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Capitolo 7: La
finestra sul cortile
Che palle.
Erano passati
solo dieci giorni
dall’incidente e me ne mancavano ancora venticinque per
togliermi di dosso
quello stramaledetto gesso schifoso. Sbuffai per la millesima volta,
dopo aver
girato canale con il telecomando che ormai era diventato parte
integrante della
mia mano. “Adam!!” gridai annoiata. Lo vidi correre
giù per le scale e con
fiato corto mi chiese “Stai bene? E’ successo
qualcosa?” Ma notò subito che non
c’era niente di cui preoccuparsi. “Mi
annoio!” sbottai sbuffando come una
dodicenne. “Ma vaffanculo, Lee. Pensavo fossi rotolata per
terra e stessi per
morire” disse sbuffando con me. “Andiamo a farci un
giro? A piedi, ovviamente”
cercai di convincerlo. Di tutta risposta mi rise in faccia.
“Ma se ti stanchi a
saltellare qua per casa! E poi io non porto in giro una menomata: ho
una
reputazione da difendere” “Che palle! Ma io mi
annoio a stare qua seduta tutto
il giorno!” dissi imbronciata, incrociando le braccia come
una bambina.
“Prepara dei biscotti” Fui io stavolta a ridergli
in faccia. “Già, pessima
idea. Bhè, disegna! Ricordo di averti sentita dire che ami
disegnare” disse con
quel suo solito ghigno maledetto. Gli diedi una gomitata su un fianco.
“Piantala di fare l’idiota!” “E
tu piantala di lamentarti!” “Portami di sopra e
facciamo del sesso selvaggio” dissi ormai senza
più idee, buttandomi su di lui
con fare teatrale. “Cosa mi tocca sentire!”
“Sono disperata, cosa pretendi!”
“Senti vado a prenderti un caffè da Starbucks, ok?
Magari la pianti di rompere
i coglioni” disse alzandosi dal divano e dirigendosi verso la
porta d’ingresso.
Allungai il braccio verso di lui e sempre con fare melodrammatico
ululai “Non
mi abbandonare qui da sola! Potrei morire di solitudine!”
“Per cinque minuti
che mancherò, penso che sopravvivrai!”
“E’ così che è morto
Mavis!” “Chi cazzo
è Mavis?” “Il cane di Trisha, una mia
compagna di corso. L’ha lasciato solo in
casa e lui è morto di solitudine!” “Oh,
Gesù..” lo vidi alzare gli occhi al
cielo, prima che aprisse la porta e la richiudesse poco dopo alle sue
spalle.
“Adam! Non mi lasciare, ti prego! Potrei
impazzire!” urlai con le lacrime agli
occhi alla porta ormai chiusa. Sbuffai sonoramente, prima di dedicarmi
ancora
una volta ai programmi in tv. Dopo uno psicotico zapping alla ricerca
di
qualcosa di interessante, trovai un film che stava iniziando.
Probabilmente non
era nemmeno di questo secolo. “Alfred Hitchcock”
sussurrai leggendo i titoli di
testa. Appunto. Sbuffai
e tentai di cambiare canale per
l’ennesima volta. Ma il telecomando non rispondeva. Batterie scariche, a quanto pare. Il
destino era contro di me.
Sarei morta dalla noia da sola, triste e con sottofondo la colonna
sonora de “La
finestra sul cortile”. Avevo bisogno di caffè e
Adam ci stava mettendo troppo
tempo per i miei gusti. Il film iniziò. Spalancai gli occhi
nel momento in cui
venne inquadrato il protagonista su una sedia a rotelle a causa di una
gamba
rotta. “Come me!” sussultai, sentendomi
così chiamata in causa. Anche lui
annoiato, iniziò ad osservare ciò che accadeva
all’interno del suo cortile. Il
film mi affascinò, mi coinvolse a tal punto che nemmeno mi
accorsi che Adam era
rientrato trionfante dalla sua passeggiata. “Non ti ho
chiesto come lo volevi,
perciò sono andato a fantasia” disse sedendosi di
fianco a me. “Taci! Silenzio!
Sto guardando un film!” dissi, muovendo la mano come se lui
fosse un insetto
fastidioso. “Prego, comunque!” sbottò
irritato, scattando in piedi e tornando
in camera sua. Che ci facesse poi in camera sua tutto il giorno da
solo, rimaneva
un mistero per me. “L’ha uccisa! L’ha
uccisa!” gridai al protagonista come se
potesse sentirmi. Lui coinvolse nelle indagini la sua fidanzata, che
riconobbi
subito: Grace Kelly più splendida che mai. E ad aiutarli
c’era anche la vecchia
infermiera di lui. Suspance, suspance, suspance. Alla fine il
protagonista
riuscì a smascherare l’assassino. E a rompersi
anche l’altra gamba. Film
interessante. Soprattutto perché mi aveva ispirata.
“Adam!!” gridai raggiante.
Lui scese di controvoglia, stavolta. “Che vuoi?”
chiese strafottente. “Portami
di sopra e procurami un binocolo!” “A cosa dovrebbe
servirti un binocolo?”
chiese stupito, senza capire le mie reali intenzioni.
“Sorveglierò i vicini e
smaschererò l’assassino!” Alzai un pugno
trionfante, aspettandomi che lui si
unisse a me. Ma la sua unica reazione fu alzare un sopracciglio e
guardarmi
come se venissi da un altro pianeta. “Oh, che cavolo! Portami
di sopra e
trovami un maledetto binocolo!” Brontolai, notando la sua
totale indifferenza
al mio nuovo hobby. Mi prese in braccio e sbuffando mi
accompagnò al piano di
sopra. “Se vuoi, puoi essere la mia Grace Kelly”
dissi speranzosa, guardandolo
negli occhi. Lui si fermò e prese a fissarmi. “Ma
si può sapere che cazzo ti
passa per quella testa?” mi chiese tra il divertito e il
preoccupato. “Li
spierò tutti per ammazzare la noia.” Dissi con
voce psicotica. Mi portò in
camera mia e mi sdraiò sul letto. “Non qui! Devi
procurarmi una sedia, di
quelle con le ruote sotto, in modo da farmi muovere liberamente per la
stanza e
poter guardare fuori dalla finestra!” “Lee, ma per
chi cazzo mi hai preso? Per
il tuo schiavo?” disse lui, stanco. Mi alzai dal letto e mi
aggrappai alla sua
maglia, con fare supplichevole. “Ti prego, Grace”
“E piantala di chiamarmi
Grace! Datti un contegno! Sembri una povera pazza!” mi
sbottò contro, facendomi
cadere sul letto. “Adam, dai. Sto giocando! Perché
te la prendi?” dissi,
tornando seria. “Perché fai l’idiota! E
mi sarebbe piaciuto se al posto di guardare
quello stupido film, avessi passato del tempo con me!” Era
proprio incavolato.
La vena sulla sua tempia pulsava come un martello pneumatico.
Digrignava i
denti come un cane rabbioso ed era rosso in viso. “E non
potevi semplicemente
dirmelo?” gli chiesi calma. “Pensavo fossi
abbastanza intelligente da capirlo
da sola! Ma a quanto pare sei solo un’ottusa!”
“Un’ottusa?” gridai anch’io,
sulla difensiva. “Non sei molto sveglia”
“Sarà per la botta alla testa che ho
preso quando abbiamo fatto l’incidente?!” sbraitai
rialzandomi a fatica in
piedi. “Quella botta deve averti fatto perdere parecchi
neuroni, allora!” “Probabile!
Ma te che ne puoi sapere? Non ti sei fatto nemmeno un
graffio!” gli avevo
sputato addosso tutta la mia invidia, senza pensare minimamente che
avrei
potuto ferirlo. Infatti: colpito e
affondato. “Mi dispiace” mi scusai
immediatamente, dopo aver elaborato ciò
che avevo appena detto. Lui sorrise amaramente. “Pensi che
non avrei preferito
che tu non ti facessi nulla? Pensi che la notte io dorma sereno
sentendo i tuoi
lamenti a pochi metri da me? Davvero mi credi così
stronzo?” Le sue parole mi
ferirono quasi quanto le schegge di vetro che mi avevano sfigurato
temporaneamente il viso a causa dello scoppio del finestrino durante
l’incidente. “Davvero, mi dispiace. Non pensavo a
quello che ho detto” dissi,
prendendogli la mano. Ma lui me la allontanò bruscamente.
“Senti, lascia
perdere!” sbraitò, prima di girarsi e uscire quasi
di corsa dalla mia stanza.
“Adam!” lo chiamai. “Oh, vaffanculo
questo gesso del cavolo!” sibilai, tentando
di camminare. Con due gambe ero imbranata. Con una sola gamba ero una
catastrofe.
Volevo raggiungerlo in fretta. Ma sapevo anche che la gamba mi avrebbe
fatto un
male atroce. Rincorrilo, ma con calma.
Provai con questa strategia. Ma c’era la foga del momento che
combatteva con la
coscienza di dover stare attenta. Infatti rotolai, per terra, prima di
raggiungere la porta. “Cazzo!” sbottai tra le
lacrime. Se Adam era uscito, non
l’avrei mai raggiunto strisciando.
“Perché sono circondata da un’ alone di
sfiga?” borbottai piangendo seduta sul pavimento della mia
stanza. La gamba
rinchiusa nel bianco gesso pulsava così insistentemente che
mi venne voglia di
strapparmela via dal corpo. Gattonai alla meglio, tenendo sempre stesa
dietro di
me la gamba ‘clinicamente’ morta. La porta della
stanza di Adam era socchiusa.
Con un colpo di mano la spalancai, ma non lo trovai. Allagai la sua
camera con
le mie lacrime salate, che ormai avevano sede fissa sul mio viso.
Trovai uno
zaino, abbandonato vicino al suo comodino. Quando eravamo piccoli e
nevicava,
scendevamo dalle cunette di neve con gli slittini che ci aveva comprato
mio
padre. Non sarà poi così
diverso. Mi
preparai in cima alle scale. Misi lo zaino sotto al sedere. Ha ragione Adam, sei completamente impazzita.
La porta del bagno si aprì nell’esatto momento in
cui mi lanciai in
quell’impresa suicida. Addio mondo
crudele. Girai appena la testa per vedere mio
fratello a bocca e occhi spalancati,
mentre con lo zaino scivolavo giù dagli scalini a
velocità folle. Non feci
nemmeno in tempo ad urlare che quel mio atto assolutamente insensato mi
portò
dritta di faccia ad assaporare il gusto legnoso del parquet.
“Lee, ti sei fatta
male?” Adam corse giù per le scale e mi
alzò da terra. “Ti giuro, non volevo!”
singhiozzai “Non ti volevo rispondere
così” dissi asciugandomi la faccia dal
mio infinito oceano di lacrime. “Ma si può sapere
che cavolo ti è preso? Perché
cazzo ti sei lanciata giù dalle scale con uno zaino sotto al
culo?” chiese, non
sapendo se ridere o arrabbiarsi per la mia sconsideratezza.
“Pensavo fossi da
basso e volevo raggiungerti!”
piagnucolai isterica. “Ma quanto sei
deficiente” “Piantala di
insultarmi! Io sto piangendo!” urlai, quasi strozzandomi con
la mia saliva.
“Hai ragione, scusa. Dai, non piangere più. Lo sai
che non mi piace vederti
piangere” disse asciugandomi il viso. Tirai su con il naso.
“Pace fatta?”
chiesi innocente, sbattendo i miei occhioni verdi. “Pace
fatta” rispose prima
di darmi un bacio a fior di labbra. Mi sembrò di ritornare
piccoli. Prima di
odiarci, ogni volta che bisticciavamo ero sempre io quella che faceva
il primo
passo. Gli chiedevo sempre “Pace fatta?” e lui
rispondeva alla medesima
maniera, per poi posarmi un bacio innocente sulla guancia. Sembrava che
insieme
a noi fossero cresciuti anche i baci che ci scambiavamo. “Che
dici se ti porto
in camera?” chiese, dopo un lungo minuto di silenzio.
Sbuffai. Mi prese in
braccio. Fece un paio di scalini, poi si fermò.
“Anzi no, forse è meglio
uscire” disse prima di imboccare verso la porta
d’ingresso. Aprì la porta e ci
trovammo davanti ai nostri genitori e a Savannah che ci guardavano
senza capire
che stesse succedendo. “Le fa male stare in casa”
si giustificò mio fratello,
passando tra di loro che si scambiarono solo sguardi divertiti.
“Dove vuole
andare, signorina?” mi chiese Adam pimpante. “Al
parco!” esclamai felice. Lui
si bloccò “Ti sei accorta che siamo a Londra e che
ci saranno una decina di
parchi?” mi domandò saccente. “Alla
statua di Peter Pan!” mi corressi senza
abbandonare l’entusiasmo. Essere scarrozzata per Londra da
mio fratello mi
piaceva come idea. Ma farlo tra le sue braccia era una cosa che
riempiva di
arcobaleni le mie ultime giornate nere.
Mi
adagiò cauto sulla panchina davanti
a noi, poco distante dalla statua di Peter Pan. “Sei
contenta?” mi chiese
sorridendo Adam. Annuii estasiata. Il vento sul viso era qualcosa di
indescrivibile. Chiusi gli occhi, unendomi tutt’uno con la
natura che mi
circondava. La mia gamba malandata era sopra le ginocchia di Adam.
“Vuoi che la
sposto?” gli chiesi, pensando gli potesse dare fastidio.
“No, tranquilla”
rispose semplicemente. Era nervoso. Si capiva benissimo.
“C’è qualcosa che non
va?” gli chiesi curiosa. Si mordeva insistentemente il labbro
inferiore. Mi guardò
un attimo, poi spostò il suo sguardo sulle mie labbra.
“Pensi che possa
funzionare?” mi chiese “Dico, tra me e
te” finì in un sussurro. Rimasi senza
parole. Chi era quel ragazzo dolce davanti a me e che ne aveva fatto
del mio
cinico e gelido fratellastro? “Non lo so” risposi
sincera. Sembrò deluso.
“Quindi è un no” “Non
è un no. E’ un non lo so. Un vorrei ma non
posso” “Prova
a non pensare al fatto che siamo fratellastri. Anche in quel caso
sarebbe un
non lo so?” “In quel caso penso che non ci
sarebbero problemi” risposi di
getto. Da quando ero diventata così schietta? Mi morsi il
labbro inferiore,
mentre un imbarazzato rossore compariva sulle mie guance.
“Baciami” disse,
puntando i suoi occhi nei miei. Mi avvicinai al suo viso lentamente.
“Baciami
come se non fossimo fratelli” continuò a due
centimetri dalle mie labbra. Fu la
prima volta in cui il pensiero che Adam fosse mio fratello non mi
sfiorò
minimamente: era la prima volta che Adam era solo Adam. Gli presi il
viso tra
le mani e lo tirai verso di me. Le nostre lingue danzavano in perfetta
armonia.
Nessuno dei due guidava l’altro. Facevamo tutto insieme, in
perfetto sincrono.
Poi all’improvviso si staccò da me. “Che
cosa mi hai fatto?” mi chiese ad occhi
chiusi, sorridendo. Gli sfiorai il naso con il mio. Infondo, se
qualcuno che
non ci conosceva ci avesse visti, avrebbe detto che eravamo una coppia.
Non di
certo che eravamo fratelli. Mi avvicinai ancora alle sue labbra. Gliele
morsicai teneramente. Sentii le sue mani percorrermi i fianchi e il mio
respiro
iniziò ad accelerare. “Vuoi tornare a
casa?” mi chiese, notando la mia
non-indifferenza al suo tocco. “No” risposi. Gli
presi un braccio e lo passai
sulle mie spalle, poi mi accoccolai sul suo torace, mentre lui
appoggiava il
suo mento sulla mia testa. No, nessuno vedendoci a quel modo avrebbe
detto che
io e lui eravamo fratelli. Quindi, perché avrei dovuto
pensarlo io? Con Adam
stavo bene, mi piaceva. E non potevo farci niente. Mi sentivo come
un’eroina
tragica di un libro, divisa tra la famiglia e l’ amore.
Peccato che la mia
famiglia e il mio amore coincidevano. Strinsi Adam in un abbraccio
soffocante
che lo fece ridere. “Anche i tuoi abbracci sono
violenti” disse ridendo. “E’ la
mia personale dimostrazione d’affetto nei tuoi
confronti” risposi, poco
convincente. “Comunque devi spiegarmi a che diavolo stavi
pensando quando ti
sei improvvisata kamikaze sulle scale di casa” disse serio,
guardandomi.
“Volevo raggiungerti, te l’ho detto”
risposi, intrecciandomi una ciocca di
capelli tra le dita. “Sei in assoluto la ragazza
più strana di cui io mi sia
mai innamorato”. Se ne rese conto troppo tardi, di quello che
aveva detto. Lo
vidi sbiancare di colpo. Con lo
sguardo guardava altrove. Mugugnava versi senza nessun tipo di
significato. Si
era irrigidito e continuava a mordersi il labbro inferiore. E per una
volta
decisi di infierire, ritrovandomi stranamente il coltello dalla parte
del
manico. “E da quanto saresti innamorato di me?”
chiesi, alzando un sopracciglio
e con faccia indifferente. In realtà il cuore mi batteva
all’impazzata. Se non
avessi avuto una gamba rotta mi sarei messa a correre e a gridare dalla
felicità. “E’ che, ehm, io non..
Insomma, volevo solo.. Ho.. Ma..” sbiascicava
parole senza senso. Mi fece sorridere. “Non pensavo di essere
così letale da
farti rimanere senza parole!” dissi, imbarazzandolo
ulteriormente. Adam era in
difficoltà. E la cosa lo rendeva particolarmente tenero. Lui
era innamorato di
me. E tu? Lo baciai, provando a
farlo
rilassare. “Sei davvero innamorato di me?” gli
chiesi, cercando delle conferme.
Maledetta la mia insicurezza. “A quanto pare”
rispose sussurrando. “E tu? Cioè,
voglio dire..” Adam che arrossiva era un evento da
immortalare. “Mi sono
lanciata giù da una rampa di scale con uno zaino sotto il
sedere solo per vedere
se eri arrabbiato con me: mi sembra chiaro, a questo punto”
dissi, rossa quanto
lui. Sorrise soddisfatto. Poi iniziò a ridere.
“Dovevi vedere la tua faccia
mentre scivolavi giù!” Rise così forte
che mi contagiò. “E tu dovevi vedere la
tua!” “Non ti facevo così
spericolata” mi prese in giro. “Ah,
perché non sai di
quando ho attraversato l’oceano in groppa a un delfino?
Quante cose non sai di
me, Adam!” dissi sarcastica. Prese a fissarmi.
“Ripetilo” disse solamente.
“Cosa?” chiesi senza capire a cosa si riferisse.
“Il mio nome. Ripeti il mio
nome” disse serio, puntando il suo sguardo sulle mie labbra.
“ Sono innamorata
di te, Adam Wilde” dissi, risultando più
sdolcinata di quanto volessi apparire.
Lo vidi sorridere. Quello era un nuovo sorriso: il sorriso innamorato
di Adam.
Ed ero io la causa di quel sorriso. Ero io ad averlo fatto innamorare.
“Merda..” sussurrai, sentendo la gamba ingessata
formicolarsi. “Che c’è?”
chiese Adam, senza capire. “La gamba inizia a farmi
male” dissi, togliendo la
gamba dalle sue ginocchia. Si alzò in piedi.
“Andiamo, ti porto a casa” dissi,
avvicinando il suo viso al mio. L’ultimo bacio prima di
ritornare alla realtà
in cui io e lui eravamo solo fratelli. Sbuffai, mentre mi prendeva in
braccio
pronto a riportarmi a casa. “Perché hai
così tanta voglia di tornare a casa?”
chiesi acida. “Pensavo..” “No, tu non
pensavi un bel niente. Se solo tu avessi
pensato, staremmo ancora abbracciati su quella cazzo di
panchina” sbottai,
interrompendolo. “E ora si può sapere che ti
prende?” “Un bel cazzo di niente!”
gridai a pochi centimetri dalla sua faccia. “Più
provo a capirti e meno ci
riesco. Sei proprio strana” disse, sapendo che mi avrebbe
fatta ancora di più
arrabbiare. “Dimmi ancora che sono strana e ti strappo il
naso a morsi” “Anche
le tue minacce sono strane” disse ridendo. Rimasi in silenzio
fino a casa.
“Puoi almeno farmi un sorriso, prima di entrare?”
mi chiese, trattandomi come
una bambina imbronciata. “Puoi mettermi giù. Da
qui in poi ce la faccio da
sola” dissi, lugubre senza nemmeno guardarlo in faccia.
“Smettila di fare così”
mi rimproverò, iniziando a scaldarsi. “Non sto
facendo proprio niente. Ora
mettimi giù” “Basta, mi hai rotto i
coglioni con questi atteggiamenti da pazza”
sbraitò prima di abbandonarmi su uno scalino, in malo modo.
Entrò in casa con
passo feroce senza dire una parola a nessuno. Mi alzai dal gradino e
saltellando come un canguro raggiunsi la porta. Avevo voglia di
piangere, di
urlare. La gamba mi faceva male. Dal nervoso avevo iniziato a mordermi
il labbro,
torturandolo malignamente sotto i denti. Entrai in casa con espressione
maligna, e seguendo l’esempio di mio fratello non dissi
niente a nessuno. “Ma
si può sapere perché voi due prima sembrate
inseparabili e un attimo dopo..”
“Jodi, non è il caso” la interruppi in
cagnesco. Lei sbuffò e alzò le mani in
segno di resa. Anche lei rinunciava a capirci. Fare i gradini
saltellando su un
solo piede si dimostrò un’impresa ardua. Se avessi
avuto una bandiera l’avrei
piantata in cima alle scale, a dimostrazione del fatto che ero riuscita
a
raggiungere la vetta. Ringraziai Dio del fatto che la mia camera si
trovasse al
primo piano e non al secondo. In tal caso avrei dato forfet e mi sarei
lasciata
morire di stenti sulle scale. Saltellai in camera mia, chiudendo la
porta alle
mie spalle. Mi buttai sul letto, lasciando la gamba ingessata a
penzoloni,
segno che ero troppo stanca per alzare quel peso. La porta si
spalancò
all’improvviso. “Grandi notizie!”
esclamò mia sorella entusiasta, buttandosi
sul letto di fianco a me, senza badare alle condizioni pietose in cui
mi
trovavo. “Papà mi farà fare uno stage
da lui e lavorerò con Trent! Ci pensi? Io
e lui insieme tutti i giorni! Deve essere un sogno!” le
brillavano gli occhi,
come se fossero dei pezzi d’ambra colata.
“Bene” dissi solo. Savannah era
troppo eccitata e non fece nemmeno caso a ciò che avevo
detto. “Se non avessi
quello stupido gesso ti chiederei di accompagnarmi a fare
shopping” cominciò.
In quel preciso momento mi sentii fortunata ad essermi rotta una gamba:
non mi
sarei dovuta sorbire un’altra giornata di shopping estremo
con mia sorella. Le
sorrisi solamente, cercando di non dimostrare troppa
felicità nell’aver
scampato quel pericolo. “Posso farti una domanda?”
mi chiese curiosa. Annuii
indifferente. “Perché non sei più
venuta a trovarci?” chiese schietta. Alzai lo
sguardo e incontrai il suo. “Mi sentivo sempre fuori posto
qui. Voi eravate
tutto ciò che io non potevo avere. Ero gelosa del fatto che
mio padre trattasse
più voi come dei figli, che me. Parliamoci chiaro: a lui di
me non è mai
fregato un cazzo e l’ha dimostrato trasferendosi
dall’altra parte dell’oceano.
Non si è mai mosso da qui per venirmi a trovare, ma vi ha
sempre portato in
vacanza in qualsiasi posto. Alcuni anni non mi ha nemmeno chiamato per
farmi
gli auguri di compleanno. Allora ho deciso che se lui non muoveva un
dito per
stare con me, non lo avrei fatto nemmeno io.” Era la prima
volta che confidavo
quelle cose a qualcuno. Mi sentii libera di un peso che da anni mi
affliggeva. “Mi
dispiace” bisbigliò Savannah, senza guardarmi in
faccia. “Ehi, non è colpa tua
se mio padre è uno stronzo” le dissi sorridendo.
“Sì, lo so. Ma non avevo mai
pensato a quello a cui hai rinunciato tu” “Io non
ho rinunciato a niente. A lui
non piaccio e lui non piace a me. Stare senza di lui non è
stato così tragico, d’accordo?”
la rimbeccai, vedendo che una lacrima le era sfuggita dagli occhi.
“D’accordo”
disse calmandosi. “Hai già pensato a come vestirti
il tuo primo giorno di
stage?” cambiai discorso, distendendo l’aria
pesante che si era creata nella
mia stanza. “Pensavo a un vestito e una giacchetta”
“Tacchi?” “Ovviamente.”
Già,
ovviamente. “Secondo te ce la farò?” mi
chiese. La guardai non capendo a cosa
si riferisse. “Con Trent. Dici che sono impazzita?”
“Non sei impazzita. Se lui
ti piace, buttati. Non pensare a quello che gli altri potrebbero dire
di voi”
mi bloccai all’istante. “Scusami un
attimo” le dissi, prima di alzarmi dal
letto. Saltellai fino alla camera di Adam. Aprii la porta, ma non lo
trovai.
Avevo bisogno di lui. Avevo bisogno delle sue labbra, delle sue mani
sopra la
mia pelle, dei suoi respiri e della sua voce. Tornai in camera mia.
Savannah
non si era mossa dal mio letto. “Hai visto tuo
fratello?” le chiesi. “E’ uscito
con Lauren” rispose sistemandosi una ciocca di capelli dietro
l’orecchio. Mi
irrigidii all’istante. “C-con Lauren?”
chiesi trattenendo la calma. “Sì, penso
che sono andati al pub con i loro amici” continuò
Savannah. “Scusami, ma vorrei
dormire” dissi, forse troppo scorbutica. Mia sorella si
alzò, mi baciò sulla
fronte e uscì dalla mia stanza. Adam era con Lauren. E io
ero nella mia camera,
da sola, a piangere sul mio letto.
Erano le quattro
di notte quando
sentii i passi di Adam sulle scale. Non volevo vederlo. Era come se mi
sentissi
tradita. Ma lui entrò in camera mia e si buttò
sul mio letto. Puzzava di birra
da far schifo. Iniziò a baciarmi sul collo, sbavando come un
cane. Lo
allontanai bruscamente. “E ora che
c’è?” si lamentò alzandosi
dal letto. “Sei
ubriaco” gli dissi disgustata. “L’hai
notato?” mi chiese ridendo. Si avvicinò a
me e provò a baciarmi. “Finiscila” gli
dissi respingendolo. “Lee, te l’ho già
detto: mi stai rompendo i coglioni con i tuoi atteggiamenti”
“No, tu mi hai
rotto i coglioni” lo spinsi un po’, allontanandolo
da me ancora una volta. “Si
può sapere che cazzo vuoi da me?!”
sbraitò senza freni. “Niente, Adam. Vai a
dormire. Ne riparliamo domani quando sarai meno ubriaco”
dissi stanca. Mi
strinse il braccio con forza “No, ne parliamo adesso, brutta
stronza
psicopatica! Io non ti capisco, non ci riesco proprio. Hai sempre
qualcosa per
cui essere incazzata e mi fai impazzire!” “Io non
mi incazzerei se tu stessi
con me al posto che con Lauren!” urlai in lacrime. Lui si
bloccò. “Per favore,
vattene a dormire” gli dissi, sperando che mi lasciasse in
pace. Ma non lo
fece. Mi prese il viso tra le sue mani e bisbigliando mi disse
“Ti giuro che
non ho fatto niente con lei” ma non riuscivo a crederci.
“Lee..” “Te l’ho già
detto: vai a dormire. Ne riparliamo domani” Ne avevo
abbastanza e lui lo capii.
Sbuffò, trattenendo la calma. Provò a baciarmi ma
scostai il viso. Mi guardò un’ultima
volta prima di uscire dalla mia stanza. Pregai tutta la notte
affinché un meteorite
grande quanto l’Asia si schiantasse contro la Terra,
incenerendoci tutti e
evitandomi di parlare con Adam il giorno dopo. Ma niente: le mie
preghiere
risultarono completamente vane. Fui svegliata da Savannah, o meglio dal
profumo
di Savannah. “Gesù, ma ti sei immersa in un barile
di profumo?” mugugnai,
ancora mezza addormentata. “Dici che ho esagerato?”
mi chiese in preda all’ansia.
“Sei riuscita a svegliarmi, quindi direi di
sì” dissi, stropicciandomi il naso.
“Porca vacca, lo sapevo che dovevo esagerare e che dovevo
mandare tutto a
puttane!” esclamò camminando da una parte
all’altra della mia stanza. “Bhè,
almeno sarai sicura che Trent cadrà ai tuoi piedi
svenuto” ironizzai. “E ora
che faccio?” “Hai tempo per farti una
doccia?” “No, cazzo” “Vuoi
stare ferma?
Non è niente. Lavati la faccia e prega che il profumo
sparisca” “Merda” sbottò
prima di uscire dalla mia camera. “Sei bellissima!”
le gridai, cercando di
infonderle un po’ di coraggio. Tornò poco dopo.
“Come sto?” “Te l’ho detto: sei
bellissima! E il profumo è quasi del tutto
sparito” mentii. “Prega per me”
“Penserò
a te tutto il giorno. Vedrai che sarà la giornata
più indimenticabile della tua
vita” “Speriamo” e detto questo se ne
andò. Mi stiracchiai nervosamente sul
letto. Sentii la porta d’ingresso chiudersi, chiaro segno che
in casa
rimanevamo io e quel povero deficiente di mio fratello. Ma per tutta la
mattina
non si fece vedere. Mi alzai dal letto, stanca di poltrire e scesi in
cucina a
cercare qualcosa da mettere sotto i denti. “Mi
dispiace” la voce di Adam mi
raggiunse alle spalle. “Per che cosa?” gli chiesi,
fingendo indifferenza. “Non
lo so” “Chiedi scusa e non sai nemmeno il
perché?” “Già. Con te bisogna
fare
così” “Così come?”
“Chiedere scusa anche se non si è fatto
niente” “Mi hai
lasciata da sola e sei uscito con Lauren. Io questo non lo chiamo
niente” stavo
iniziando a perdere la pazienza, esattamente come lui. “Io
sono uscito con i
miei amici e Lauren era lì con noi”
“D’accordo” dissi saltellando fuori dalla
cucina. Ma poi tornai indietro. “Ieri ho parlato con Savannah
riguardo a un
ragazzo che le piace e mi sono trovata a consigliarle cose che in
realtà stavo
consigliando a me stessa. Le ho detto di buttarsi, di non pensare a
cosa pensa
la gente. Solo che non avevo messo in conto il fatto che tu sei un
pezzo di
idiota insensibile” “Lee, porca puttana! Ti sto
dicendo che non ho fatto
niente! Quante volte te lo dovrò ripetere?” era
proprio incazzato. Non risposi.
Lo guardavo e basta. Guardavi i
suoi
capelli castani spettinati, i suoi occhi azzurri stanchi, il suo petto
muoversi
vistosamente a causa del suo respiro pesante dovuto
all’incazzatura. “Perché dobbiamo
sempre litigare? Me lo spieghi? Io voglio stare tranquillo ma tu trovi
sempre
il modo per rompermi i coglioni!” Rimase a guardarmi
piangere. “E ora perché
cazzo piangi?” sbottò perdendo le staffe.
“Io non voglio litigare con te” mi
lagnai asciugandomi la faccia dalle lacrime. “Ma tu mi fai
sempre piangere”
gridai fuori di me. “Basta ci rinuncio!”
urlò lui, lasciandomi da sola in
cucina e uscendo di casa. Mi abbandonai su una sedia in cucina e
continuai a
piangere disperata. L’aria londinese mi aveva trasformata in
una frignona. Non
ero mai stata così: anzi, di solito lasciavo correre.
Strappai un pezzo di
scottex e mi soffiai il naso. Perché doveva essere tutto
così dannatamente
complicato? Iniziavo a stancarmi dei continui e inutili litigi tra me e
Adam.
Ma solo a pensare che lui avesse passato la serata con Lauren, mi
faceva
impazzire. Iniziai ad immaginarli mentre si baciavano. E ciò
mi provocò un
conato di vomito, che riuscii a trattenere. Ecco a cosa Adam mi stava
riducendo: a una ragazzina gelosa che non riusciva a smettere di
piangere e
fantasticare. Lui aveva detto che non era successo niente, ma non
riuscivo a
crederci. Intuito femminile o sindrome psicotica? Era solo la mia
maledetta
insicurezza di cui non riuscivo a liberarmi mai. Non volevo rovinare
niente,
non un’altra volta. Non volevo che a causa delle mie turbe
psicologiche, Adam
mi avrebbe lasciata in balìa di me stessa ad affrontare,
ancora una volta, da
sola le conseguenze per le mie azioni. Non ero pronta a rivivere
ciò da cui mi
ero appena ripresa. A lungo andare, vi
farete del male entrambi. Sospirai sconsolata asciugandomi il
viso dalle
lacrime. Raggiunsi il divano e mi ci buttai sopra a peso morto. Chiusi
gli
occhi, cercando di calmarmi. La porta di casa si aprì.
Spalancai gli occhi e mi
sedetti, impaziente di vedere Adam. “Ciao, cara. Stai
bene?” la signora Travis
mi guardava preoccupata. Evidentemente dovevo avere proprio un aspetto
mostruoso. “Sì, tranquilla” le dissi
abbozzando un sorriso. “Hai bisogno di
qualcosa? Hai già mangiato?” “No,
grazie. Non ho fame” “E tuo fratello?”
“E’
uscito” le risposi lugubre, sperando di non scoppiare ancora
una volta in lacrime.
La porta si aprì di nuovo. “Quando si parla del
diavolo..” iniziò la domestica
sorridendo ad Adam. “Ti porto do sopra” non era una
domanda. Non avevo altra
alternativa. Annuii senza nemmeno guardarlo in faccia. Mi prese in
braccio e come
se fosse un’azione automatica, abbandonai la testa sul suo
torace. Sapevo che
una volta arrivati nella sua stanza, sarebbe esplosa una guerra
all’ultimo
insulto. Ma non mi importava. Perché tra le sue braccia in
quel momento c’ero
io, e nessun’altra.
Siete tutti
pronti a un’ennesima litigata? Io
no. Sono una tipa pacifica e continuare a descrivere litigate sta
diventando un’impresa
XD
Innanzitutto
consiglio a tutti di vedere (per
chi non l’avesse ancora visto) “La finestra sul
cortile”. Non mi sono
soffermata molto sui dettagli perché mi sarei dilungata
troppo, e sinceramente
sono qui per scrivere una storia e non per recensire un film XD
Questo capitolo
non mi ha molto entusiasmata e
rileggendolo mi sono quasi vergognata a pubblicarlo XD Allora premetto
che fra due capitoli ci
sarà un balzo nel
tempo (tipo tre mesi dopo da questi avvenimenti) e ci sarà
una “bella” sorpresa.
Continuate a leggere e a recensire. I vostri pareri sono ben graditi :D
Un
grazie particolare a Ryo13 e Athernil per
aver recensito l’ultimo capitolo e un altro grazie
và a chi giornalmente
aggiunge la mia storia tra i preferiti e le seguite!
A proposito,
magari non ci avete fatto caso ma
ho cambiato nick XD Quindi da ora in avanti mi firmerò
Cookie u.u (giusto a
titolo informativo). Eh già, dimenticavo: BUONA
ESTATE A TUTTI!
Baci,
Cookie :D