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Autore: A l i c e    04/07/2012    3 recensioni
Sono passati nove anni dal fatidico scontro e le Mew Mew, ormai ex paladine della giustizia, si sono fatte una vita loro. Sarà un ritorno inaspettato e uno (o due) sconvolgente segreto a travolgere il corso degli eventi e le loro vite.
Una precisazione: se in questa storia i personaggi possono apparire OOC, è perché ho voluto farli crescere e maturare. Buona lettura.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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The lost life
The lost life
 

  *Capitolo 1*

 

   Il locale era immerso nel silenzio, finalmente, dopo ore e ore di continuo baccano e uno sciamare costante di gente. Dal soffitto e dagli stipiti delle porte pendevano ancora le ghirlande di fiori e i nastri dai colori tenui raccolti in grossi e flosci fiocchi.
   Era appena stato ristrutturato: le pareti con l’intonaco bianco diffondevano insistenti il loro odore fresco e pungente, facendosi beffa dei vari diffusori di profumi per l’ambiente; i tavolini e le sedie laccate rosso e di bianco rilucevano ai raggi caldi del sole al tramonto, quasi a voler ostentare la loro ritrovata bellezza; il vecchio soffitto era stato sostituito dalle più belle travi di legno, chiaro, compatto; le piastrelle lucide e lisce richiamavano i toni chiari delle pareti, in contrasto con i pochi mobili, scuri, dell’arredamento; enormi vasi di porcellana accoglievano, maestosi, mazzi coloriti di fiori ed altri erano contenuti in piccoli cestini posti sopra ogni tavolino.
   Il piccolo edificio era circondato da un grazioso giardinetto col prato inglese, cintato da una raffinata ringhiera nera; in un angolo - vicino al vialetto di ghiaia che conduceva all’ingresso – era stato piantato un piccolo sakura in fiore; girando attorno all’edificio ottangolare si potevano ammirare le aiuole ben curate e un piccolo laghetto decorato con tanto di ninfee.
   Ma nonostante tutta quella grazia e raffinatezza che trasudava da ogni mattone, un vago senso di decadenza e trasandatezza aleggiava attorno al Cafè Praline, un tempo Caffè Tokyo Mew Mew, come se i nuovi gestori avessero affidato le chiavi del locale direttamente ai clienti. La ghiaia del vialetto era tutta smossa, foglie secche e sporcizia varia rotolavano nel giardino sospinte da un leggero alito di vento, tazze e bicchieri e piattini con posate giacevano ancora, dimenticati, sui tavolini con le sedie riverse, e il pavimento era sporco di briciole e quant’altro.
   Poco più in là, in quella che un tempo era stata la cucina, ora adibita a ufficio, s’intravedeva una lama di luce che sgusciava fuori dalla porta socchiusa e uno scampanellio di voci guizzava allegro fuori dalla stanza, per diffondersi lieve in tutto il locale.
   Un’ombra schiva e piccola si mosse lungo le pareti intonacate a nuovo facendo rimbombare i passi lenti e sicuri, cadenzati, nella solitudine del salone. Si muoveva tranquillamente, composta e determinata, verso il nuovo ufficio. Passando, accarezzò quasi con ribrezzo la gamba di una delle seggiole di metallo riversa a terra; portava sul volto l’espressione cinica e ironica di chi sa già che reazione aspettarsi, di chi ormai (disilluso dall’arroganza del mondo) non si stupisce più di nulla, di chi ha paura di soffrire e indossa quella maschera come protezione.
   Appoggiò le dita lunghe e sottili sulla maniglia laccata d’oro e spinse un po’ di più la porta fedifraga che lasciava fuoriuscire la lama di luce. Poteva vederli tutti, sorridenti e sereni, mentre si scambiavano frasi gentili.
   Erano così felici di ritrovarsi dopo alcuni mesi, dicevano, e in un’occasione così importante poi! La nuova gestione del vecchio Caffè era davvero un’ottima idea ed erano sicuri che Minto e Ryo se la sarebbero cavata egregiamente.
   Sorrise stancamente e rimase in attesa che il momento giusto arrivasse.
   Quindi diede una spinta definitiva alla porta e la luce la investì.
   Zakuro e Retasu furono le prime a voltarsi. Seguirono poi Purin e Minto e per ultimo Ryo.
   «Buonasera a tutti».
   E il silenzio cadde sulle loro teste come la mannaia del boia, mentre una tazzina da the si frantumava a terra.

 

   Keiichirou non aspettava visite quel giorno.
   Era andato via dalla festa d’inaugurazione del locale abbastanza presto per andare a recuperare sua figlia di cinque anni alla scuola materna e poi era tornato a casa.
   Era un padre molto premuroso: le aveva preparato la merenda e adesso sedeva con lei in salotto per aiutarla a colorare un album di disegni.
   Era il suo giorno libero, le pulizie di casa le aveva terminate e non doveva nemmeno correggere le verifiche dei suoi studenti del corso avanzato di chimica.
   Ma, nonostante questo, non si sorprese più di tanto nel sentire suonare il campanello.
   Deve essere Zakuro.
   Sorridendo indulgente si alzò dal divano e accarezzò con dolcezza la testolina bionda di sua figlia Sarah.
   «Ehi piccolina, corri a prepararti che è arrivata la mamma».
   La bambina continuò a colorare ancora per alcuni secondi, poi si alzò, in silenzio, e cominciò a mettere in ordine le proprie cose dentro la cartella.
   Una nuova scarica di scampanellii impazienti costrinse Keiichirou a correre verso la porta d’ingresso.
   «Dev’essere parecchio nervosa la mamma og-». Ma le parole gli morirono in gola non appena spalancò la porta.
   Sul pianerottolo, ad accoglierlo, trovò innumerevoli occhiate torve e fiammeggianti.
   «Minto? Che ci fai qui?».
   La ragazza lo scansò senza complimenti, furibonda e sconvolta. Non riusciva a contenere l’ira che la pervadeva. Senza pensarci due volte, si fiondò in cucina alla frenetica ricerca di una birra.
   «E’ tornata» ringhiò tra un sorso e l’altro.
   I bei lineamenti del viso erano alterati da un’espressione di odio puro, i capelli legati in una coda scomposta uscivano in ciuffi dispettosi e i vestiti spiegazzati erano madidi di sudore. Strano, pensò Keiichirou osservandola con aria pacata appoggiato al muro della cucina: Minto non era il tipo da mostrare così apertamente i suoi sentimenti.
   Nel frattempo la birra era stata prontamente sostituita da qualche isterica boccata di fumo.
   «Hai capito cos’ho detto?».
   Keiichirou annuì lentamente in modo grave. Non c’era nemmeno stato bisogno di pronunciare il suo nome.
   «E ha chiesto di te».

 

   Ichigo si trovava nello scantinato del Cafè Praline, quelli che una volta erano stati i laboratori del progetto Mew Mew. Sorrise.
   «Gran bella situazione, vero?».
   L’avevano rinchiusa lì, tra scatoloni, sacchi, scaffali e barattoli vari, per paura che combinasse qualche disastro; o che scappasse nuovamente. Non sapeva nemmeno lei perché, però la cosa la faceva sorridere.
   «O forse perché hanno paura che tu possa far del male a qualcuno, no?».
   Ichigo contrasse istintivamente i muscoli e digrignò i denti. No, non era possibile che avessero quel sospetto, nessuno poteva essere a conoscenza di...
   L’oscurità attorno a lei cominciò ad addensarsi, come petrolio strisciava a terra fino a raggiungere la sua ombra e di colpo, questa, prese vita.
   Sospirò.
   Era solo uno stupido effetto della sua mente, lo sapeva. Non era l’oscurità ad addensarsi, era solo un’illusione che quell’essere utilizzava per uscire allo scoperto, lo sapeva. E non era la sua ombra ad animarsi, era solamente il mezzo di comunicazione di quell’essere. Lo sapeva.
   Ma nonostante tutto, non poté far a meno di provare un moto di disgusto.
   «Non hai intenzione di rispondermi nemmeno oggi, dico giusto?».
   Sospirò stropicciandosi il viso.
   «Ah, già. Dimenticavo. Devi sforzarti di non considerarmi».
   Cazzo.
   Ichigo strinse i pugni, trattenendo la stizza che aumentava man mano.
   «Te lo dico per l’ultima volta, Coso: lasciami perdere» ringhiò a denti stretti.
   La risata della sua ombra, o meglio, di quell’essere, si propagò per lo scantinato: fredda, stridula, metallica.
   Metteva i brividi. Forse non era stata una buona idea tornare, ma d’altronde lei doveva farlo.
   Estrasse un piccolo pacchetto di sigarette dalla tasca dei jeans e se ne portò una alla bocca, lentamente, come a voler assaporare quel gesto. Stava già pregustando l’aroma del tabacco tostato arrotolato nell’involucro sottile di carta, quando...
   «L’accendino no!!».
   L’essere al suo fianco girò quella che doveva essere la testa nella sua direzione, quindi scoppiò nuovamente nella sua orrenda risata.
   Devo vedere Kei, maledizione.

 

   Il piede piccolo e sottile batteva con insistenza sul pavimento piastrellato, le dita tamburellavano nervosamente contro il bracciolo della poltrona e le unghie già corte erano state ridotte a dei moncherini sanguinanti.
   Era passata un’ora e non era cambiato nulla.
   E lei voleva fumare, dannazione. Rivoleva indietro il suo accendino.
   Masticò rabbiosamente qualche parola non troppo carina nei confronti di quelli che una volta erano stati i suoi compagni e i suoi amici, quando finalmente la porta si spalancò.
   Rimase zitta, seduta, immobile, nell’attesa che qualcuno facesse la prima mossa.
   Ryo era alle spalle di Keiichirou e fissava astioso Ichigo, i muscoli tesi come se fosse stato pronto a saltarle addosso al benché minimo movimento.
   «Ti dispiace lasciarci soli?».
   Il ragazzo annuì e dopo alcuni attimi di iracondo silenzio, uscì richiuse la porta.
   Keiichirou rimase ancora qualche istante a fissare serio quella che una volta era stata Mew Ichigo, stropicciandosi di tanto in tanto la fronte. Quindi le porse un piccolo accendino nero, lucido.
   Finalmente.
   «Kei» mormorò Ichigo a mo’ di saluto dopo una lunga boccata di fumo.
   Il ragazzo inclinò la testa da un lato e sorrise.
   «Ichigo! Che piacere vederti, non mi hai più chiamato alla fine».

 

Note di Alice:
Buonasera a tutti! :) Allora, per prima cosa desidero veramente ringraziare chi ha recensito la volta scorsa (Imiberry, Lady S, Xuehua), chi ha letto, chi ha messo nei seguiti e nei da ricordare e chi è anche solo passato a dare un'occhiata.
Veramente, non so che dire se non GRAZIE! Bene, spero di non deludervi!
Alla prossima

Alice

   
 
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