3.
Colpevole
For the music is your
special friend
Dance on fire as it intends
Music is your only friend
Until the end
Until the end
Until the end
The Doors, “When the Music’s Over”
Davide
alzò i suoi grandi occhi in tempesta e incontrò quelli di una riccia
che
sembrava esplodere dalla follia, cosa che lo affascinava estremamente.
Era
lei.
Era
la tipa della sera precedente, quella che lo aveva fatto dannare,
quella che conosceva il
significato della parola
“musica” e lo comprendeva anche.
Pensò
che avrebbe dovuto dire qualcosa di così tosto che la ragazza non
avrebbe
aspettato altro che sedersi al tavolo con lui, per mettersi a discutere
su
quale fosse il sottogenere del rock più forte, quale meno d’impatto.
Ma
Davide non era uno che diceva cose toste; era piuttosto il tizio che
amava fare
casino, stonarsi, quel “bello e dannato” che incantava le ragazze ma
poi non
aveva niente di interessante da offrire, se non la lista dei cento
chitarristi
più bravi al mondo. Forse era per quel motivo che le sue relazioni non
erano
mai andate in porto, se non per una scopata o due.
Ma
adesso non stava pensando ad altro se non a chiacchierare di musica con
quella ragazzetta.
Per
un istante, si
soffermò sulle caratteristiche
fisiche di lei: aveva una massa di capelli rossi indomabili che le
davano
un’aria ribelle, ma allo stesso tempo la sfiguravano, nascondendole il
viso dai
lineamenti dolci; portava una maglietta slabbrata dei Ramones, che cadeva morbida sui
suoi larghi pantaloni di
jeans.
Era
una di quelle ragazze nella media, che non noti per strada: non era
brutta, non
era bella.
Carina,
si
disse Davide soffermandosi sul culo della rossa che, a differenza del
resto,
valeva dieci e lode.
«Ehi!»
la chiamò, cercando di attirare la sua attenzione.
La
ragazza si girò, l’espressione del viso altezzosa di chi non ha tempo
da
perdere, un sopracciglio inarcato come a dire “Che cazzo vuoi, adesso?”
e una
mano sul fianco.
Questa
tipa è tosta.
Il
tipo che stava dietro di lei sembrava appena uscito da un salone di
bellezza,
ma allo stesso tempo riusciva a risultare convinto di sé stesso;
indossava una
felpa dei Guns N’ Roses: bingo,
pensò
Davi, un altro.
I
due si avvicinarono al loro tavolo e Davide si sentì emozionato come un
bambino
non appena riceve una bicicletta in regalo, forse perché era da troppo
tempo
che attendeva di fare una discussione come si deve con qualcuno che non
fosse
Ricca.
Ricca
che
sembrava essersi incantato sul ragazzo dall’aria curata.
La
rossa appoggiò un gomito sul tavolo, in una posizione a novanta gradi
che fece
venire a Davide strane idee.
«Che
cazzo vuoi da me? » domandò con un sorriso, come se gli avesse appena
chiesto
di offrirle un drink o di accompagnarla a casa per una scopata.
Adesso,
si
disse, adesso devi dire una frase
d’effetto.
Ma
lui non stava pensando a nessuna stupidissima frase ad effetto, perché
quella
non era una commedia con Hugh Grant e Cameron Diaz che si incontrano in
un
parco e si baciano al chiaro di luna; quella era la fottutissima realtà
e lui
smaniava per chiederle se secondo lei i padri del Classic Rock erano i
Doors o
i Velvet Underground.
Si
sarebbe accontentato di poco.
«I
Doors.» disse infine, un solo nome, un cenno con la testa ad invitarla
a
sedersi.
Lei
sembrò confusa, si girò verso il suo amico quasi a volergli domandare
silenziosamente cosa ne pensasse di questo
maniaco che continuava a tormentarla e che adesso se ne
usciva con il nome
di una band a casaccio.
Ma
doveva rispondergli.
Doveva.
Altrimenti Davide si sarebbe definitivamente rotto il cazzo della
musica,
avrebbe smesso di inseguire quel suo stupido sogno e si sarebbe messo a
lavorare sul serio, avrebbe messo su famiglia e sposato una donna a cui
sarebbe
venuto il seno cadente e la pancia flaccida.
Se
non avesse risposto alla sua domanda, avrebbe smesso con il rock.
Non
si rendeva conto del perché proprio quella ragazza dovesse avere un
ruolo tanto
significativo nel prendere una scelta così importante per la sua vita,
anche se
sentiva nel profondo che quella sarebbe stata l’ennesima sconfitta nel
mondo
della musica; era come una metafora: la ragazzina con la maglia dei
Ramones era
paragonabile ad un’Etichetta discografica che rifiutava di metterlo
sotto
contratto.
Rispondimi,
ti prego.
«I
Doors sono la storia del rock, hanno dato inizio a tutto. Altro che
Beatles!»
Mentre
lei si sedeva e il suo amico prendeva una sedia mettendosi al tavolo
anch’egli,
Davide sentì che un sorriso si stava aprendo sul suo volto, anche se
non lo voleva,
anche se avrebbe voluto fare la figura del ragazzo misterioso che non
ride mai.
La
cameriera arrivò e prese le ordinazioni dei due nuovi clienti: coca
cola e
patatine fritte.
Non
dovevano avere più di diciannove anni, probabilmente frequentavano
ancora il
liceo, perché non aveva ancora quell’espressione rassegnata sul volto,
quella
che era nata in Davide tanti anni prima; non avevano ancora quegli
occhi privi
di spirito di iniziativa, perché quel verde smeraldo che popolava le
iridi
della rossa era ancora colmo di sogni e speranze.
Era
ancora una ragazzina.
Anche
Davi, anni prima, aveva la mente ricca di obiettivi e, invece di
ascoltare le
lezioni della scuola professionale, si concentrava sull’assolo di
chitarra
elettrica che avrebbe voluto fare, davanti ad un migliaio di persone.
Poi
aveva preso la maturità con un calcio nel culo, era uscito e si era
reso conto
che la vita non era proprio come aveva pensato: non c’era un gruppo di
persone
con carta e penna, pronti ad aspettarlo per fargli firmare il suo primo
contratto. Non c’era nemmeno più suo padre ad aiutarlo, troppo avido
per
continuare a mantenerlo.
Si
era dovuto confrontare con la vita reale, con il vivere da solo perché
i tuoi
genitori non sono più obbligati a mantenerti, con il lavoro quotidiano,
l’affitto mensile e la vicina di casa che urla di pulire le scale, una
volta
tanto.
Ma
quel giorno, aveva voglia di sentirsi ancora un po’ bambino.
«No,
dai! E i Velvet Underground, dove li metti?» intervenne Riccardo,
visibilmente
eccitato dal dibattito appena nato.
Tutto,
in quel tavolino, sembrava avere finalmente iniziato a vivere.
Forse
se qualcuno avesse potuto leggere nella mente di Davide avrebbe pensato
che
fosse un esagerato, che respirava anche prima, mentre montava il
tergicristallo
di quella vecchia Uno grigia. Ma loro non potevano capire, non potevano
sapere.
Perché
Davide non respirava.
Davide
viveva con il fiato corto, con il setto nasale deviato, con i polmoni
atrofizzati, con la vista annebbiata.
Ma
in quel momento, sentì che stava davvero smettendo di agonizzare e
iniziando a inspirare.
Inspirare.
Espirare.
Non
sembrava troppo difficile, in fondo, se c’era la
vita a contornarlo, se c’erano persone con il cuore che
batteva
non perché così doveva essere, ma perché desideravano
disperatamente sentirlo pulsare, perché si aggrappavano alla
vita e
gioivano per essa.
Vivevano.
Perché,
in quel tavolino, tutto sembrava avere finalmente iniziato a vivere.
La
musica era vita.
Davide
respirò.
****
Anne
guardò uno ad uno i compagni che aveva appena acquistato: i loro occhi
brillavano di una luce diversa da quella che si accende la sera quando
è buio,
ma più simile a quella che si intravede filtrare dalle tende della
finestra, la
mattina appena svegli.
Vita.
Aveva
dato del maniaco, la sera precedente, ad un ragazzo che in realtà
condivideva
quel suo modo di vedere il mondo, la vita, le cose. Di respirare.
Quel
modo che era la musica.
Non
appena il ragazzo dagli occhi chiari aveva pronunciato il nome della
band più
strepitosa di tutti i tempi, il suo cuore aveva preso a battere
all’impazzata,
perché si era appena reso conto ̶ senza l’approvazione del
cervello ̶ che
aveva trovato un nuovo compagno di giochi.
Così
le sue gambe avevano camminato senza di lei, i suoi piedi si erano
fermati
senza che la sua mente glielo ordinasse, la sua bocca aveva parlato
senza che
lei potesse frenarla.
Vita.
«Suoni?»
chiese improvvisamente il maniaco, interrompendo
lo sproloquio che il suo amico stava tenendo.
Una
domanda. Rivolta a lei.
Era
una semplice domanda, non era difficile rispondere, eppure sentiva che
la voce
non riusciva a uscire, perché… era
emozionata.
Nessuno
avrebbe mai compreso, avrebbero tutti detto che era pazza, che non
poteva
commuoversi nel sentirsi domandare una cosa del genere, eppure il suo
corpo
aveva reagito senza che lei potesse fare nulla.
Le
era venuta la pelle d’oca.
Le
era venuta la pelle d’oca perché
sapeva cosa quel quesito comportasse.
Lei
sapeva.
Lui
sapeva.
Vita.
«Canto.»
Gli
occhi del ragazzo si spalancarono per un attimo solo, prima di
luccicare
nuovamente, con quello sprizzo di vita che solo i quattro ragazzi in
quel
tavolo poteva comprendere fino in fondo.
La
testa scura si rivolse a Matteo, che subito si rese conto della domanda
implicita
che il ragazzo gli stava rivolgendo.
Anne
non sentiva più niente se non il suo sangue scorrere impazzito, come
stesse
facendo a gara con il respiro: vinceva chi andava più veloce.
Afferrò
il bicchiere di vetro davanti a lei e prese a sorseggiare la Coca Cola,
quasi
fosse un tic, un’azione che non poteva evitare di fare, perché da
quella
bevanda dipendeva tutta la sua vita.
Da
quella conversazione dipendeva
tutta la sua vita.
«Chitarra
Basso.»
Le
parole di Matteo si persero nell’aria, ma rimasero impresse nella mente
di
ognuno di loro, come se da esse potesse scaturire il buco nell’ozono,
la pace
nel mondo, la guerra con gli alieni.
Vita.
Tutto
era diventato vita. Tutti i sospiri, tutti gli sguardi, tutti i
silenzi, gli
attimi di condivisione, perché ogni piccolo segno di vita voleva
significare
che loro non erano lì perché le loro madri li avevano messi al mondo.
Loro
erano lì perché erano in vita.
Fu
il ragazzo dai capelli verdi a parlare. «Batteria.»
Vita
vita vita vita.
Si
sentiva un po’ come un albero che dipende dalla fotosintesi, con la
linfa che
scorre nelle sue nervature, con quella vita
che faceva nascere i frutti, nuove
vite.
Ora
non sentiva più le urla dei vecchietti che se ne stavano seduti in
quella
bettola, intenti a guardare il telegiornale. Vide il proprietario del
bar con
indosso uno strambo grembiule spiegante che “il
cuoco più sexy del mondo” era proprio lui.
Anche
quel rumore che fuoriusciva dalle casse, e che doveva essere musica,
scomparve
dalla mente di Anne, che non riusciva più a sentire niente.
Niente
se non ciò che stava accadendo intorno a quel tavolino.
Vita.
«Chitarra
Elettrica, Acustica e Canto.» spiegò infine il maniaco, guardando
dritto nei
suoi occhi.
Sentì
che si sarebbe potuta perdere in quell’oceano azzurro che l’aveva
catturata,
impedendole di girare lo sguardo verso qualcos’altro che non fossero
quegli
occhi.
Vita.
Si
liberò da quella gabbia celeste e prese a scrutare uno ad uno i suoi
compari,
proprio come se stesse cercando di individuare un assassino, un
colpevole.
Lei
era colpevole.
Colpevole
di essersi innamorata di un essere che non intendeva sentirsi
respingere, che
poteva essere placato solo con il sangue, solo donandogli l’anima, per
sentirsi
completamente assuefatti ad esso, senza potersi sottrarsi, senza volersi sottrarsi.
Colpevole.
Era
colpevole di non essersi alzata da quel tavolo e aver iniziato a
correre
lontano da quel bar, da quelle sensazioni, da quei tre ragazzi che
ormai
l’avevano legata a loro, per sempre.
Colpevole.
Era
colpevole di aver rovinato i piani di Matteo, che voleva starsene in
casa sua
tutto il giorno per suonare un po’, e invece l’aveva fatto uscire,
l’aveva
fatto andare dentro a quel locale, dove si erano incatenati a due
perfetti
estranei, per sempre.
Colpevole.
Era
colpevole di non aver ascoltato sua madre, di non essere rimasta in
camera sua,
il libro aperto sulla scrivania a studiare una di quelle tante materie
inutili
che le avrebbero fatto prendere un pezzo di carta utile
per fare qualsiasi cosa nella vita.
Colpevole.
Era
colpevole di essere sé stessa, di non poter fare semplicemente quello
che le
persone le consigliavano, di non poter dire “sì”, di non poter rimanere
in casa
a studiare, di non poter lasciare Matteo solo a vegetare, di non poter
alzarsi
dal tavolo e correre, di essersi innamorata.
Era
colpevole di aver donato tutta
la sua anima alla musica.
Non
c’era persona più colpevole di lei.
Era
colpevole anche in quel momento, mentre tutti sapevano ciò che stava
per
accadere, ma nessuno aveva il coraggio di dire nulla o muovere anche
solo un
muscolo.
C’era
musica nell’aria, lei la sentiva.
Loro
la
sentivano.
Vita.
Poteva
udire il silenzio trasformarsi in un grido acuto, in un pianto
disperato, in un
urlo di gioia; sentiva il rumore dei bicchieri mutarsi in un do acuto,
in una
richiesta di aiuto, in un’indulgenza.
Ogni
cosa,
in quel momento, stava girando attorno alla musica.
Anne
stracciò un pezzo di quella tovaglia di carta, una di quelle che si
trovano al
discount per pochi denari o ̶ come stava pensando
Riccardo, anche se lei
non poteva saperlo ̶ al Supermercatino.
Aprì
la borsa rovinata e prese a rovistare in quella confusione che solo lei
riusciva a creare, finché non trovo ciò che stava cercando: l’astuccio
per i
trucchi.
I
ragazzi la guardavano incuriositi, intimoriti di fare anche solo una
semplice
domanda, spaventati dall’interrompere quel momento di condivisione
assoluta,
dove anche ciò che stava facendo Anne aveva un senso.
Fece
scorrere la cerniera lampo del beauty case e si rese conto che aveva
tutti gli
occhi puntati addosso, come se stesse aprendo una bomba a mano, in uno
di quei
film hollywoodiani.
Tirò
fuori un il rossetto che era solita applicare sulle sue labbra, nelle
serate
brave della sua giovinezza, e prese a scrivere una serie di cifre sul
pezzo di
tovaglia.
Tutti
loro sapevano cosa stava a significare.
C’era
musica nell’aria.
Schiaffò
il biglietto sul tavolo, proprio sotto al viso di Davide ̶
un
viso che era bello come pochi ̶ e guardò dentro a quegli
occhi azzurri ̶
quegli splendidi occhi
azzurri.
Tutti
stavano aspettando la sua prossima mossa.
C’era
musica nell’aria.
Si
alzò dal tavolo ̶ seguita a ruota di scorta
da Matteo, che
sembrava essere realmente interessato al ragazzo dalla cresta verde ̶
e
puntò di nuovo il suo sguardo in quello del maniaco.
«Io
sono Anne. Lui è Matteo.» il tono di voce neutro «Quello è il mio
numero di
telefono, chiamami e ci metteremo d’accordo per il prossimo incontro.»
Tutti
sapevano cosa stava a significare.
Non
erano in cerca di un appuntamento, di una scopata, di una storia
d’amore; non
stavano pensando all’attrazione fisica, alla pelle contro la pelle.
C’era
musica nell’aria.
«Io
sono Davide.» disse il “maniaco” «e lui è Riccardo.», il ragazzo dal
crestino
verde salutò con un’espressione del viso divertita.
«E
ti chiamerò.»
Sul
viso di Anne apparve un sorrisetto sghembo, uno di quelli che le
uscivano fuori
solo quando sapeva di aver ottenuto esattamente quello che voleva,
quando
sapeva di aver vinto.
Girò
sui tacchi, senza accertarsi che il suo migliore amico fosse dietro di
lei,
perché sapeva che era dietro di
lei,
sempre e comunque.
Tutti
sapevano che si era appena verificato uno di quei cambiamenti che
accadono una
volta su mille, nella vita.
Si
era appena creata una nuova rock
band.
Colpevole.
****
Eccomi
qua, ragazzi.
Questo
capitolo è quello che da la
svolta alla storia: si è formato finalmente il gruppo, composto dai
nostri
quattro protagonisti.
Vorrei
farvi soffermare sulle
considerazioni personali di Anne, perché sono le
mie: esattamente, è ciò che penso io quando canto. Sorpresa!
Si,
canto. Beh, era un po’ impossibile, altrimenti, scrivere una storia del
genere
senza sentire la musica un po’ personale.
Ma,
in fondo, lo si può benissimo fare
anche solo ascoltando una canzone allo stereo: la musica è patrimonio
di
chiunque.
Ok,
dopo questo piccolo svarione vi
chiedo di recensire se leggete, perché mi farebbe davvero un immenso piacere conoscere i vostri
pareri su questa storia, altrimenti non saprei proprio se piace oppure
meno.
Un
abbraccio,
Eryca.