Crossover
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Autore: Jade MacGrath    19/01/2007    1 recensioni
Quando era ricoverato per l'aneurisma alla gamba, e stava lottando durante la crisi cardiaca, House vide una donna che non c'era. Cinque anni più tardi, la stessa donna gli riappare davanti. Il suo nome è Six, solo House la può vedere, e sconvolgerà la vita del dottore da cima a fondo... crossover House/Battlestar Galactica
Genere: Generale, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Telefilm
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ok, tecnicamente la storia è finita un capitolo fa, ma mentre lo stavo scrivendo ho pensato sarebbe stato divertente aggiungere un epilogo che spiegava perché House avesse sognato Numero Sei e tutta la brigata di BSG.

Per essendo una cotton moderata, Cam non avrà trippa per gatti né da me né da House sto giro. D’altro canto, non credo si lamenterà, visto con chi andrà a finire.

 

Cameron sospirò per l’ennesima volta quella sera. Come, come, in nome del cielo, aveva fatto a essere tanto stupida?

Foreman gliel’avrebbe pagata, questo era certo. Non solo l’aveva incastrata col turno di notte, ma l’aveva incastrata proprio quella sera, che si era sempre tenuta libera per il suo seminario di turno quando non era impegnata con un caso. Era stata brava, fino a quel momento. Letteratura russa, cinema degli anni venti, arte africana… avvenimenti culturali abbastanza interessanti ma non da suscitare più di un sospiro annoiato quando ne parlava, ovviamente dando dettagli a profusione, come se tali incontri e mostre esistessero davvero in qualche posto diverso dalla sua testa.

A quanto pareva però questa sventola con cui doveva uscire doveva essere davvero una sventola da antologia, perché Foreman aveva passato al setaccio tutti i siti e le riviste dei circoli culturali di Trenton e dintorni (leggasi: dello stato del New Jersey) alla ricerca della manifestazione di turno (cultura giapponese). Quando le si era presentato davanti con quel sorrisetto, era stata ad un niente dal colpirlo con un gancio destro perfezionato durante gli allenamenti di kickboxing al college. Ma Cameron era Cameron, e facendo buon viso a cattivo gioco disse che sì, aveva mentito perché così avrebbero smesso di chiederle che faceva il venerdì sera, e lei avrebbe potuto evitare di dire che si ubriacava e finiva a letto col suo vicino di casa altrettanto disperato.

Foreman aveva preso quell’aria che aveva quando compativa qualcuno (lei in particolare) sentendosi infinitamente superiore, e dopo averla salutata se n’era andato. Cameron, una volta sola. si chiese se se la fosse bevuta, e se, quando la voce si fosse sparsa, le infermiere avrebbero smesso di fare scommesse sulla sua vita sessuale (o sulla sua mancanza). Un conto era sapere di essere sola, e abbastanza disperata da farsi Chase (ma a sua discolpa poteva dire che era talmente fatta quella sera che avrebbe potuto essere il fattorino della pizza e non avrebbe fatto differenza. Tanto aveva visto per tutto il tempo un'altra persona al suo posto, con capelli scuri e occhi blu …) un conto era sentirselo bisbigliare alle spalle, e sapere che era perfido e indubbiamente vero.

Infatti, ogni weekend cercava di smentire questa voce. Ogni venerdì sera si riprometteva di fregarsene e uscire a divertirsi, a bere qualcosa, volesse il cielo anche rimorchiare qualcuno che dopo il primo appuntamento poi non l’avrebbe più chiamata e contro cui avrebbe potuto inveire in ospedale, giusto per far migliorare la sua reputazione. Poi commetteva sempre l’errore di accendere la televisione, ascoltava rapita la sigla del suo programma preferito e si buttava sul divano con una ciotola di popcorn appena fatti al microonde e un paio di birre gelate, attenta a non perdersi neanche un dettaglio e ringraziando ancora una volta quel paziente che durante un altro turno di notte l’aveva introdotta a quel telefilm.

E chiunque avesse deciso di dare la parte di Lee ‘Apollo’ Adama a Jamie Bamber.

Il mistero era svelato: la dottoressa Allison Cameron non andava a noiose manifestazioni culturali, non aveva una relazione sessuale sadomaso col suo vicino di casa (che nella vita reale aveva un pacemaker e ottant’anni), o qualche altra sorta di doppia vita.

Era semplicemente e totalmente andata per la nuova versione di Battlestar Galactica.

E quella sera, praticamente (e incredibilmente) per la prima volta da quando guardava Galactica, se la sarebbe persa!

Certo, c’era la televisione in studio di House, e lui era ancora in coma farmacologico… ma che avrebbe fatto se l’avessero beccata? La sua dipendenza sfiorava quella di House per General Hospital, ed era altrettanto isterica quando veniva costretta a distogliere l’attenzione dal programma. Già la prendevano in giro per il suo carattere e altri motivi, non voleva dare altre munizioni ai pettegoli, che in ultimo sarebbero arrivate ad House una volta redivivo, e che le avrebbe usate da quel momento in poi  in eterno e senza pietà.

No, grazie.

Ma rimaneva il fatto che l’ora si stava avvicinando, e come al solito iniziava a sentirsi sempre di più una tossica alla ricerca di una dose. Dove diavolo poteva trovare un posto tranquillo dove non l’avrebbero disturbata?

Fissò sconsolata la scrivania di House, e fu allora che le si accese la metaforica lampadina.

Cinque minuti più tardi era davanti alla televisione con un bicchiere, un paio di lattine di coca cola e qualche pacchetto di patatine preso alle macchinette.

Nella stanza di House.

Si ricordò vagamente una sua tirata indignata sul fatto che lui andasse spesso a vedere la tv nelle stanze dei pazienti comatosi. Ringraziò ancora una volta il cielo che non potesse servirsene contro di lei, e si mise comoda (ovvero coi piedi scalzi sul letto di House) di fronte al suo show preferito.

 

Quando attaccò il giorno dopo, era dolorosamente certa che Foreman l’avesse già sputtanata con chiunque gli fosse capitato a tiro. Viste le facce delle infermiere, la risposta era sì. Almeno adesso avrebbero smesso di darle della monaca di clausura…

Poi avrebbero senza dubbio realizzato la balla, e tutto sarebbe tornato punto e a capo.

Entrata nella saletta, ci trovò, oltre a Foreman, Chase, Wilson e anche Cuddy. Guardò per un istante il pavimento, domandandosi se e come poteva sprofondarci dentro, poi decise di fare come se non fosse successo niente e non sapesse perché la stessero guardando a quel modo (e perché Chase avesse l’aria offesa, pensò la bruna dottoressa).

Un momento… l’unico a non fissarla strana era Wilson. Possibile che i pettegoli del Priceton-Plainsboro non gli avessero raccontato dei suoi dissoluti fine settimana? 

Cuddy interruppe le sue riflessioni dando come ogni giorno il bollettino medico su House e spedendo chi di dovere in clinica. Caso volle, proprio Cameron e Wilson… il quale, una volta in ascensore, scoppiò a ridere e le chiese la vera ragione per aver montato una balla così assurda.

“Perché, non potrebbe essere vero?”

“In quale universo parallelo?”

“Cioè, io sarei incapace di…?”

“Totalmente. E appena ci rifletteranno un po’ meglio, lo capiranno anche gli altri.”

“Sembravo incapace anche di prendere anfetamine.”

“E s’è visto com’è andata a finire.”

“Non sono così innocente!” protestò Cameron. Oh, ma chi voglio prendere in giro, pensò poi, e fatto un sospiro decise di confessare e farsi seppellire dalle risate. Meglio Wilson di Foreman e Chase, comunque.

“E va bene, lo sono. Contento? Non vado a eventi culturali né mi faccio il mio vicino di casa.”

“Entrambe cose buone e giuste da non fare, a meno che i vicini di casa non siano Brad Pitt e Angelina Jolie.”

“Non ho finito, la cosa patetica arriva adesso… Ogni venerdì sera attacco un cartello sulla porta di casa che intima di girare al largo da casa mia per almeno un’ora. E se non sono reperibile, stacco anche il telefono. Semplicemente, ucciderei chiunque mi venisse a rompere le scatole, intenzionalmente o no…”

Wilson non parlò. La cosa era ai limiti dell’incredibile, perché da quando viveva da solo il venerdì sera faceva esattamente la stessa cosa. E quante probabilità potevano esserci che anche lei…?

 “ …poi mi butto sul divano con una birra e qualche snack…”

“E mi godo in santa pace Battlestar Galactica” dissero entrambi i dottori all’unisono.

Quando le porte dell’ascensore si aprirono, tutti poterono vedere Cameron e Wilson fissarsi in faccia sbalorditi e a bocca aperta. Subito Wilson premette un bottone e le porte si richiusero.

“Scusa, ho capito bene?”

“Ti stavo per fare la stessa domanda!”

“Tu guardi Galactica?!” domandò Cameron, tra il divertito e l’incredulo.

“Sono più sorpreso io! Come te la sei cavata con la puntata sull’aborto?

“E quando Roslin ha nascosto Hera da sua madre e le fatto dire che era morta?”

“Quando Sharon e Helo scopriranno della bambina, dovrà seriamente raccomandarsi ai suoi dei! Che ne pensi di lei come ‘messia’?”

“Quando parte per la tangente messianica non mi piace granché, ma non si può pretendere… con tutta la chamalla che si è ciucciata per curare il cancro…”

 “D’accordo che non sono contrario ai rimedi naturali, ma speriamo che lei lasci perdere.”

“Vedremo… e vedremo anche dove andranno a parare Sharon e Numero Sei con questa storia di voler vivere in pace con gli umani.”

“Bel colpo in testa ha mollato la bionda a D’Anna, però.”

“Concordo.”

Wilson sogghignò “E ora mi dirai che non sbavi dietro all’ammiraglio Adama.”

“Ma smettila!”

“Visti i precedenti…”

“Di che precedenti stai…? Oh no. Oh no!”

“Niente di niente? Cameron, sono stupito!”

“Lee è molto meglio del Vecchio, se permetti.”

“Allora immagino ti sarai gustata quella certa scenetta con Apollo e il suo asciugamano in Final Cut…”

“Ho gli occhi anch’io” disse Cameron con tutta la dignità di cui fu capace. Decisamente non gli sarebbe andata a dire che il desktop nel suo computer passava da Stonehenge a Lee Adama seminudo appena arrivata nella sua macchina nel parcheggio dell’ospedale, e per evitare altre discussioni sbloccò le porte dell’ascensore e uscì, diretta alla sala visite uno.

“Non abbiamo ancora finito il consulto, dottoressa Cameron!”

“Se per l’ora di pranzo sarà ancora dello stesso avviso, provi a vedere alla mensa, dottor Wilson. Non le negherò le mie opinioni” aggiunse poi sorridendo, felice di aver trovato un altro fanatico suo pari. Wilson annuì ricambiando il gesto, e andò nella sala visite due.

 

Il consulto riprese all’ora di pranzo, e continuò fino a fine turno. Decisero che il finale della stagione doveva essere espressamente visto insieme, preceduto dal riassuntone di quaranta minuti della serie perché repetita juvant.

Riguardo al posto… lì c’erano problemi. A Cameron era piombata in casa sua madre, a cui piaceva pensare che la sua figliola amasse ancora follemente Titanic e Pretty Woman. Wilson era in pieno divorzio e non poteva farsi vedere mentre invitava in casa una ragazza giovane e carina, con la fama di donnaiolo che si ritrovava e che l'ex moglie assieme all'avvocato aveva ingrandito a livelli incredibili.

Così, dopo aver raccontato balle su uno straordinario da fare, Cameron portò Wilson nell’unico posto dove nessuno li avrebbe disturbati.

La camera di House.

Dopo due ore e mezza, in cui avevano discusso dello show ma anche di pettegolezzi che giravano nell’ospedale (tipo la bionda fisioterapista di nome Godfrey che Cuddy aveva tirato fuori dal cilindro qualche giorno prima) uscirono dalla stanza felici, al solito sconvolti dal cliffhanger finale, e molto ottimisti per la serie ancora da venire dopo aver visto il trailer in coda all’episodio.

Si salutarono, diretti alle rispettive case, e nessuno ci pensò più.

Almeno fino al momento in cui sentirono House, rivolgendosi a loro, usare l’intercalare ‘Per gli Dei di Kobol.’

 Sapendo a priori che House non guardava quella roba, c’era solo un’altra spiegazione possibile che giustificava anche alcuni dei comportamenti di House appena dopo il risveglio, e non ci voleva una laurea per sapere che se House avesse scoperto che quei sogni allucinanti che aveva fatto in coma erano più o meno colpa loro, gliel’avrebbe fatta pagare da lì all’eternità.

Pertanto decisero di prenderla maturamente… e di non farsi mai beccare da soli con House, con ogni mezzo possibile.

 

House stava per morire d’inedia.

Ma dov’era finito Wilson? Avrebbe dovuto finire in clinica da circa un’ora, e lui a quel punto avrebbe di norma già avuto modo di bloccarlo, impedirgli la fuga… e scroccargli il pranzo. E poi quel giorno c’era la lasagna, che andava via come il pane se non si era abbastanza svelti. Combattuto tra il desiderio di appagare la sua curiosità aspettando l’amico e quello di appagare il suo stomaco non aspettando l’amico, capitolò in favore di quest’ultimo e andò in mensa… salvo ricordare sulla soglia del suo ufficio che non aveva soldi con sé, vista la sua abilità nel farsi più o meno volontariamente offrire i pasti.

Tempo due secondi, era di nuovo in viaggio verso la mensa. Nel pugno della mano destra stringeva una banconota da venti dollari fregata dal portafoglio di Chase, con cui avrebbe insegnato all’ingenuo dottorino ad essere più cauto con i soldi…

“Ma guarda un po’ chi c’è qui.”

House alzò gli occhi al cielo. “D’accordo, Dio, chiedo scusa, non mi spaccerò mai più per te. Ma ora la fai sparire?”

Shelley sogghignò, appena uscita dall’ufficio di Cuddy “Dubito ti ascolti. Sono un castigo che ti è stato mandato da Cuddy, non dal padreterno.”

“Avevamo un appuntamento?”

“Non oggi. Domani mattina, alle otto…”

“Ma è l’alba!”

“…e vedi di esserci! O potrebbe toccare alla tua playstation.”

“Maledetta sequestratrice. Voglio la prova che il mio I-Pod è ancora in vita!”

“Ti invierò gli auricolari e una foto col quotidiano uno di questi giorni. Intanto io e la tua playlist ci stiamo divertendo così tanto insieme …”

“Bene, ho afferrato. Sei una sadica torturatrice anche di oggetti inanimati. Ora se non ti dispiace sloggiare…”

Ma Shelley sogghignò di nuovo vedendo la banconota nel pugno di House, che il dottore tentò troppo tardi di nascondere alla ragazza.

“Venti dollari sono un po’ tanti per mangiare da solo. Va bene, visto che insisti, offrimi il pranzo. Se non sbaglio oggi c’è la lasagna, io l’adoro!”

House le lanciò un’occhiata dall’alto in basso molto dubbiosa “Adori anche vomitarla, dopo?”

“Due parole: metabolismo iperrapido. E ora muoviti, su, che sennò finisce!”

 

A furia di spintoni, Shelley portò House in mensa. Poi House vide una cosa totalmente assurda, e chiese a Shelley se anche lei stava vedendo lo stesso.

“Ovvero che Cameron e Wilson stanno mangiando allo stesso tavolo? Sì. E con me tre quarti dell’ospedale. Allora?”

“È uno dei segni dell’apocalisse!”

Shelley lo guardò inarcando un sopracciglio, e House le spiegò (mentre facevano la fila per la lasagna) come il fatto che Wilson avesse mancato di farsi rapinare per l’ennesima volta da lui, e avesse scelto di offrire il pranzo a Cameron, fosse il segnale imminente della fine del mondo civilizzato e della società occidentale.

“Beh, c’è una soluzione” disse Shelley, avvicinandosi alla cassa. “ E te l’ho già detta. Offrimi il pranzo e l’equilibrio cosmico si riassesterà.”

Prima che House potesse dire una parola in protesta, Shelley disse alla cassiera che erano insieme e che avrebbe pagato lui, e si allontanò verso un tavolo deserto. House mugugnando pagò il conto, e andò al tavolo di Shelley, da cui, notò, si godeva una bella vista del tavolo di Cameron e Wilson, e a tratti anche brandelli della conversazione.

 

Tra un boccone e l’altro, Cameron e Wilson passarono al microscopio le prime due puntate della nuova stagione, che erano iniziate con l’occupazione cylon dell’appena costituita colonia umana in un remoto pianeta.

“Sai, non riesco ancora a crederci. Finalmente qualcuno con cui parlarne! Nessuno tra i miei amici segue lo show…”

“Neanche i miei lo guardano. Appena sentono fantascienza storcono il naso.”

“Beh, ci perdono loro.”

“Esatto. È probabilmente lo show più innovativo che… ”

“Scommetto che lo guardi per Tricia Helfer” buttò lì Cameron, lanciandogli un’occhiata cospiratoria.

“Sei incredibile. Quindi secondo te io non posso appassionarmi ad una serie per i suoi contenuti?”

“No, dico solo che quel paio di gambe dev’essere stato un bell’incentivo.”

Wilson tenne la faccia imbronciata per ancora qualche secondo, poi annuì “Sicuramente guardarla in quel vestito rosso non mi dispiace. Almeno quanto non dispiace a te guardare Apollo o Anders!”

Cameron scosse la testa ridendo e gli lanciò dietro una patatina. Wilson se la mangiò, poi notò quel che Cameron aveva nel piatto. Niente solita insalata, ma un hamburger che l’avrebbe candidata a un bypass, contornato da altre patatine fritte che nuotavano nell’unto.

“Lo sai che darai alito alle voci di bulimia che già girano, se mangi quella roba?”

“Lo sai che non me ne frega niente?” disse Cameron, aggiungendo poi che un paio di volte pure House aveva fatto qualche allusione.

“Ecco il motivo. House. Fame nervosa?”

“Tu dovevi fare lo psichiatra. Sì. Ogni tanto mi prende. Allora? Neanche mi ricordo l’ultima volta che ho mangiato qualcosa di diverso da un insalata.”

“Perché voi donne vi affamiate per poi abbuffarvi non lo capirò mai.”

“Com’è che siamo finiti a parlare di questo?”

“Perché non sai accettare la verità sulla tua infatuazione da adolescente.”

“Ma senti chi parla! Ah, a proposito di infatuazioni, sappi che House crede tu ti faccia la nuova assistente della Cuddy.”

“Grazie dell’avviso. Non è vero, ovviamente.”

“Ovviamente.”

“A proposito di infatuazioni…” disse Wilson con un sorrisetto, e fece cenno a Cameron di avvicinarsi. Poco dopo, stava sogghignando anche lei.

E questo fece ammattire House, che non riusciva a sentire più niente.

“Ma porca miseria!”

“Direi… Cameron ha proprio in odio il suo fegato oggi.”

“Non stavo parlando di quello! Non si sente più niente!”

“Allora… hanno parlato di qualcosa di incredibile, con un gran paio di gambe, di Apollo… qualche idea sul filo del discorso?”

“Mi interessa sapere quel che dicono adesso, non quel che dicevano mezz’ora fa!”

“Parlano di noi” disse Shelley ingoiando un boccone di lasagna.

House fece la sua miglior espressione sorpresa.

“Sei telepatica?”

“Leggo le labbra, idiota” disse la dottoressa appena ebbe la bocca libera.

“E che dicono?”

“Niente di sconvolgente” disse ritornando a dedicarsi al suo piatto.

“Ovvero?”

“Il solito… che ci fa una sventola come la sottoscritta al tuo stesso tavolo, se progetto di ucciderti nel sonno, se tu progetti di strangolarmi durante una sessione di terapia…”

“E riguardo il discorso di prima? Non fingere, sai che si sono detti!”

In quel momento, Shelley ingoiò l’ultimo boccone.

“Oh, ho finito il pranzo. E ho una sessione tra mezzora, devo andare” disse alzandosi da tavola col vassoio in mano.

“Non t’azzardare!”

Shelley salutò, e se la filò via di corsa. Dire quel che si erano detti ad House voleva dire dare al dottore una bella schiera di munizioni contro quei due, e fino a prova contraria Cameron e Wilson le stavano simpatici. Chissà che non si mettessero insieme… lei e Gabriel dopotutto avevano iniziato la loro sfortunatissima storia d’amore proprio con una discussione su ER. E considerato com’era andata a finire, al destino non era certo mancata l’ironia.

“Dottoressa Godfrey!”

Shelley guardò in direzione della voce, e vide venire verso di lei il suo paziente. Di norma seguiva le terapie a casa sua, anche se non aveva mai capito il motivo specifico. Qualcosa che aveva a che fare con sua moglie, o così lui gli aveva detto. La suddetta moglie li stava guardando in quel momento da una piccola distanza, e la faccia che le stava rivolgendo la fece quasi ridere.

Chi l’avrebbe detto che Lady Botox, altrimenti detta Stacy Warner, fosse realmente in grado di far prendere al suo viso un’espressione tanto scocciata?

Mark, una volta vicino, smise di usare le stampelle e le fece vedere che riusciva a muovere passi senza nessun aiuto e con stabilità.

“Allora?”

“Congratulazioni, Mark!” fece Shelley, abbracciando il suo prossimo ex paziente. “Devo ammetterlo, ti avrei preso a calci nel sedere fino in Canada e ritorno quando ti sei alzato dalla sedia a rotelle, ma ora tutto è posto. Sono davvero una grande.”

“Tu? Io ho fatto tutto il lavoro!”

“E chi ti ha detto che fare, eh? E poi sono il tuo medico, evita di contraddirmi o ti becchi la fisioterapia per un altro mese.”

“Per carità, un altro mese e mi distruggi!”

Shelley ridacchiò facendo la svenevole giusto un po’ più del necessario, ma adorava far venire i nervi a Stacy, che si era sentita minacciata dalla bionda dottoressa più o meno da quando le aveva stretto la mano durante le presentazioni e aveva visto quanto lei e Mark se la intendessero bene. Cuddy aveva fatto intendere che dietro il suo comportamento c’era dell’altro e che lei sapeva tutta la storia, ma non voleva dirle nemmeno una parola al riguardo. Aveva anche lasciato intendere che qualsiasi cosa fosse successa era colpa sua, pertanto Shelley si era sentita più che autorizzata a divertirsi un po’ alle spalle di Stacy.

Poi vide che Stacy non stava più fissando lei, ma qualcun altro, e che Mark si era improvvisamente zittito. Shelley si girò, e vide House uscire dalla mensa e tornarsene nel suo studio.

D’un tratto, le allusioni confuse di Cuddy iniziarono ad avere un minimo di senso.

Con un sorriso, Shelley prese sottobraccio Mark e lo condusse alla sua ultima sessione di fisioterapia.

Per la fine dell’ora, era riuscita a far cantare Mark sulla tresca di sua moglie con House durante la sua fisioterapia.

“Che bastardo!” disse Shelley mentre finiva di far fare l’ultima serie di esercizi a Mark.

“Perché credi mi sia alzato prima dalla sedia a rotelle?”

“Ti avrei preso a calci fino in Canada e ritorno anche se lo avessi saputo. Com’è che state ancora insieme?”

“Mi ha confessato tutto. E andremo a vivere dall’altro capo del paese appena la mia dottoressa mi darà il via libera, e ti prego, dammelo.”

“Te lo avrei dato anche prima se avessi usato quella parte del corpo che si chiama bocca per uno dei suoi scopi primari, ovvero parlare! Che pensi di fare?”

“Riguardo che?”

“Tua moglie ti tradisce e tu non pensi neanche ad una piccolissima vendetta?”

“Non sono il tipo.”

“Però un pensierino sul prendere House a pugni ce l’hai fatto.”

“Quel pensiero lo ha fatto chiunque sia sano di mente. Piano, non sono di gomma!”

“Smettila di frignare! Senti… la tua signora che pensa di me? La pura verità.”

“Dice che non si spiega che diavolo ci fa una come te a fare la fisioterapista, e che è sicura di averti già visto da qualche parte.”

Sicuro che mi ha già visto, pensò Shelley. Quella sera di cinque anni prima, in cui House per poco non era morto.

“Ti ha molto velatamente dato della sgualdrina” aggiunse ancora Mark. Shelley rise.

“Molto velatamente? Beh, pensavo peggio. Ma visto come ci ha trovati quella volta nel soggiorno di casa vostra…”

“Scusa, credevo sul serio di farcela.”

“E tra il divano e me hai svelto di cadere proprio su di me?”

“La sua faccia però era impagabile.”

Shelley lo guardò inclinando la testa e sorridendo maliziosa “Ma allora l’hai fatto apposta… non mi hai appena detto di non essere tipo da vendetta?”

“Quella non era una vendetta!”

“Sì, certo… “

“Lo sembrava?”

A quel punto Shelley avvicinò la bocca all’orecchio di Mark, e gli sussurrò la sua idea.

 

“Bene, Mark” disse Shelley accompagnando Mark dove sua moglie lo stava aspettando “Sei stato un paziente modello. Ne avessi di più come te!”

“Merito della mia fisioterapista” disse lui assicurandosi che Stacy fosse in vista ma ad una certa distanza. Dopo aver dato il via libera a Shelley, i due iniziarono il teatrino che avevano concordato qualche minuto prima, una tale citazione da ‘General Hospital’ che avrebbe reso orgoglioso House.

“Shelley… io ti amo!”

“Mark… non dobbiamo. Tua moglie…”

“Chi se ne frega di Stacy, mi importa solo di te! Tu mi hai ridato le mie gambe, mi hai salvato!”

“Che diavolo sta succedendo qui?”

Stacy, appena sentita la frase, non aveva perso tempo a precipitarsi da loro due.

Shelley e Mark, che stavano seriamente avendo problemi a non ridere, continuarono la pantomima, fingendo di essersi innamorati perdutamente durante la fisioterapia. House, di nascosto, stava osservando tutta la scena. E stava prendendo mentalmente nota di quanto Shelley, se adeguatamente motivata, potesse essere perfida.

Quando Mark fece fare a Shelley un casqué e finse di baciarla, Stacy lanciò uno strillo che per intensità e durata fu sentito da parecchi cani a miglia di distanza, e per poco non infranse tutti i vetri dell’ospedale.

Shelley a quel punto finì piegata in due dal ridere e Mark dovette appoggiarsi alla colonna dietro cui era nascosto House, reggendosi la pancia.

Stacy sembrava totalmente persa. Shelley la guardò e pensò che a furia di aggrottare la fronte Lady Botox sarebbe dovuta correre a farsi un paio di iniezioni appena fuori da lì.

“E con questo” disse Mark tra una risata e l’altra “il mio rapporto con General Hospital può dirsi concluso. Per sempre!”

“Ehi, non criticare la mia soap, chiaro? In certi casi è meglio di un antidepressivo! E mi pare che con te abbia servito allo scopo!”

“Sarà… Ad ogni modo, Shelley, grazie ancora di tutto, buona fortuna qui al Princeton-Plainsboro e fa attenzione ad House.”

“Gioia, House è un mio paziente.”

Mark fece un sorriso molto, molto soddisfatto, sicuramente immaginando la sua fisioterapia con la dottoressa Godfrey, e presa sottobraccio Stacy (che ancora non aveva capito niente, ma che lanciò uno sguardo velenosissimo verso Shelley) se ne andò, finalmente senza stampelle o altro a impedirgli di vivere la sua vita.

La dottoressa Godfrey fece un cenno di saluto con le dita, e si voltò per tornare nel suo reparto. Per poco non cozzò contro House, uscito nel suo nascondiglio.

“Con te non parlo” disse Shelley, riavutasi dalla sorpresa.

“Molto maturo. Quanti anni hai?”

“Un paio più di te di sicuro. Ma come hai potuto fare una cosa del genere a Mark?”

“Io e Stacy avevamo un passato.”

“Sbaglio o è quella che ti ha fatto operare contro il tuo parere? E che ti ha mollato durante la riabilitazione?”

“Cuddy non sa mai quando tenere la bocca chiusa.”

“No, la gola profonda è Wilson. Che diavolo ha quella faccia al botulino di tanto attraente, si può sapere? E poi… cristo, è un avvocato, per l’amor del cielo! Come si fa a trovare sexy un avvocato costituzionalista?”

“Come mai tanto interesse?”

“Sono stata la fisioterapista di Mark da quando per colpa tua ha avuto la brillante idea di alzarsi da quella sedia a rotelle prima del tempo. E in quella casa ci sono stata sicuramente più io che te e il tuo sorcio… pardon, Steve McQueen.”

“Caspita, quanto è ciarliero Mark! Cos’è sta storia di General Hospital?”

“È un tentativo non troppo furbo di cambiare discorso?”

“Sono curioso. Eddai… ti do la mia macchinina rossa e quella blu” disse con una vocetta infantile, nella sua migliore imitazione di un bambino petulante.

Shelley strinse gli occhi e scosse la testa, ma decise di rispondergli comunque.

“Cinque anni fa, e questo già lo sai, ho perso il mio fidanzato. Ho passato mesi a essere tutt’uno con il divano, la sua trapunta preferita e la mia scorta di fazzolettini di carta.”

“E cibo.”

“No, quello era opzionale. Dipendeva da quanto tempo era trascorso dall’ultimo amico che era passato a controllare se ero ancora viva. E guardavo solo soap. Tutto il santo giorno. Brasiliane, portoghesi, tedesche, messicane, francesi… qualsiasi, fosse su network, via cavo o satellite. Stupido come può sembrare, ma mi è servito per anestetizzare il cervello quel tanto che è bastato per farmi mettere il naso fuori di casa.”

“Dopo quanto?”

“Cinque mesi.”

“Quella non era anestesia, era lobotomia!”

“Sì, ma il mio lobo frontale è ancora dove deve essere, grazie tante. Com’è che uno tanto razionale non mi giudica una donnetta stupida per quanto ho appena ammesso di guardare?”

“Ohchetardidevoandare” disse House tutto d’un fiato, e fece dietrofront verso il suo reparto, lasciando Shelley a guardarlo con aria curiosa.

Per cinque secondi.

Sua meta successiva, decise, sarebbe stata l’ufficio di Cuddy.

 

  
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