«Non dirmi che Emmett è venuto a trovarmi fino a Los Angeles per vendicarsi del danno alla sua jeep», scherzò dopo un paio di minuti. Ormai doveva essere quasi arrivato.

Feci alcuni passi verso l’inizio del molo, cercandolo in mezzo alle gente.

Quando lo vidi sorrisi. Vedendolo vestito nello stesso modo in cui ci eravamo lasciati ricordai che erano passate solo poche ore da quando ci eravamo separati, eppure mi sentivo emozionata come se fossero passate settimane.

«Ti sembro Emmett?», gli chiesi, sentendo la mia stessa voce tremare.

Lo vidi guardarsi intorno, e quando i suoi occhi incrociarono i miei chiusi la telefonata, gettando il telefono nella borsa. Gli corsi incontro, e quando finalmente le sue braccia furono intorno alla mia vita e i miei piedi staccati da terra capii che avevo fatto la scelta giusta.

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Il Diario di Bella - blog dove potete vedere immagini dei luoghi visitati nel corso della storia.

'Giorno! :D

AVVISO: risponderò alle recensioni e aggiornerò il diario di Bella in serata.

Ancora una volta sono stata costretta a saltare l'aggiornamento per una settimana, come avete visto. Purtroppo con l'ultimo esame dell'anno alle porte non ho potuto fare altrimenti. Fortunatamente giovedì è l'ultimissimo quindi fino alla fine della fanfic non dovrei avere ritardi di questo genere :D

Spero che nessuno si fosse allarmato troppo durante l'incubo di Bella, e che la sua scelta sia stata quella che volevate. Il problema del lavoro verrà affrontato nel prossimo capitolo.

Grazie a tutti coloro che continuano a seguire la storia nonostante i ritardi!

A presto! :***

   
 
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