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Autore: LunaSayan    05/07/2012    1 recensioni
Mi chiamo Emma Valenti e sono una spia. Può sembrare molto strano ma il mio distintivo dice a chiare lettere che lavoro da tre anni per i servizi segreti americani, e faccio parte di una strana sezione della C.I.A, la T.I, a Los Angeles più precisamente. T.I sarebbe l’abbreviazione di Teen Investigation, perché io ho quindici anni, come tutti i ragazzi che lavorano con me. Qualche volta per la base si vede in giro qualche bambinetto di dieci anni o al massimo qualche venticinquenne che coordina le attività. L’unico ultracinquantenne è il capo operativo, che però svolge soltanto le pratiche burocratiche e il suo principale lavoro è firmare carte e cercare di impedire che i terroristi israeliani ci ammazzino, o cose del genere. Fin da piccola, intendo fin da quando ricordo, mi sono addestrata e mi hanno trasformata in una specie di macchina da guerra in miniatura. La T.I conta circa tremila agenti in tutto il mondo, ma circa la metà è collocata negli Stati Uniti d’America, io mi sono trasferita in California da Milano, quando avevo due anni; quindi sono americana a tutti gli effetti, ho anche la cittadinanza.
Genere: Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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TEAM ALFA

 

La base di Miami non era così male, alla fine. I piani superiori dell’edificio erano decisamente più popolati del primo.

I corridoi erano pieni di ragazzi e ragazze in tuta nera che chiacchieravano allegramente o correvano in infermeria, probabilmente a causa di un addestramento finito male. Jesse mi aveva fatto fare tutto il giro, spiegandomi di tanto in tanto la funzione di questa o di quella stanza, poi aveva lanciato un’occhiata all’orologio ed era corso via facendomi un cenno di saluto.

Mi guardai attorno sentendomi assolutamente fuori posto. Insomma, sembrava che tutti si conoscessero ed io ero quella nuova. Alla T.I. di Los Angeles ero considerata una veterana, quando arrivava un nuovo agente ero io quella che lo squadrava poco amichevolmente dall’alto in basso. Ora capivo cosa si provava ad essere fissati in quel modo; ci si sentiva assolutamente soli e spaesati.

Mi ritagliai un angolino nell’atrio principale e rimasi in piedi appoggiata al muro, attendendo l’ora di pranzo. Guardai l’orologio e poi tornai a fissare il vuoto sconfortata: soltanto le undici e mezza. Sull’opuscolo che mi avevano recapitato per posta c’era scritto che si poteva lasciare la base dalle dodici e un quarto alle due e mezza, dopo di che si era costretti a ritornate fino ad orario indefinito. “Daniel Johnson!” tuonò una voce.

Mi guardai attorno terrorizzata, ma poi, rendendomi conto che veniva dall’altoparlante, mi diedi mentalmente della stupida. “Tu e Wilde siete pregati di venire qui, immediatamente!” starnazzò ancora il dispositivo. Tutti i presenti si erano bloccati, e si guardavano attorno a metà tra il divertito e il preoccupato.

“Se non vi presentate giuro che vi appioppo altre tre ore di addestramento alla settimana!” gridò infuriata. Sembrava il tono di Gregory Smith, il Capo operativo, ma non potevo esserne sicura, ci avevo parlato una sola volta in tutta la mia vita.

Pensai a Charlotte. Lei si era dileguata quasi un’ora prima, ignorando bellamente tutte le regole imposte dal codice. Ma avevo subito capito che per quella strana ragazza l’unica regola era che, come si suol dire, non c’è nessuna regola.

 Una ragazza dai capelli biondi e un pircing sul naso scoppiò a ridere rumorosamente. “Cosa avrà combinato quell’idiota? Di sicuro una delle sue…” mi guardò, notando che la osservavo di soppiatto. “Oh, ciao!” esclamò venendomi incontro e stritolandomi in un abbraccio a dir poco inaspettato. “Tu sei quella italiana, giusto?” chiese.

“Già… Sono quella italiana.” Sospirai passandomi una mano tra i capelli. “Io sono Emily Montgomery , ex compagna di squadra di Charlotte.” Sorrise mettendo in evidenza la gomma da masticare appiccicata su un dente. “Pensavo che adorasse lavorare da sola.” Commentai ripensando alla sua reazione.

Quando il capo Augh le aveva detto che si sarebbe formata una nuova squadra lei era andata in bestia. “Da quando l’abbiamo fatta andare in prigione preferisce lavorare da sola. “Mi corresse. La sua affermazione non mi sorprese affatto, Charlie era una tipa da gattabuia, sicuramente. “L’avete fatta andare in prigione?” feci eco incuriosita.

“Già. Io e i miei compagni ci eravamo distratti, e lei, per rimediare al nostro sbaglio, ha dovuto far esplodere la base di un gruppo terroristico in Bosnia-Erzegovina, mandando a fuoco metà città. Da allora ha preferito mettersi, diciamo… in proprio.” Ridacchiò sulle ultime parole. Non mi stupiva il fatto che Emily un tempo fosse in squadra con Charlotte, anche lei sembrava una ragazzaccia.

“Eravate solo voi due?” domandai. “Oh, no. C’erano anche Gabriel e Kait.” Rispose in fretta. “Loro due sono stati trasferiti a New York, ora.” Aggiunse. Aprii la bocca ma lei ricominciò subito a parlare. “Bè, ti auguro buona fortuna. Non è facile stare in squadra con Charlie, quindi in bocca al lupo!” poi schizzò via esattamente come aveva fatto Jess.

Il sole di Miami doveva aver bruciato il cervello a tutti i suoi abitanti, Emily non mi aveva nemmeno chiesto il mio nome! Sbuffai e mi tastai le tasche in cerca del cellulare, non trovando però niente. Che idiota! L’avevo lasciato assieme a tutta la mia borsa nell’ufficio di Smith. Ripercorsi tutti i corridoi a ritroso, mano a mano scendevo c’era sempre meno gente, e i pochi che incontravo erano tristi e depressi signori delle pulizie

. Arrivata nel primo corridoio notai che i muri erano scrostati e c’era un odore di muffa alquanto sgradevole. Alzai gli occhi al cielo e affrettai il passo. Se non fossi stata impegnata a fissare l’interessantissimo soffitto, di sicuro non avrei urtato una persona che correva, e non sarei caduta per terra rovinosamente.

Quando fui sicura che non ero morta, o che non mi ero rotta niente; aprii gli occhi e per un terribile momento non mi resi conto di essere a cavalcioni su qualcosa, o piuttosto qualcuno. Grazie a Dio avevo la capacità di mantenere freddo il mio aspetto esteriore, ma dentro di me avvampai. Ero sopra ad un ragazzo, un bel ragazzo.

Che dico: uno schianto! Ero un disastro ambulante, il primo giorno di lavoro avevo steso un povero tizio che era capitato al momento sbagliato nel posto sbagliato. “Ciao.” Ridacchiò lui facendomi venire un mini infarto. Dio, che sorriso… “Scusa, mi dispiace tanto…” dissi alzandomi subito in piedi. “Non è niente, tranquilla.” Si rialzò anche lui e notai che era un dieci centimetri più alto di me.

Eppure doveva avere più o meno la mia stessa età. “Quanti anni hai?” chiesi prima di mordermi la lingua. “Diciassette.” Rispose pulendosi la t-shirt sgualcita. “Il… il capo Augh è libero?” domandai sperando di riuscire a stare da sola con i miei pensieri, ripensando alla figuraccia appena fatta. “Io non andrei da lui adesso. E’ piuttosto arrabbiato. Però mi ha detto di dare a quella nuova questa.” Mi porse la mia borsa, non mi ero accorta che l’avesse in mano.

“Grazie mille.” La afferrai velocemente. “Ho messo dentro anche il tuo cellulare.” Comunicò. Sorrisi poco convinta. “Non so come ringraziarti, davvero. E mi dispiace tanto per esserti caduta addosso. Non lo faccio apposta, ma sono sbadata…  Sai, non si direbbe che io sia una spia, insomma…” cominciai a blaterale a vuoto, come facevo sempre quando ero agitata.

“Ehi, ehi! Frena!” mi prese per le spalle. “Una cosa alla volta. Come ti chiami?” chiese divertito. “Emma, Emma Valenti. Tu?” domandai. “Ascolta, mi presenterò un’altra volta, ok? Sono nei guai fino al collo ora, devo proprio scappare. Ciao Emma! Ci si vede in giro!” disse prima di sparire dietro l’angolo. Digrignai i denti: era la quarta persona che mi piantava in asso quel giorno. Era ufficiale: la gente di Miami era completamente fuori di testa.

La notte non riuscii a dormire. L’aria condizionata era fuori uso perché mio padre insisteva a voler fare tutto da solo, e non si era sognato minimamente di contattare il servizio clienti. Inoltre continuavo a ripensare alla giornata appena trascorsa, una giornata davvero strana.

Alla fine Morfeo mi accolse tra le sue braccia, ma la sveglia suonò troppo presto per i miei gusti; così fui costretta ad alzarmi. Guardai il termometro in cucina, fuori c’erano trentacinque gradi con umidità al 89%. Gemetti: fantastico, non avrei nemmeno fatto in tempo ad asciugarmi dopo la doccia, che sarei già stata bagnata.

Mi infilai per una decina di minuti sotto il getto caldo e quando uscii asciugai in fretta i capelli con il phon. Indossai un semplice paio di pantaloncini della tuta e una canottiera bianca che aveva perso la sua forma originaria. Uscii attenta a non svegliare i miei, dato che l’estate era appena iniziata si erano presi un paio di settimane di ferie, a differenza mia, che dovevo lavorare a tempo pieno per tutto l'anno.

Presi un pullman al volo ed arrivai dopo un quarto d’ora alla base. Quando entrai c’era ancora il tizio del giorno prima, che si limitò a grugnire un saluto e poi mi fece entrare di malavoglia. Questa volta non sbagliai: presi sicura il corridoio a sinistra e poi mi feci tre piani a piedi, arrivando dritta nell’affollatissimo atrio principale.

Un nugolo di ragazzi stazionava davanti ad un enorme schermo piatto, sul quale erano proiettate delle tabelle contenenti vari nomi. “Sono le nuove squadre.” Disse una voce femminile con un forte accento del sud. “Emily!” esclamai girandomi di scatto e abbracciandola senza sapere bene perché.

Forse ero soltanto felice di riconoscere una faccia amica. “Ciao sorella.” Mi salutò. Ci facemmo spazio fra tutti e cominciammo a scorrere i vari elenchi. Sapevo già con chi sarei stata in squadra, ma era meglio controllare. “Wilde, Miller, Valenti e Johnson.” Sussurrai leggendo i nomi della settima colonna. “Bè, sei stata abbastanza fortunata. Io sono capitata con quelle oche di Lola e Sarah.” Borbottò Emily arricciando il naso disgustata. Non sapevo chi fossero, ma probabilmente erano le classiche ragazze di Miami, quelle perfettine e snob.

Individua Jesse con Charlotte, all’entrata della grande stanza, e li raggiunsi sorridente. “Ciao.” Salutai. Lei mi gelò con un’occhiata, mentre il ragazzo mi diede un abbraccio veloce. “Cosa si fa oggi?” chiesi cominciando a dondolarmi da un piede all’altro.

“Stamattina addestramento, oggi pomeriggio simulazione di attacco.” Spiegò il biondo. “Cosa è la simulazione di attacco?” domandai confusa. “Ci dividiamo in due gruppi: uno fa “gli invasori”, l’altro “i protettori” della base. E’ divertente.” Disse Charlotte, rimasi stupita dal fatto che mi avesse rivolto la parola senza insultarmi; infondo io non avevo niente contro di lei.

“Ehi Wilde! Augh è infuriato!” gridò una voce maschile. Charlie sgranò gli occhi e poi scoppiò a ridere.” Finalmente sei arrivato!” esclamò abbracciando un ragazzo. Lo guardai bene. O no. No, no, no. Era lui. Quello del corridoio. Quando la ragazza si staccò lui mi vide e sorrise. “Oh, la tipa del corridoio!” ridacchiò. “Vi conoscete?” si informò Jess.

“Ciao Jess!” il tipo gli diede una pacca sulle spalle. “Ciao compagno…” rispose lui dandogli scherzosamente un pugno sulla schiena. “Ehm… più o meno…” dissi a mezza voce. “In  che senso?” ribadì Jesse divertito. “E’ una lunga storia. Te la racconterò in un altro momento. Comunque io mi chiamo Daniel Johnson, scusa se ieri sono scappato, ma la mia vita era in pericolo.” Tornò  a rivolgersi a me.

“Per colpa sua.” Puntò un dito contro Charlotte, che incrociò le braccia al petto. “Certo, è sempre colpa mia. Sei tu che ti sei fatto beccare in armeria.” Si difese. “Tu dovevi fare da palo!” la accusò. “Mi stavo annoiando, ok? E poi cosa sarà mai, soltanto la solita ramanzina di Augh… Sai che tragedia.” Borbottò stizzita. “Lasciamo perdere.” Tagliò corto il biondo, visibilmente irritato dai battibecchi dei suoi compagni.

“ Quindi siamo noi, la squadra numero sette.” Commentai. “Sei perspicace Sherlok.” Osservò Charlie. La fulminai con un’occhiataccia.” Dovremmo trovare un nome.” Constatò Daniel. “Io ho già un nome, e sono sicura che piacerà a tutti.” Comunicò la ragazza, con un sorriso enigmatico stampato sulle labbra carnose.

“Ci chiameremo squadra Alfa.” Disse con enfasi.

La guardai: modesta, non c’era che dire. 

 

 

 

  
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