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Autore: Eryca    05/07/2012    6 recensioni
Era colpevole di aver donato tutta la sua anima alla musica.
Non c’era persona più colpevole di lei.
Era colpevole anche in quel momento, mentre tutti sapevano ciò che stava per accadere, ma nessuno aveva il coraggio di dire nulla o muovere anche solo un muscolo.
C’era musica nell’aria, lei la sentiva.
Loro la sentivano.
Vita.

****
C'è Anne, con i suoi demoni del passato e la sua maschera perenne. Ha un sogno.
C'è Davide, con la sua purezza d'animo. Ha un sogno.
C'è Matteo, con la sua spavalderia e il suo disinteresse. Ha un sogno.
C'è Riccardo, con le sue dipendenze, le sue paure e le sue bugie. Ha un sogno.
Un sogno.
Hanno tutti lo stesso sogno.
La musica.
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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3.

Colpevole

 

 

 

 

For the music is your special friend
Dance on fire as it intends
Music is your only friend
Until the end
Until the end
Until the end

The Doors, “When the Music’s Over”

 

 

 

 

 

 

Davide alzò i suoi grandi occhi in tempesta e incontrò quelli di una riccia che sembrava esplodere dalla follia, cosa che lo affascinava estremamente.

Era lei.

Era la tipa della sera precedente, quella che lo aveva fatto dannare, quella che conosceva il significato della parola “musica” e lo comprendeva anche.

Pensò che avrebbe dovuto dire qualcosa di così tosto che la ragazza non avrebbe aspettato altro che sedersi al tavolo con lui, per mettersi a discutere su quale fosse il sottogenere del rock più forte, quale meno d’impatto.

Ma Davide non era uno che diceva cose toste; era piuttosto il tizio che amava fare casino, stonarsi, quel “bello e dannato” che incantava le ragazze ma poi non aveva niente di interessante da offrire, se non la lista dei cento chitarristi più bravi al mondo. Forse era per quel motivo che le sue relazioni non erano mai andate in porto, se non per una scopata o due.

Ma adesso non stava pensando ad altro se non a chiacchierare di musica con quella ragazzetta.

Per un istante, si soffermò sulle caratteristiche fisiche di lei: aveva una massa di capelli rossi indomabili che le davano un’aria ribelle, ma allo stesso tempo la sfiguravano, nascondendole il viso dai lineamenti dolci; portava una maglietta slabbrata dei Ramones, che cadeva morbida sui suoi larghi pantaloni di jeans.

Era una di quelle ragazze nella media, che non noti per strada: non era brutta, non era bella.

Carina, si disse Davide soffermandosi sul culo della rossa che, a differenza del resto, valeva dieci e lode.

«Ehi!» la chiamò, cercando di attirare la sua attenzione.

La ragazza si girò, l’espressione del viso altezzosa di chi non ha tempo da perdere, un sopracciglio inarcato come a dire “Che cazzo vuoi, adesso?” e una mano sul fianco.

Questa tipa è tosta.

Il tipo che stava dietro di lei sembrava appena uscito da un salone di bellezza, ma allo stesso tempo riusciva a risultare convinto di sé stesso; indossava una felpa dei Guns N’ Roses: bingo, pensò Davi, un altro.

I due si avvicinarono al loro tavolo e Davide si sentì emozionato come un bambino non appena riceve una bicicletta in regalo, forse perché era da troppo tempo che attendeva di fare una discussione come si deve con qualcuno che non fosse Ricca.

Ricca che sembrava essersi incantato sul ragazzo dall’aria curata.

La rossa appoggiò un gomito sul tavolo, in una posizione a novanta gradi che fece venire a Davide strane idee.

«Che cazzo vuoi da me? » domandò con un sorriso, come se gli avesse appena chiesto di offrirle un drink o di accompagnarla a casa per una scopata.

Adesso, si disse, adesso devi dire una frase d’effetto.

Ma lui non stava pensando a nessuna stupidissima frase ad effetto, perché quella non era una commedia con Hugh Grant e Cameron Diaz che si incontrano in un parco e si baciano al chiaro di luna; quella era la fottutissima realtà e lui smaniava per chiederle se secondo lei i padri del Classic Rock erano i Doors o i Velvet Underground.

Si sarebbe accontentato di poco.

«I Doors.» disse infine, un solo nome, un cenno con la testa ad invitarla a sedersi.

Lei sembrò confusa, si girò verso il suo amico quasi a volergli domandare silenziosamente cosa ne pensasse di questo maniaco che continuava a tormentarla e che adesso se ne usciva con il nome di una band a casaccio.

Ma doveva rispondergli.

Doveva. Altrimenti Davide si sarebbe definitivamente rotto il cazzo della musica, avrebbe smesso di inseguire quel suo stupido sogno e si sarebbe messo a lavorare sul serio, avrebbe messo su famiglia e sposato una donna a cui sarebbe venuto il seno cadente e la pancia flaccida.

Se non avesse risposto alla sua domanda, avrebbe smesso con il rock.

Non si rendeva conto del perché proprio quella ragazza dovesse avere un ruolo tanto significativo nel prendere una scelta così importante per la sua vita, anche se sentiva nel profondo che quella sarebbe stata l’ennesima sconfitta nel mondo della musica; era come una metafora: la ragazzina con la maglia dei Ramones era paragonabile ad un’Etichetta discografica che rifiutava di metterlo sotto contratto.

Rispondimi, ti prego.

«I Doors sono la storia del rock, hanno dato inizio a tutto. Altro che Beatles!»

Mentre lei si sedeva e il suo amico prendeva una sedia mettendosi al tavolo anch’egli, Davide sentì che un sorriso si stava aprendo sul suo volto, anche se non lo voleva, anche se avrebbe voluto fare la figura del ragazzo misterioso che non ride mai.

La cameriera arrivò e prese le ordinazioni dei due nuovi clienti: coca cola e patatine fritte.

Non dovevano avere più di diciannove anni, probabilmente frequentavano ancora il liceo, perché non aveva ancora quell’espressione rassegnata sul volto, quella che era nata in Davide tanti anni prima; non avevano ancora quegli occhi privi di spirito di iniziativa, perché quel verde smeraldo che popolava le iridi della rossa era ancora colmo di sogni e speranze.

Era ancora una ragazzina.

Anche Davi, anni prima, aveva la mente ricca di obiettivi e, invece di ascoltare le lezioni della scuola professionale, si concentrava sull’assolo di chitarra elettrica che avrebbe voluto fare, davanti ad un migliaio di persone.

Poi aveva preso la maturità con un calcio nel culo, era uscito e si era reso conto che la vita non era proprio come aveva pensato: non c’era un gruppo di persone con carta e penna, pronti ad aspettarlo per fargli firmare il suo primo contratto. Non c’era nemmeno più suo padre ad aiutarlo, troppo avido per continuare a mantenerlo.

Si era dovuto confrontare con la vita reale, con il vivere da solo perché i tuoi genitori non sono più obbligati a mantenerti, con il lavoro quotidiano, l’affitto mensile e la vicina di casa che urla di pulire le scale, una volta tanto.

Ma quel giorno, aveva voglia di sentirsi ancora un po’ bambino.

«No, dai! E i Velvet Underground, dove li metti?» intervenne Riccardo, visibilmente eccitato dal dibattito appena nato.

Tutto, in quel tavolino, sembrava avere finalmente iniziato a vivere.

Forse se qualcuno avesse potuto leggere nella mente di Davide avrebbe pensato che fosse un esagerato, che respirava anche prima, mentre montava il tergicristallo di quella vecchia Uno grigia. Ma loro non potevano capire, non potevano sapere.

Perché Davide non respirava.

Davide viveva con il fiato corto, con il setto nasale deviato, con i polmoni atrofizzati, con la vista annebbiata.

Ma in quel momento, sentì che stava davvero smettendo di agonizzare e iniziando a inspirare.

Inspirare. Espirare.

Non sembrava troppo difficile, in fondo, se c’era la vita a contornarlo, se c’erano persone con il cuore che batteva non perché così doveva essere, ma perché desideravano disperatamente sentirlo pulsare, perché si aggrappavano alla vita e gioivano per essa.

Vivevano.

Perché, in quel tavolino, tutto sembrava avere finalmente iniziato a vivere.

La musica era vita.

Davide respirò.

 

 

****

 

 

 

Anne guardò uno ad uno i compagni che aveva appena acquistato: i loro occhi brillavano di una luce diversa da quella che si accende la sera quando è buio, ma più simile a quella che si intravede filtrare dalle tende della finestra, la mattina appena svegli.

Vita.

Aveva dato del maniaco, la sera precedente, ad un ragazzo che in realtà condivideva quel suo modo di vedere il mondo, la vita, le cose. Di respirare.

Quel modo che era la musica.

Non appena il ragazzo dagli occhi chiari aveva pronunciato il nome della band più strepitosa di tutti i tempi, il suo cuore aveva preso a battere all’impazzata, perché si era appena reso conto  ̶  senza l’approvazione del cervello  ̶  che aveva trovato un nuovo compagno di giochi.

Così le sue gambe avevano camminato senza di lei, i suoi piedi si erano fermati senza che la sua mente glielo ordinasse, la sua bocca aveva parlato senza che lei potesse frenarla.

Vita.

«Suoni?» chiese improvvisamente il maniaco, interrompendo lo sproloquio che il suo amico stava tenendo.

Una domanda. Rivolta a lei.

Era una semplice domanda, non era difficile rispondere, eppure sentiva che la voce non riusciva a uscire, perché… era emozionata.

Nessuno avrebbe mai compreso, avrebbero tutti detto che era pazza, che non poteva commuoversi nel sentirsi domandare una cosa del genere, eppure il suo corpo aveva reagito senza che lei potesse fare nulla.

Le era venuta la pelle d’oca.

Le era venuta la pelle d’oca perché sapeva cosa quel quesito comportasse.

Lei sapeva.

Lui sapeva.

Vita.

«Canto.»

Gli occhi del ragazzo si spalancarono per un attimo solo, prima di luccicare nuovamente, con quello sprizzo di vita che solo i quattro ragazzi in quel tavolo poteva comprendere fino in fondo.

La testa scura si rivolse a Matteo, che subito si rese conto della domanda implicita che il ragazzo gli stava rivolgendo.

Anne non sentiva più niente se non il suo sangue scorrere impazzito, come stesse facendo a gara con il respiro: vinceva chi andava più veloce.

Afferrò il bicchiere di vetro davanti a lei e prese a sorseggiare la Coca Cola, quasi fosse un tic, un’azione che non poteva evitare di fare, perché da quella bevanda dipendeva tutta la sua vita.

Da quella conversazione dipendeva tutta la sua vita.

«Chitarra Basso.»

Le parole di Matteo si persero nell’aria, ma rimasero impresse nella mente di ognuno di loro, come se da esse potesse scaturire il buco nell’ozono, la pace nel mondo, la guerra con gli alieni.

Vita.

Tutto era diventato vita. Tutti i sospiri, tutti gli sguardi, tutti i silenzi, gli attimi di condivisione, perché ogni piccolo segno di vita voleva significare che loro non erano lì perché le loro madri li avevano messi al mondo.

Loro erano lì perché erano in vita.

Fu il ragazzo dai capelli verdi a parlare. «Batteria.»

Vita vita vita vita.

Si sentiva un po’ come un albero che dipende dalla fotosintesi, con la linfa che scorre nelle sue nervature, con quella vita che faceva nascere i frutti, nuove vite.

Ora non sentiva più le urla dei vecchietti che se ne stavano seduti in quella bettola, intenti a guardare il telegiornale. Vide il proprietario del bar con indosso uno strambo grembiule spiegante che “il cuoco più sexy del mondo” era proprio lui.

Anche quel rumore che fuoriusciva dalle casse, e che doveva essere musica, scomparve dalla mente di Anne, che non riusciva più a sentire niente.

Niente se non ciò che stava accadendo intorno a quel tavolino.

Vita.

«Chitarra Elettrica, Acustica e Canto.» spiegò infine il maniaco, guardando dritto nei suoi occhi.

Sentì che si sarebbe potuta perdere in quell’oceano azzurro che l’aveva catturata, impedendole di girare lo sguardo verso qualcos’altro che non fossero quegli occhi.

Vita.

Si liberò da quella gabbia celeste e prese a scrutare uno ad uno i suoi compari, proprio come se stesse cercando di individuare un assassino, un colpevole.

Lei era colpevole.

Colpevole di essersi innamorata di un essere che non intendeva sentirsi respingere, che poteva essere placato solo con il sangue, solo donandogli l’anima, per sentirsi completamente assuefatti ad esso, senza potersi sottrarsi, senza volersi sottrarsi.

Colpevole.

Era colpevole di non essersi alzata da quel tavolo e aver iniziato a correre lontano da quel bar, da quelle sensazioni, da quei tre ragazzi che ormai l’avevano legata a loro, per sempre.

Colpevole.

Era colpevole di aver rovinato i piani di Matteo, che voleva starsene in casa sua tutto il giorno per suonare un po’, e invece l’aveva fatto uscire, l’aveva fatto andare dentro a quel locale, dove si erano incatenati a due perfetti estranei, per sempre.

Colpevole.

Era colpevole di non aver ascoltato sua madre, di non essere rimasta in camera sua, il libro aperto sulla scrivania a studiare una di quelle tante materie inutili che le avrebbero fatto prendere un pezzo di carta utile per fare qualsiasi cosa nella vita.

Colpevole.

Era colpevole di essere sé stessa, di non poter fare semplicemente quello che le persone le consigliavano, di non poter dire “sì”, di non poter rimanere in casa a studiare, di non poter lasciare Matteo solo a vegetare, di non poter alzarsi dal tavolo e correre, di essersi innamorata.

Era colpevole di aver donato tutta la sua anima alla musica.

Non c’era persona più colpevole di lei.

Era colpevole anche in quel momento, mentre tutti sapevano ciò che stava per accadere, ma nessuno aveva il coraggio di dire nulla o muovere anche solo un muscolo.

C’era musica nell’aria, lei la sentiva.

Loro la sentivano.

Vita.

Poteva udire il silenzio trasformarsi in un grido acuto, in un pianto disperato, in un urlo di gioia; sentiva il rumore dei bicchieri mutarsi in un do acuto, in una richiesta di aiuto, in un’indulgenza.

Ogni cosa, in quel momento, stava girando attorno alla musica.

Anne stracciò un pezzo di quella tovaglia di carta, una di quelle che si trovano al discount per pochi denari o  ̶  come stava pensando Riccardo, anche se lei non poteva saperlo  ̶  al Supermercatino.

Aprì la borsa rovinata e prese a rovistare in quella confusione che solo lei riusciva a creare, finché non trovo ciò che stava cercando: l’astuccio per i trucchi.

I ragazzi la guardavano incuriositi, intimoriti di fare anche solo una semplice domanda, spaventati dall’interrompere quel momento di condivisione assoluta, dove anche ciò che stava facendo Anne aveva un senso.

Fece scorrere la cerniera lampo del beauty case e si rese conto che aveva tutti gli occhi puntati addosso, come se stesse aprendo una bomba a mano, in uno di quei film hollywoodiani.

Tirò fuori un il rossetto che era solita applicare sulle sue labbra, nelle serate brave della sua giovinezza, e prese a scrivere una serie di cifre sul pezzo di tovaglia.

Tutti loro sapevano cosa stava a significare.

C’era musica nell’aria.

Schiaffò il biglietto sul tavolo, proprio sotto al viso di Davide  ̶  un viso che era bello come pochi  ̶  e guardò dentro a quegli occhi azzurri  ̶  quegli splendidi occhi azzurri.

Tutti stavano aspettando la sua prossima mossa.

C’era musica nell’aria.

Si alzò dal tavolo  ̶  seguita a ruota di scorta da Matteo, che sembrava essere realmente interessato al ragazzo dalla cresta verde  ̶  e puntò di nuovo il suo sguardo in quello del maniaco.

«Io sono Anne. Lui è Matteo.» il tono di voce neutro «Quello è il mio numero di telefono, chiamami e ci metteremo d’accordo per il prossimo incontro.»

Tutti sapevano cosa stava a significare.

Non erano in cerca di un appuntamento, di una scopata, di una storia d’amore; non stavano pensando all’attrazione fisica, alla pelle contro la pelle.

C’era musica nell’aria.

«Io sono Davide.» disse il “maniaco” «e lui è Riccardo.», il ragazzo dal crestino verde salutò con un’espressione del viso divertita.

«E ti chiamerò.»

Sul viso di Anne apparve un sorrisetto sghembo, uno di quelli che le uscivano fuori solo quando sapeva di aver ottenuto esattamente quello che voleva, quando sapeva di aver vinto.

Girò sui tacchi, senza accertarsi che il suo migliore amico fosse dietro di lei, perché sapeva che era dietro di lei, sempre e comunque.

Tutti sapevano che si era appena verificato uno di quei cambiamenti che accadono una volta su mille, nella vita.

Si era appena creata una nuova rock band.

 

Colpevole.

 

 

****

 

Eccomi qua, ragazzi.

Questo capitolo è quello che da la svolta alla storia: si è formato finalmente il gruppo, composto dai nostri quattro protagonisti.

Vorrei farvi soffermare sulle considerazioni personali di Anne, perché sono le mie: esattamente, è ciò che penso io quando canto. Sorpresa! Si, canto. Beh, era un po’ impossibile, altrimenti, scrivere una storia del genere senza sentire la musica un po’ personale.

Ma, in fondo, lo si può benissimo fare anche solo ascoltando una canzone allo stereo: la musica è patrimonio di chiunque.

 

Ok, dopo questo piccolo svarione vi chiedo di recensire se leggete, perché mi farebbe davvero un immenso piacere conoscere i vostri pareri su questa storia, altrimenti non saprei proprio se piace oppure meno.

Un abbraccio,

Eryca.

 

 

 

 

 

   
 
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