Anime & Manga > Il mistero della pietra azzurra
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Autore: Puglio    06/07/2012    2 recensioni
Il capitolo finale del mio seguito di "Nadia: il mistero della pietra azzurra". Nadia è partita alla volta di Atlantide. Jean, in un ultimo disperato tentativo di ritrovarla, decide di rivolgersi all'unica persona che conosce abbastanza la cultura di Atlantide per aiutarlo... ma non è un'impresa facile. Ora è solo, e non può fare affidamento che sulle sue forze. Intanto, Winston scopre che la sua missione si fa sempre più complicata...
Genere: Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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«Garfish uno e due pronti all'azione, signore».

«Bene. Procedete».

Wiesbaden osservò con soddisfazione lo schermo del radar. Due puntini luminosi avevano cominciato a muoversi uno verso l'altro, spostandosi verso il centro dai margini dello schermo.

Winston ebbe un tremito. L'idea che per tutto il tragitto fossero stati scortati in segreto da una flottiglia di sottomarini, era per lui assolutamente sconcertante: non aveva mai realizzato che la forza militare a disposizione dell'Ordine fosse tanto soverchiante. Scoprirlo fu per lui un duro colpo. Era impensabile la squadra di cinquanta uomini guidata da Samuel, per quanto ben preparata, potesse aver ragione delle forze nemiche al completo. Da un certo punto di vista, la confessione di Lisa e l'apparente voltafaccia a cui era stato costretto per salvare le apparenze si erano rivelate una benedizione: se la Salamanca avesse sferrato l'attacco, così come era stato previsto, si sarebbe risolto in una immensa quanto inutile carneficina. E tutti gli sforzi compiuti fino a quel momento per arrestare l'ascesa dell'Ordine, sarebbero stati vani.

«Bersaglio acquisito» esclamò l'uomo al radar. Winston si riebbe, scosso dai suoi pensieri. Si voltò a fissare Wiesbaden, che osservava il radar con espressione di estremo compiacimento.

«Signore, la Salamanca è nel raggio di azione» annunciò il tecnico al radar. «Ci sono comandi?»

«Distruggeteli».

«No!»

Wiesbaden si voltò, sorpreso. Winston si accorse con rammarico che era troppo tardi per mascherare in qualche modo la sua reazione improvvisa. Tuttavia, non poteva limitarsi a lasciare che Wiesbaden facesse semplicemente piazza pulita di ciò che restava del Consiglio. Anche se era difficile, doveva provare a immaginarsi qualcosa.

«Un po' tardi per questi scrupoli di coscienza, Herr Churchill» commentò acido Wiesbaden. «Non le pare?»

«Non è per questo...»

«No? E per cosa allora?»

Winston era il primo a sapere di essere poco credibile. Ma ormai era fatta. Decise di giocarsi il tutto per tutto.

«Quegli uomini, in particolare il loro comandante, potrebbero ancora tornarci utili. Credo che sarebbe meglio ordinare loro di arrendersi, e assicurarsi che abbiano salva la vita».

«Sul serio?»

Wiesbaden fissò Winston in silenzio per un po'. Quindi sollevò il palmo della mano, rivolgendolo all'addetto al radar, che si voltò annuendo.

«Sospendere momentaneamente l'azione, ripeto: sospendere momentaneamente l'azione. Attendete ordini».

A udire quelle parole, Winston non riuscì a trattenere un sospiro. Wiesbaden sorrise.

«Mi sbagliavo sul suo conto, Herr Churchill. Credevo sinceramente che lei fosse un uomo privo di cuore, invece mi sembra che lei sia una persona fin troppo compassionevole».

«Si sbaglia...»

«Prima la ragazza, ora il suo amico. Non vorrà dirmi che davvero crede all'idea che quelle persone possano rivestire una qualche utilità?»

Winston si irrigidì. Era vero. Non esistevano scuse plausibili per aver chiesto a Wiesbaden di interrompere l'azione. Se a bordo della fregata Salamanca non si fosse trovato Samuel, allora Winston non avrebbe esitato a lasciare che Wiesbaden affondasse la nave, condannando così a morte tutti i membri del suo equipaggio. Lo stesso valeva per Lisa e per Michael. Se non si fosse trattato di loro, probabilmente la soluzione migliore sarebbe stato lasciarli entrambi all'ira di Wiesbaden. Il problema era che Winston cominciava ad averne abbastanza di morti. Il peso di quelli che si portava sulle spalle negli ultimi tempi era aumentato, fino a farsi considerevole: e aveva finito col rivelarsi per lui un fardello estremamente gravoso. E Winston non si sentiva disposto ad accrescerlo, facendosi carico anche del destino dei suoi amici.

Peccato che un sentimento del genere avesse cominciato ad affiorare in lui proprio in un momento come quello, quando probabilmente le crudeltà che avrebbe dovuto causare e sopportare non erano che all'inizio.

Scrollò le spalle, lanciando a Wiesbaden un'occhiata di sfida.

«Forse ha ragione lei» disse. «E se le cose stanno così, lo prenda come favore personale che le chiedo di farmi. Se lo vorrà, avrà comunque modo di ucciderli in un secondo momento».

Wiesbaden lo osservò, sorridente.

«Forse lo farò, o forse no» commentò. Aver scoperto quella falla nell'apparente freddezza di Winston, lo divertiva moltissimo. «Evidentemente, anche lei possiede qualche debolezza. Ed è proprio questo che non mi aspettavo, da lei. L'ho sempre creduta una persona assolutamente priva di scrupoli, e per questo da temere. La ammiravo sinceramente. Non che adesso la stimi di meno, ma... come dire...»

Wiesbaden fece una pausa, che risultò piuttosto efficace. Winston accusò il colpo.

«... diciamo che ora mi sento più tranquillo. Grazie a quelle persone mi sarà quanto meno possibile esercitare su di lei un certo ascendente, per così dire».

«Intende una qualche forma di ricatto?»

«Se vuole metterla in questo modo. Diciamo di controllo. In fondo, siamo sulla stessa barca, ora. Non crede anche lei?»

«Faccia pure come crede, ma dovrà ricredersi ben presto» lo corresse Winston. «Quelle persone non rappresentano nulla per me. L'unico motivo per ho ritenuto che non dovesse ucciderle, è che possono essere a conoscenza di informazioni riservate. Nomi, luoghi...»

«E vorrebbe farmi credere che lei, di queste informazioni, non fosse a conoscenza?»

Winston si aspettava una cosa del genere. Sorrise.

«Mio caro Barone, mi sorprende. Si tratta di una elementare procedura di sicurezza, quella di far viaggiare le informazioni su canali separati e non accessibili se non ai diretti operatori. Non vorrà dirmi che nella sua organizzazione le informazioni sono accessibili su qualsiasi livello...»

Wiesbaden parve colpito.

«Sì?» obiettò sospettoso. «Ma anche la ragazza?»

«Tutte le transazioni, i movimenti bancari e i numeri di conto sono passati attraverso le sue mani» mentì Winston. «Ucciderla sarebbe come bruciare l'intero capitale del Consiglio. E cioè una montagna di liquidi».

«Il denaro non ci manca».

«Ma potrebbe mancare».

Wiesbaden sogghignò. Winston represse a stento un'imprecazione. Quel maledetto bastardo lo aveva trascinato in un gioco al patibolo, la cui posta in palio non era la sua vita, ma quella dei suoi amici più cari. E nel farlo si stava divertendo un mondo.

Se non riusciva a spuntarla e a fargli credere quello che aveva detto...

«Ancora non so se è l'abile oratore che parla o l'uomo senza scrupoli» ammise Wiesbaden. «Se dovessi credere alle sue parole, lei sarebbe un uomo da temere, Herr Churchill, proprio come pensavo. Se invece è l'oratore a parlare, lei non è in realtà che un semplice uomo, assolutamente manipolabile, come tutti. E per questo, estremamente debole».

«Pensi quello che vuole» tagliò corto Winston. «A questo punto, la decisione spetta a lei».

Non poteva fare nient'altro. Se avesse aggiunto anche solo una parola, tutto il castello di carte che aveva costruito sarebbe crollato miseramente, sotto il peso delle sue bugie.

«Dia l'ordine di attaccare la nave» esclamò Wiesbaden, secco, rivolgendosi al tecnico radar. Winston si sforzò di rimanere impassibile. Wiesbaden lo osservò a lungo. Quindi sorrise.

«Ma non affondatela. Voglio che li costringiate ad arrendersi».

«Sissignore» rispose l'addetto al radar. Winston sentì il volto accendersi di calore.

«E ora» fece Wiesbaden «attendiamo».

I minuti scorrevano senza tregua. Dopo qualche istante, il tecnico alle comunicazioni ricevette un segnale.

«Signore, comunicazione dal Garfish uno. Il comandante afferma che le unità hanno il controllo della Salamanca. Chiede ordini».

«Arrestate l'agente al comando. Il suo nome è...»

Wiesbaden si voltò a guardare Winston.

«Samuel Priscoe» disse lui. Pronunciare il suo nome restando impassibile gli costò uno sforzo più duro di quanto avesse immaginato.

«Samuel Priscoe» ripeté Wiesbaden. «Che venga identificato e condotto a bordo immediatamente».

«Sì signore» esclamò il tecnico. «E il resto dell'equipaggio?»

«Già, e il resto dell'equipaggio, Herr Churchill?» chiese, quasi ridendo. «Cosa dovrei farne, secondo lei? Anche loro possiedono informazioni di una qualche utilità?»

Winston represse l'istinto di mettergli le mani al collo. Quell'uomo era un demonio, e se avesse potuto lo avrebbe ucciso immediatamente. Ma non poteva cedere al suo gioco. Per quanto terribile fosse, doveva assecondare gli eventi.

Con uno sforzo indicibile, Winston rimase a fissare impassibile il volto di Wiesbaden, inarcando leggermente un sopracciglio.

«No» rispose. «Nessuna. Può fare di loro ciò che vuole».

Wiesbaden smise di ridere. Lo fissò, passando gli occhi su ogni parte del suo volto, come se volesse scrutarlo fin sotto la pelle, e raggiungere i suoi pensieri più nascosti.

«Stia tranquillo, Herr Churchill. Non li ucciderò. Non ho mai avuto intenzione di ucciderli, non per il momento, ancora».

Winston era perplesso, anche se sollevato.

«Perché?» chiese. Wiesbaden sorrise, senza staccagli gli occhi dal volto.

«Perché anche quella gente ha una sua utilità. Un'utilità di cui lei avrà modo di rendersi conto molto, molto presto».

 

 

*

 

Jean e gli altri non avevano avuto molto tempo per guardarsi attorno.

Non appena avevano agganciato lo scafo dell'Exelion e lanciato la boa di segnalazione, il secondo batiscafo li aveva raggiunti. A quel punto, come da programma, avevano indossato le tute e gli scafandri, ed erano usciti per procedere con la messa in sicurezza dell'Exelion. Avevano inserito nelle enormi casse lancia siluri una serie di palloni gonfiabili, nei quali era stata immessa aria attraverso un motore ausiliario, che la comprimeva dopo averla risucchiata dalla superficie attraverso un lunghissimo tubo. Così, anche se l'Exelion avesse dovuto sganciarsi per qualche ragione dallo sperone di roccia che lo sorreggeva sopra il baratro, grazie a quei palloni avrebbe continuato a galleggiare, senza il rischio di affondare. Solo allora, quando tutto era stato ultimato e l'Exelion era finalmente al sicuro, Jean e il resto degli uomini si era fatta strada all'interno dello scafo del sottomarino.

E a quel punto erano stati arrestati.

Jean era incredulo. In un primo momento non gli era chiaro perché avessero dovuto attendere tanto, per arrestarli. Dall'oblò della cabina in cui era stato rinchiuso insieme a Hanson e Sanson, si vedeva un'intera flotta di sottomarini classe Garfish pronti ad entrare in azione. Se solo avessero voluto, avrebbero potuto raggiungere l'Exelion con facilità, e trarlo in salvo senza problemi. Perché si erano dovuti rivolgere a lui, per una cosa del genere?

Gli vennero in mente due possibilità. Tanto per cominciare, recuperare l'Exelion era un'operazione troppo complicata, per delle navi grandi come i Garfish. Avvicinare l'Exelion senza provocare vibrazioni pericolose, che avrebbero potuto farlo precipitare nell'abisso che si apriva sotto di lui, era impensabile senza un batiscafo come quello che Jean aveva progettato. La massa d'acqua che un Garfish avrebbe mosso attorno a sé sarebbe stata sufficiente a smuovere l'Exelion, fino a farlo disincagliare: a quel punto, senza alcun motore attivo, sarebbe sprofondato nella fossa del Giappone fino a oltre diecimila metri di profondità, là dove nemmeno i Garfish sarebbero mai riusciti a raggiungerlo.

E questo, pensò, Jean, portava alla seconda conclusione. Se quella gente aveva avuto bisogno di lui, per costruire un batiscafo, questo voleva dire che la tecnologia che mostravano di possedere, in realtà non era opera loro. Tutto quello che facevano, era limitarsi ad utilizzarla. Evidentemente non erano in grado né di crearla né di riprodurla: le loro armi, tutti quei Garfish e chissà quant'altro, doveva essere tutto ciò che restava di un'eredità più grande, di cui erano in qualche modo entrati in possesso.

Da un lato, questo era rassicurante. Voleva dire che quella gente non era del tutto invincibile. Però gettava anche una luce inquietante sui loro scopi reali.

Jean si era sempre chiesto che cosa volessero ottenere quelle persone raggiungendo l'Exelion. Era chiaro che la nave non rappresentava il loro vero obiettivo, o quantomeno l'unico. L'Exelion doveva piuttosto essere la chiave per qualcosa di più significativo. Evidentemente, serviva loro per raggiungere qualcos'altro, qualcosa di molto più importante.

Jean era ancora immerso in queste riflessioni, quando venne richiamato alla realtà da una scossa improvvisa. Con il cuore in gola, si affacciò al finestrino.

L'Exelion si era mossa. Tutt'intorno, i Garfish se ne stavano immobili, galleggiando alla medesima altezza e circondando la nave come in attesa. Questo voleva dire solo una cosa: i palloni erano stati gonfiati, fino a sollevare l'Exelion. A quel punto, però, accadde ancora qualcosa.

Ci fu un rombo improvviso e le luci della cabina in cui si trovavano Jean e gli altri presero a lampeggiare. Quando tornarono a stabilizzarsi, l'intero scafo della nave era percorso da una vibrazione sotterranea e costante, che Jean ricordava bene.

«L'hanno... messo in moto?»

Jean e Hanson si lanciarono un'occhiata. Era proprio così, in qualche modo erano riusciti a riattivare l'Exelion.

«Ma come accidenti hanno fatto?» domandò Hanson, spostandosi accanto all'oblò. L'Exelion stava compiendo un lento giro su se stesso, andandosi a posizionare con la prua che puntava proprio sulla fossa del Giappone.

«Non deve essere stato complicato» mormorò Sanson. «Non dimenticate che quella gente è in grado di pilotare i Garfish, esattamente come gli uomini di Gargoyle. Evidentemente, devono far parte della stessa gentaglia».

«E poi l'Exelion era già in qualche modo attivo» aggiunse Jean. «Lo abbiamo visto muoversi, ricordate?»

Hanson annuì. «Sì, era come se fosse guidato da qualcosa, come se seguisse una rotta prestabilita, in modo automatico».

«Mi chiedo...»

La nave prese a muoversi e a procedere lentamente, inabissandosi via via nella fossa del Giappone. Attorno a loro i Garfish continuavano a rimanere immobili. Presidiavano la zona come enormi squali famelici, pronti ad attaccare al minimo segnale di pericolo.

«Ci stiamo muovendo» fece Hanson. «Guardate, stiamo scendendo».

«Sì, ma dove?» fece Sanson. «Cosa pensano di trovare, là sotto?»

Jean si spostò sull'oblò di prua. La cabina in cui erano tenuti prigionieri era collocata proprio sul ponte, in una posizione che permetteva di guardarsi attorno praticamente a 360 gradi. Quando l'Exelion si fu immerso nelle acque tenebrose della fossa del Giappone, tutto intorno a loro si fece buio. Per qualche istante, Jean non riuscì a vedere nulla se non il suo riflesso sul vetro. Poi, improvvisamente, qualcosa prese a brillare.

Jean ci mise un attimo a capire che quelle luci che lo circondavano, vagando come fossero uno sciame di lucciole, non si trovavano dentro la cabina. Era qualcosa che brillava fuori, e che circondava l'Exelion. Sembravano veramente lucciole, o particelle di plancton. Ma non era niente del genere. erano troppo luminose e brillavano di una luce particolare, azzurrognola, che Jean non aveva mai visto prima.

No, non era vero. Aveva già visto una cosa del genere.

Con sgomento, Jean si affacciò di nuovo all'oblò. Ora, a prua, si distingueva chiaramente una luce. Era fissa, e perfettamente in linea con l'assetto della nave. L'Exelion puntava dritto verso quella luce, che si faceva sempre più vicina. Improvvisamente, la nave rallentò fino a fermarsi, e tutto tacque. Furono attimi lunghissimi, durante i quali Jean, Hanson e Sanson si lanciavano sguardi carichi di tensione e incertezza. Poi, del tutto senza preavviso, un boato sordo scosse la cabina e l'intero scafo prese a tremare. Hanson e Sanson si guardarono attorno smarriti, mentre Jean non riusciva a togliere gli occhi dall'oblò.

Luci. Vi erano luci ovunque. Tutt'attorno a loro, le pareti di roccia si illuminarono di glifi splendenti, come a tracciare immense calcografie dal significato nascosto e ormai dimenticato. Poi, davanti a loro, il miracolo.

Un'intera città si accese ai loro piedi, come risvegliandosi da un sonno durato millenni. La gigantesca porta di roccia che poco più avanti bloccava loro il passaggio si aprì e la nave riprese a muoversi, sorvolando silenziosa quell'immensa capitale avvolta dalle acque. Sotto di loro, e tutt'attorno a loro, palazzi e strade ormai vuote e sommerse dalle acque e dal tempo continuavano a risplendere illuminate da chissà quali energia misteriosa, accompagnando con il loro silenzio la nave, che procedeva lentamente verso l'ingresso scavato nella roccia.

«Ma dove diavolo siamo?» fece Hanson. Era senza parole, e osservava quello spettacolo come un bimbo osserva le giostre. Jean lo fissò, con un sorriso di sbieco.

«Non la riconosci?» fece, cupo. «Siamo tornati ad Atlantide».

 

 

*

 

 

«Sgomberate, sgomberate tutto!»

I soldati dell'esercito imperiale correvano ovunque, affrettandosi agli ordini degli ufficiali. Gli uomini di Wiesbaden – tecnici, ingegneri, archeologi – coordinavano le operazioni, in un misto di eccitazione e nervosismo. Jean non poteva che assistere con rabbia a tutto quel via vai. In quel momento avrebbe dovuto trovarsi nella sala motori dell'Exelion, e non legato e ammanettato sul fondo pietroso e spoglio di una stanza al primo piano di un rudere atlantideo.

Il soldato sulla porta sembrava annoiato. Jean lo studiò, rivolgendogli uno sguardo veloce. Era solo nella stanza, e anche in quello i soldati guglielmini avevano mostrato di possedere un'organizzazione impeccabile: per evitare ogni problema, avevano pensato bene di dividere i prigionieri: così, anche se uno di loro avesse provato a liberarsi e a fuggire, prima di poter liberare gli altri avrebbe dovuto trovarli e sbarazzarsi in qualche modo delle sentinelle.

Ma questo problema non interessava ora a Jean. Tutto quello che gli importava era riuscire a risalire sull'Exelion. Se mai avesse potuto risalirci. Molto probabilmente, pensò, visto che ora non servivano più li avrebbero abbandonati lì, magari senza nemmeno prendersi la briga di ucciderli.

Doveva inventarsi qualcosa. In qualche modo, aveva bisogno di provocare una reazione.

Causa ed effetto.

Chissà quale sarebbe stato l'effetto.

«Che cosa pensate di ottenere?»

Jean non sapeva nemmeno perché aveva rivolto la parola a quell'uomo. Parlargli era tutto ciò che gli era venuto in mente, giusto per stabilire un contatto. Il soldato lo guardò in modo vacuo; si frugò in tasca, estraendo un pacchetto sgualcito di sigarette. Quindi se ne portò una alle labbra, accendendola con un cerino. Per un istante, la luce della piccola fiamma gli rischiarò il volto, immerso nella penombra.

«Halte den Mund» biascicò, indifferente «Scheißkerl Franzosisch...»

Per tutta reazione, Jean strinse le labbra.

«Scher dich zum Teufel, SchafsKopf».

Il tedesco lo guardò stupito, quindi impallidì dalla rabbia.

«Come mi hai chiamato?» fece, gettando la sigaretta a terra e avvicinandosi minaccioso. Jean si rese conto troppo tardi di aver esagerato. L'effetto aveva superato la causa.

Non era certo nella condizione migliore per fare a pugni con qualcuno, legato com'era.

«Ora ti darò una bella lezione, schifoso francese».

L'uomo sollevò il calcio del fucile. Jean chiuse gli occhi, raccogliendosi su se stesso e preparandosi al colpo; che però, miracolosamente, non arrivò. Proprio in quel momento, infatti, un ufficiale guglielmino entrò nella stanza, guardandosi intorno e richiamando con voce imperiosa il soldato.

«Tu!» gridò. «Cosa credi di fare? Porta il prigioniero alla piana, subito!»

Il soldato ci mise un attimo a rendersi conti di chi aveva di fronte, poi scattò sugli attenti e si produsse in un saluto formale. Jean sghignazzò.

«Ti è andata male, eh?»

«Stai zitto, feccia» ringhiò il soldato. «Alzati, avanti».

Jean venne strattonato e sballottato fino a che non fu in piedi. Quindi il soldato gli assestò una spinta, che lo fece barcollare fino alla porta. Quando uscì, incrociò nuovamente l'ufficiale di poco prima, che gli rivolse un'occhiata di sfuggita, mentre gli passava davanti, allontanandosi. Dietro di lui, Hanson e Sanson, in fila, si stavano preparando ad uscire, scortati dalle rispettive sentinelle.

«Guarda un po' chi si rivede» sorrise Sanson. Jean ammiccò a sua volta. Il soldato che apriva la fila si girò a guardarli, gridando loro di muoversi. Nessuno disse più una parola.

Li guidarono lungo le strade deserte e ricoperte di ciottoli che Jean aveva già imparato a conoscere, molti anni prima. Ora che tornava a guardare quei sassolini resi lustri dell'estremo calore che si era sprigionato in seguito all'esplosione della Torre di Babele, Jean rabbrividì. La prima volta che li aveva visti non era che un ragazzo, e non si era potuto rendere pienamente conto della terribile forza che doveva essersi sprigionata dalla torre, al momento dell'esplosione. Per riuscire a fondere perfino la pietra, le fiamme dovevano aver raggiunto una temperatura elevatissima. In quel momento, dal paradiso che era Atlantide si era probabilmente trasformata in un terrificante inferno.

Alzò gli occhi. La strada che stavano percorrendo era lastricata e circondata da edifici; alcuni di questi, nonostante apparissero solo la vestigia di quello che erano, dovevano essere stati altissimi. Quante persone erano morte, quel giorno? Una tale distruzione era quasi inconcepibile. Era bastato un attimo per distruggere un'intera capitale, e far sprofondare nel mare un intero continente. E nell'oblio migliaia di vite.

«Di qua. Muoversi!»

Jean ricevette una spinta e un colpo alla schiena. Rantolò, masticando amaro. Probabilmente quello era un modo per fargliela pagare per gli insulti di prima. Rise, tra sé. Non aveva potuto farci niente. Le parole gli erano uscite di bocca in modo quasi automatico.

Lui quella gente la detestava.

«Mi piacerebbe sapere dove ci stanno portando, questi porci maledetti» mormorò Sanson. Hanson, dietro di lui, non spiccicava parola. Incedeva sudando e sembrava piuttosto affaticato. In effetti, faceva davvero molto caldo.

«Credo di saperlo» commentò Jean. Sanson ammiccò, curioso.

«Davvero? E dove?»

«Tra poco lo vedrai».

Sanson tacque, rassegnato. Jean aveva una precisa idea di dove quella gente voleva condurli. Esisteva un solo luogo in cui poteva essere custodito qualcosa che avesse per loro un minimo interesse, e questo era...

«Il cimitero!»

Raggiunsero il margine della scarpata. Sotto di loro, si apriva la valle in cui gli atlantidei avevano costruito nel tempo le loro catacombe. Si trattava di un tempio dalla struttura a forma di piramide rovesciata, lungo le cui pendici erano scavate centinaia di migliaia di tombe. Lapidi e monumenti spezzati, un tempo elegantissimi, ornavano silenziosi e spogli le balconate che digradavano verso il centro, dove splendeva intensa una enorme pietra azzurra.

«Jean» mormorò Hanson. «Guarda la pietra...»

Jean annuì. La pietra, che quando avevano visitato Atlantide la prima volta, anni prima, era completamente spenta e immobile, ora ruotava lentamente su se stessa, e lanciava bagliori intermittenti. Qualcosa doveva averla attivata. Jean suppose che la pietra si fosse accesa nel momento della partenza di Nadia, quando lei aveva riattivato il Trismegisto, attivando la Merkaba che l'aveva condotta sul suo pianeta.

Se era così, allora Elektra aveva visto bene. Esisteva ancora una speranza per raggiungerla, anche se era molto remota e passava attraverso almeno un migliaio di soldati tedeschi in assetto da battaglia.

«Muovetevi!»

Jean si sentì spingere e perse l'equilibrio. Cercò di mantenersi in piedi, ma ruzzolò per un tratto, prima di riuscire a riacquistare la posizione eretta. Dietro di lui, i soldati risero.

Man mano che scendevano, Jean si rese conto che la pietra non solo brillava e si muoveva, ma aveva anche assunto una forma che non era sbagliato definire ''precaria''. Era come se si fosse mutata in una massa d'acqua compatta, che manteneva solo esteriormente la sua forma originale, mostrandosi allo stesso tempo pronta ad abbandonarla da un momento all'altro. Jean la ammirò, meravigliato. Era uno dei tanti misteri di quelle pietre meravigliose, capaci di racchiudere al loro interno un potere tanto tremendo quanto stupefacente. Nessuno sapeva di che materiale fossero composte, né era possibile sapere chi le avesse create. Guardarle era come trovarsi di fronte all'origine e al mistero della vita stessa, alla materia originaria. Quelle pietre che avrebbero potuto essere qualunque cosa, e che al loro interno racchiudevano il potere di distruggere tutto il creato... erano semplicemente straordinarie.

Jean e gli altri vennero fatti fermare a poca distanza dalla pietra. L'idea di essere così vicino eppure così lontano alla possibilità di rivedere Nadia era per Jean una sofferenza immensa. Spostò gli occhi tutt'attorno: insieme a loro si trovavano almeno alcune centinaia di persone, in uniforme da marinai. Erano tenuti prigionieri, ma non sembravano in cattiva salute. Jean li guardò, stupito.

«Chi è quella gente?» chiese. Sanson scrollò le spalle, sorpreso quanto lui.

«Non ne ho idea. Ma non sono messi certo meglio di noi».

«Guardate, c'è Wiesbaden» esclamò Hanson. «E c'è anche quel tipo, con lui... Churchill!»

Jean e Sanson si voltarono. Wiesbaden e Winston si trovavano sul livello più alto del tempio, e parlottavano tranquillamente tra loro. Li vide ridere. Con un moto di disgusto, Jean sentì il desiderio di andare da Churchill, e di spaccargli il muso.

«Dove credi di andare?» gli fece un soldato, sbarrandogli il passo. «Prendi questa, e vai insieme agli altri».

Jean si ritrovò con una pala tra le mani, spinto a raggiungere la massa di prigionieri che aveva già cominciato a scavare attorno alla pietra.

«Cosa diavolo vogliono farci fare?» mormorò Sanson, afferrando la pala e affondandola nel suolo arido e ricoperto di sassi. «Spero che non ci stiano facendo scavare la nostra tomba».

Jean nicchiò.

«Non so se sia una tomba» disse, «ma ho comunque un pessimo presentimento».

 

 

*

 

 

Winston aveva tirato un sospiro di sollievo quando Wiesbaden aveva ordinato di raccogliere gli uomini della Salamanca e di farli prigionieri. Quando però seppe che aveva intenzione di usarli per scavare tra le rovine di Atlantide, rimase perplesso.

Ancora non era riuscito a capire cosa Wiesbaden stesse esattamente cercando. Sentiva di aver perso un po' il filo in tutta quella faccenda. Per diverso tempo, aveva creduto che Wiesbaden fosse alla ricerca della tecnologia di Atlantide: ma doveva essersi sbagliato, perché non aveva nemmeno perso un secondo per visitare il relitto dell'Exelion. Tutto quello che gli interessava, era raggiungere quello strano tempio, niente più che un vecchio e inutile cimitero. Quando l'avevano raggiunto, Winston aveva creduto che il motivo di tanto interesse fosse quella pietra misteriosa che brillava al centro della vallata, ma anche in quel caso si era sbagliato. Wiesbaden aveva subito dato ordine ai soldati di far scavare i prigionieri tutt'attorno alla pietra, come se ciò che lo interessasse non fosse là, in superficie, ma sotto di essa.

«La vedo perplesso, Herr Churchill» fece Wiesbaden, ridendo. «Forse non riesce a capire il perché di tutte queste operazioni».

«Le confesso che sono piuttosto curioso» ammise Winston. Wiesbaden annuì.

«Credevo che voi del Consiglio foste molto più informati al riguardo. Evidentemente, mi sono sbagliato».

Winston tacque. Per tutto quel tempo, lui e De Molay erano stati alla disperata ricerca di quelle informazioni che avrebbero permesso al Consiglio di colmare il vuoto di conoscenze che li separava dall'Ordine di Thule. Tutto quello che erano riusciti a scoprire, tuttavia, era l'importanza rivestita da Nadia Ra Arwol, e l'esistenza di un progetto chiamato «del Perfezionamento dell'uomo», per usare le parole che Michael aveva udito pronunciare da Wiesbaden stesso, nella biblioteca del Consiglio. Ma la strada per unire tra loro quelle informazioni e raggiungere la verità, ammesso che fosse possibile, era ancora molto lunga.

«Ha a che fare con quanto è contenuto nei Rotoli del Mar Morto?» chiese Winston. Si era improvvisamente ricordato di quello che gli aveva detto il vecchio abate Nestorius: ''trova quei rotoli, e fallo al più presto''.

Wiesbaden lo fissò serio. «Lei li ha visti?»

«Lo chiedo a lei».

Il barone si portò le mani dietro la schiena, invitando Winston con un cenno a fare due passi.

«Quello che è contenuto in quei papiri è molto più importante di qualsiasi cosa voi abbiate mai pensato di inseguire» fece. Winston inarcò un sopracciglio.

«Più importante del libro di Platone?» chiese. Wiesbaden rise divertito.

«Quel libro non è nulla, mio caro Churchill» fece. «A parte il codice, che è stato brillantemente decifrato da voi, devo ammetterlo» aggiunse con serio compiacimento, «tutto il resto non è che una vana successione di parole inutili. Quel libro vorrebbe ripercorrere la storia del nostro glorioso popolo, nulla che noi non conoscessimo già, e che non conoscessimo molto meglio».

«E che cosa è importante, allora?»

«Il codice che vi era contenuto permetteva di ottenere la chiave per raggiungere i rotoli del mar morto. Ora abbiamo anche quelli. E l'ultimo tassello della nostra storia è finalmente stato riposizionato».

Winston scrollò le spalle.

«Ancora non capisco cosa stiate cercando. Sono armi? Una tecnologia che vi permetta di conquistare il pianeta?»

Wiesbaden si fermò e guardò Winston seriamente. Poi, in modo del tutto improvviso, cominciò a essere scosso da singhiozzi inarrestabili, che sfociarono in una fragorosa risata.

«Conquistare il pianeta!» fece. «Herr Churchill, lei è proprio divertente. Noi non abbiamo bisogno di conquistare ciò che già ci appartiene! Gli atlantidei sono i signori di questo pianeta, noi abbiamo portato in esso la vita e noi abbiamo il potere e il diritto di disporne come vogliamo. Per troppo tempo, a causa della debolezza a cui ci hanno costretto gli eventi, gli atlantidei hanno dovuto rimandare il momento in cui sarebbero stati riconosciuti come i sovrani indiscussi da parte di tutti i popoli della Terra. Il motivo per cui ora sono qui, è per portare a compimento il destino del mio popolo.. E lei dovrebbe essermi grato per il fatto che le permetto di prendere parte alla gloria di Atlantide».

Winston impallidì. Non aveva capito nulla di quel discorso, ma era sempre più convinto di aver a che fare con uno squilibrato.

«Cosa c'entra la SEELE in tutto questo? E chi la compone? Quali sono i suoi obiettivi?»

Wiesbaden rise ancora.

«Mio caro amico, se non avessi in lei una cieca fiducia, comincerei a pensare che lavora ancora per il Consiglio».

Winston impallidì. In un istante capì che aveva rischiato di tradirsi come uno sciocco principiante.

«Porti pazienza, e vedrà... Ah! Ecco».

Un rombo sordo e costante si abbatté contro l'immensa volta rocciosa che riparava la città. I ciottoli presero a vibrare e la terra tremò. Le lapidi si spezzarono, e i monumenti si sbriciolarono. La volta di Atlantide, che proteggeva la città dalle acque sovrastanti e che la illuminava grazie alla rifrazione di pietre argentee, si offuscò. Poi, improvvisamente, lo scafo splendente dell'Exelion comparve sopra di loro, andando a fermarsi proprio sopra la Pietra azzurra.

Winston restò a fissare l'immensa nave senza respiro. Non riusciva a credere che quella cosa potesse volare. Ne aveva viste di cose strane, ma quella le superava davvero tutte.

Un ufficiale si avvicinò, salutando Wiesbaden con un gesto imperioso e secco.

«Signore, siamo pronti. Aspettiamo tutti il suo ordine».

«A che punto sono gli scavi?» chiese Wiesbaden.

«Abbiamo liberato il primo strato. La Dark Moon è proprio sotto la Pietra».

«Come immaginavo» commentò Wiesbaden. «Procedete!»

Winston restò a guardare l'ufficiale che si allontanava. Era incredulo. Davanti a lui stava accadendo qualcosa di cui non riusciva ancora a capacitarsi.

«Venga, Herr Churchill» fece Wiesbaden, battendogli la mano su una spalla. «Mi segua. Oggi avrà modo di assistere al vero potere».

 

 

*

 

 

Gli uomini vennero tutti radunati e messi in fila attorno all'ultimo gradone del Tempio. Tutti i presenti fissavano attoniti l'immenso scafo dell'Exelion, che si librava immobile sopra le loro teste, come fosse in attesa di un segnale.

Il segnale arrivò. E fu la Pietra a lanciarlo.

Jean vide che la Pietra cominciava a brillare e a ruotare sempre più intensamente, come stimolata dalla presenza dell'Exelion. Man mano che ruotava, la nave sopra di essa prese a inclinarsi con la prua verso il suolo, là dove la pietra ruotava sempre più vorticosamente, smarrendo agli occhi dei presenti la sua forma originaria. Ruotava, e ruotava senza sosta, tanto velocemente da appiattirsi e ridursi a una forma liquida, dalla forma di un otto. Intanto, L'Exelion aveva raggiunto una posizione completamente verticale.

Improvvisamente, la Pietra si arrestò: ci fu un attimo di silenzio e qualcosa prese a cambiare nella luce che illuminava lo scafo dell'Exelion. Era come se il materiale che lo componeva avesse preso a liquefarsi. Jean fissò sbigottito la scena. Incredibilmente, come fosse una statua di creta tra le mani di un esperto e invisibile artigiano, l'Exelion stava mutando forma, per assumerne una completamente nuova.

«Ma che diavolo...»

L'Exelion non esisteva più. Tutto quello che c'era, al suo posto, era una lunghissima e sottilissima lancia, dalla punta brillante e compatta, che puntava dritta al suolo. Jean restò a fissarla senza parole.

«La Lancia di Longinus» mormorò Wiesbaden. «Stia a guardare, Churchill. Guardi!»

La pietra girò ancora più vorticosamente. Ora aveva abbandonato la forma a otto, per assumere quella di un cerchio cavo. Lentamente, la Pietra si sollevò dal suolo e la terra, sotto di essa, prese a tremare. Ci fu un boato, e il suolo roccioso si ruppe come fosse il guscio di un immenso uovo, percorso da centinaia di incrinature. Una scarica improvvisa di energia si condensò attorno a quello che restava della Pietra: fulmini sottili saettavano dal suo centro, per poi scaricarsi lungo il corpo sottile della lancia, che prese a emettere sinistri bagliori. Poi, senza alcun preavviso, ci fu l'esplosione di un solo fulmine azzurro. La terra si squarciò, e la piramide rovesciata rovinò su se stessa. E finalmente, con un rombo immenso, qualcosa emerse dal sottosuolo.

Sembrava una nave. Una gigantesca nave di forma ellittica. Era completamente chiusa, e lucida. Rifletteva sottili bagliori di pece. Jean la fissò sbalordito. Era qualcosa che non aveva mai visto prima.

«La Dark Moon, l'arca perduta della vita!» esclamò Wiesbaden. «Lì dentro riposa Lilith, ovvero la materia primordiale da cui ha avuto origine il genere umano. Avanti! Procedete!»

Winston lanciò a Wiesbaden uno sguardo in tralice. Aveva il volto trasfigurato, e gli occhi gli brillavano di una luce selvaggia e sinistra. Sentiva che avrebbe dovuto fermarlo, prima che fosse troppo tardi. Solo che non sapeva come.

Si fece silenzio. Nessuno fiatava. La Lancia di Longinus restò immobile a mezz'aria, mentre la pietra continuava a vorticare sotto di essa, emettendo solo un sottilissimo sibilo.

Ci fu un attimo interminabile, in sembrò cui non accadesse nulla. Poi, qualcosa cominciò a muoversi.

La Dark Moon cominciava a schiudersi. Tutti osservavano con il fiato sospeso, chiedendosi cosa avrebbero trovato al suo interno. Ma ciò che racchiudeva, era qualcosa di indescrivibile. Emanava una luce talmente fulgida e intensa da penetrare fin sotto la pelle. Per quanto fosse doloroso guardarla, nessuno riusciva a distogliere gli occhi. Quando finalmente la Dark Moon fu completamente aperta, la luce si diffuse per tutta Atlantide, illuminando la città come un sole nascente.

Gli uomini guardavano quella massa pulsante di energia che si agitava scomposta all'interno della nave. Era come una concentrazione informe di vita brulicante, sotto la cui superficie si agitava un formicolio di luci pulsanti. Era terribile a vedersi, ma anche stupefacente.

«Eccolo, l'essere primigenio. La materia che ha dato origine alla vita».

Winston era ammutolito. Non sapeva cosa fare, né cosa pensare.

«Vuole vedere?» fece Wiesbaden, ormai fuori di sé dall'eccitazione. «Stia a guardare. Tu!» fece, indicando uno dei marinai della Salamanca. «Avvicinati alla Dark Moon».

Un soldato si premurò di costringere l'uomo a staccarsi dal gruppo, che non voleva saperne. Pieno di terrore, questi prese ad avanzare, guardandosi attorno tremante nella speranza che qualcno andasse in suo soccorso. Procedeva lentamente, dibattuto tra il desiderio di fuggire e quello strano e misterioso che in segreto lo spingeva ad avvicinarsi.

«Osservi attentamente» mormorò Wiesbaden. «Guardi quello che succede».

L'uomo continuava ad avanzare. Ma ora sul suo volto la paura sembrava aver ceduto il passo a una sensazione diversa. Era come in trance. Avanzava come se fosse spinto da una forza che non riusciva a controllare e che lo spingeva a procedere contro la sua stessa volontà. Era come se quell'energia che si muoveva all'interno della nave l'avesse completamente posseduto, e soggiogato.

Era ormai vicino alla Dark Moon, là dove gorgogliava quella specie di brodo primordiale. La luce che si propagava da quella sostanza aveva completamente avvolto il marinaio, tanto da renderlo quasi invisibile agli occhi. Jean si sforò di vincere il fastidio di quella luminosità così intensa, e di seguire il profilo dell'uomo, ormai sempre più evanescente. Lo vide allungare una mano, e toccare la materia pulsante che ormai lo circondava.

Accadde in un attimo. Fu come se tutti si fossero improvvisamente risvegliati da un sogno. Non appena l'uomo toccò la materia, anzi, la sfiorò, il suo corpo si dissolse, come fosse stato ghiaccio sotto l'azione del sole cocente.

Tutto ciò che restava era una pozza di liquido rosso come sangue, che emanava un fetore insopportabile.

Winston impallidì. Sentiva le gambe che gli tremavano e faceva fatica a restare in piedi. Stava per vomitare.

«Ecco, questo è il potere di Atlantide!» esultò Wiesbaden. «Creare e distruggere la vita! Manipolare la materia, come se fossimo Dio!»

Si voltò verso Winston, le guance arrossate, gli occhi iniettati di sangue.

«Quindi, Herr Churchill, quando lei mi chiede cosa vogliamo fare, io le rispondo: cosa non vogliamo fare! Cosa non possiamo fare! Noi possiamo tutto, faremo tutto! Distruggeremo questo mondo per crearne uno nuovo, su cui regneremo come i padroni incontrastati. Spazzeremo via l'intera razza umana, e ne creeremo una nuova, diversa, che affiderà a noi la propria vita e che ci obbedirà in tutto e per tutto, così come sarebbe dovuto essere fin dall'antichità. Perché è questa la nostra eredità! Noi siamo i signori dell'universo, gli dei misericordiosi! E finalmente l'intero universo conoscerà la gloria di Atlantide!»

«Lei è un folle» mormorò Winston.

«E lei è troppo debole per capire» ringhiò Wiesbaden. «Arrestatelo!»

Winston indietreggiò, pronto a difendersi. Alcuni soldati lo avevano già circondato, quando la materia che fino a quel momento si era mantenuta stabile all'interno della Dark Moon prese ad agitarsi e a fuoriuscire dall'involucro come lava incandescente. Lo stesso liquido rossastro in cui si era disciolto il marinaio, uscì in quantità sempre maggiore dalla fenditura che si era aperta nella Dark Moon. Quindi, proprio come se il precario equilibrio che si era instaurato tra la materia luminosa e ciò la circondava si fosse improvvisamente incrinato, L'Exelion vibrò e cominciò a perdere quota, precipitando.

«No!» gridò Wiesbaden. Sul suo volto l'espressione ora era radicalmente mutata, passando dallo sconcerto al terrore. «LCL! Non di là! Allontanatevi, idioti!»

Centinaia di uomini vennero sorpresi dall'eruzione improvvisa fuoriuscita dalla Dark Moon. Il liquido rossastro si riversò su di loro, in un'unica e immensa ondata assorbendoli in un istante. Quando quel mare rosso di sangue si ritirò, nessuno era rimasto.

Jean era smarrito. Intorno a lui era scoppiato il caos. Sanson corse da lui, facendosi largo a spintoni. Hanson gli era dietro.

«Jean, che... che facciamo?»

Jean non riusciva a pensare. Si sentiva completamente smarrito.

«Jean! Dì qualcosa, per la miseria!»

Jean spostò gli occhi sul volto acceso di Sanson, che lo guardava stringendolo per un braccio. In qualche modo, riuscì a riacquistare la lucidità.

«Andiamo alla Pietra» fece.

Sanson e Hanson lo guardarono come se fosse pazzo.

«Sei uscito di senno?» fece. «Io là sotto non ci vado! Non in mezzo a quella roba!»

«Fidati di me...»

«Ma che diavolo!» gridò. «Quella cosa ti scioglie come fossi zucchero!»

«La Pietra è l'unica cosa che può difenderci. Guardate» disse, indicando il centro della spianata. Loro si trovavano sul primo gradone, dove si erano rifugiati presagendo qualche pericolo prima che l'inferno si scatenasse. Ora la gente premeva così tanto nell'unico punto in cui si poteva risalire, che era diventato impossibile passare. La gente si urtava e si spingeva a vicenda e c'era chi spingeva gli altri giù dalle scale, per poter salire. Le persone che finivano a terra erano immediatamente preda del liquido rosso, che saliva sempre di più, aumentando di volume anche per le vite che riusciva a succhiare. L'unico punto in cui quella brodaglia disgustosa non era riuscita ad arrivare era proprio la pietra. Era come se l'energia che da essa si sprigionava fosse talmente forte da tenerla a distanza.

«Se riusciamo a farci scudo con essa, dovremmo riuscire a cavarcela» esclamò Jean.

Sanson guardò prima la pietra, poi la gente che si accalcava in preda al panico. Quindi annuì.

«Va bene, mi hai convinto» fece, deciso. «Andiamocene da qui».

 

 

*

 

 

«No, no!»

Wiesbaden assisteva impotente a tutta quella distruzione. Fermo sul bordo dell'ultimo gradone del tempiio, osservava l'Exelion che si abbassava sempre più pericolosamente, fin quasi a sfiorare la materia bianca,

«Non è possibile, no...»

«Questo è quello che ti meriti per aver scatenato un simile inferno».

Wiesbaden si volse. Con un movimento repentino, Winston si liberò della stretta del soldato che lo aveva catturato. Gli afferrò il polso e gli torse il braccio: l'uomo lanciò un gemito strozzato, mentre piegava il torso in avanti. Winston gli sferrò un violento colpo al gomito, che si ruppe con un rumore secco. Il soldato lanciò un grido strozzato, fissandosi il braccio che gli pendeva inerte lungo il fianco. Senza dargli il tempo di reagire, Winston lo costrinse a terra, colpendolo alla gola una, due, tre volte con il taglio della mano, finché l'uomo non sputò sangue con occhi vitrei. Wiesbaden impallidì. Un ufficiale accorse, estraendo la pistola, ma Winston agguantò il fucile che il soldato aveva lasciato cadere a terra e sparò, freddandolo sul posto.

«Se ora lei mi uccide, non otterrà comunque nulla» esalò Wiesbaden, pallido, mentre indietreggiava.

«Forse, ma il mondo acquisterà comunque qualcosa, liberandosi di te».

Winston ricaricò l'arma. Fece per puntarla, ma il suo sguardo vacillò. Sconcertato, si portò una mano al fianco. Il palmo era rosso di sangue. Si volse. Un soldato si era accorto di quanto stava accadendo e gli aveva sparato al fianco destro. Stava ricaricando l'arma, puntandogliela contro.

Winston non ci pensò due volte e sparò. Il soldato si accasciò al suolo, lentamente.

«Fermo!»

Wiesbaden stava correndo verso il corpo esanime dell'ufficiale, per raccogliere la pistola. Winston fece per ricaricare: ma si accorse con rabbia di essere senza munizioni.

Con uno scatto che gli strappò un'imprecazione per il dolore, si gettò su Wiesbaden. L'uomo aveva appena agguantato la pistola, quando Winston lo colpì alla mano con il piede. Dall'arma partì un colpo, che andò a conficcarsi a terra. Wiesbaden perse l'equilibrio e rotolò all'indietro, sul terreno franoso. Lanciò un grido.

Winston l'aveva afferrato appena in tempo, e lo teneva stretto sul bordo del precipizio, impedendogli di cadere.

«Per favore» mugolò, terrorizzato «possiamo metterci d'accordo...»

«No».

Winston aprì le dita della mano. Wiesbaden restò a fissarlo per un istante che sembrò congelarsi nel tempo. Strabuzzò gli occhi e agitò le braccia, cercando disperatamente di afferrarsi a qualcosa. Fece per aprire la bocca in un grido, che però non gli uscì mai. Cadde. Un guizzo del liquido rossastro lo investì in pieno e il corpo di Wiesbaden parve spezzarsi in due. Winston osservò la parte superiore del corpo cadere lontano, il volto ormai spento e piegato in una smorfia di terrore congelato. Infine, anche ciò che restava di Wiesbaden si sciolse come cera.

«Alla fine, anche tu non eri che un uomo» mormorò Winston.

 

 

*

 

«Di qua, presto!»

Jean e gli altri cercavano disperatamente di raggiungere la Pietra, facendosi largo tra la folla impazzita. Gli uomini cercavano di fuggire e di raggiungere i Garfish, ormeggiati all'ingresso di Atlantide. Quelli che non riuscivano a farsi strada tra le macerie finivano miseramente con l'essere divorati dalla marea di LCL, che ormai fuoriusciva come una mareggiata inarrestabile dalla Dark Moon.

Mancava poco. Solo poche decine di metri. Ma Jean non era così sicuro che la cosa avrebbe funzionato. La sua era solo una speranza, nata forse dalla disperazione. Se si fosse ingannato, avrebbe condotto lui e i suoi amici alla morte.

D'altra parte, non avrebbero avuto molte altre possibilità.

«Forza! Ci siamo quasi».

Con uno scatto disperato, cercarono di superare la distanza che li separava dalla Pietra. In quel momento, un gruppo di persone tagliò loro la strada, buttandoli a terra. Fu una fortuna, perché un'ondata di LCL li raggiunse falciando l'intero gruppo, che si disciolse davanti agli occhi atterriti di Jean e dei suoi compagni.

«No, no... io non posso, non ce la faccio!» gridò Hanson.

«Fermo! Non ti muovere!» gli gridò Jean. Hanson si era alzato e aveva fatto per scappare, ma si bloccò non appena vide che un uomo davanti a lui era letteralmente esploso, lasciando dietro di sé solo una pozza di liquido rosso. Ormai LCL li aveva circondati.

«Siamo spacciati, è la fine...»

«Hanson! Hanson! Per di qua, presto!»

Sanson strattonò il cugino, che sembrava ormai incapace di reagire. Lo trascinò di peso, aiutato da Jean. Hanson avanzava come se avesse due blocchi di pietra al posto delle gambe. Continuava a balbettare qualcosa di incomprensibile.

Erano ormai a pochi metri dalla pietra, ma sembravano chilometri. Jean e Sanson si lanciarono uno sguardo. Entrambi sapevano esattamente cosa stesse pensando l'altro.

La loro unica speranza, era che qualcun altro finisse preda dell'LCL al posto loro.

Era un pensiero terribile, ma era la loro unica salvezza. Sarebbero sopravvissuti solo se qualcun altro fosse morto.

Jean scacciò l'orrore di quella visione, cercando di farsi forza. Poi, in quel momento, un suono cupo squarciò l'aria e la terra tremò così tanto da sollevarli e sbalzarli lontano. Quando si ritrovò a terra, sorpreso di essere ancora vivo, Jean alzò gli occhi.

L'Exelion stava per schiantarsi al suolo.

 

 

*

 

 

La prua della nave toccò la materia rossastra che si agitava sotto di lei, e immediatamente venne percorsa da una serie di lampi, che dopo aver avvolto la carcassa ormai irriconoscibile dell'Exelion, si propagarono ovunque. Non era più una nave, né la Lancia di Longinus. Era un relitto, pronto a deflagrare e a scatenare una distruzione senza precedenti. Jean non riuscì a pensare a nulla. Tutto quello che gli venne da fare, fu di prendere Hanson e di gettarsi contro la Pietra. Sanson si acquattò al suo fianco. In quel momento, l'Exelion impattò il suolo.

Jean alzò gli occhi. Sanson e Hanson lo guardarono. I loro volti esprimevano una sensazione indefinibile. Paura? Rassegnazione?

Jean non avrebbe saputo dirlo. Era come se per lui il tempo avesse rallentato, fino a fermarsi. Udì il fragore dell'esplosione, attorno a lui. Fu così forte e tremendo da soffocare ogni sensazione.

Sanson sorrise. E anche Hanson. Jean ricambiò e chiuse gli occhi. Le fiamme stavano per raggiungerli. Erano dietro di loro.

Sarebbero morti. Se non ci avessero pensato le fiamme, sarebbe stato LCL. Sarebbero morti e tutto sarebbe finito.

Ormai, ogni cosa non aveva più importanza.

L'ultimo pensiero, era per lei.

Poi le fiamme arrivarono. Avvolsero la pietra. E tutto svanì.

 

 

*

 

 

Quando Winston si rese conto di quello che stava per accadere, cominciò a correre. Non aveva idea di dove avrebbe potuto rifugiarsi, ma l'istinto gli imponeva comunque di muoversi.

Per tutta la vita, da quando era stato abbastanza grande per farlo, si era trovato in situazioni di rischio. Sinceramente, cominciava proprio ad averne abbastanza.

Si voltò. L'Exelion era ormai vicinissima al suolo. Winston non osava pensare a quello che sarebbe accaduto se la nave fosse entrata in contatto con quella dannata materia primordiale.

Maledisse quell'idiota di Wiesbaden, per essersi messo a cercare qualcosa di tanto terribile. E maledisse se stesso, per essere ancora una volta finito in una situazione del genere. E per non essere riuscito a fermare prima ogni cosa.

L'unico sollievo, era che Lisa e Samuel non erano là. In qualche modo, forse, se la sarebbero cavata.

Era tutto quello che poteva sperare. Tanto, per loro non poteva fare più molto. Non poteva fare molto nemmeno per se stesso.

Fece per svoltare dietro un edificio, ma la strada si interruppe bruscamente, sbarrata da una balconata. Winston si avvicinò al muricciolo, sporgendosi sul baratro. Sotto di lui, si apriva un abisso senza fondo, dove si scaricava un fiume sotterraneo.

Era la fine. Winston udì un rombo, in lontananza. Vide un riflesso di fuoco, illuminare il cielo e il fumo levarsi altro. Poi, gli edifici più lontani parvero sbriciolarsi. Sgomento, Winston si accorse che un'onda di fuoco alta alcune decine di metri stava avanzando verso di lui a velocità impressionante, cancellando ogni cosa al suo passaggio.

Si voltò, fissando il buio sotto di lui, così denso da non lasciar filtrare luce. Era strano. Era come se improvvisamente sentisse di avere a disposizione tutto il tempo del mondo. Era il mondo stesso ad essersi fermato, o la sua vita? Non avrebbe saputo dirlo.

Alzò gli occhi. Le fiamme erano già davanti a lui. Non aveva più scelta.

Rassegnarsi e morire. Oppure rischiare.

Ancora una volta, rassegnarsi gli sembrò impossibile.

Con un gesto che gli sembrò persino ridicolo, si gettò di sotto. Ebbe il tempo di vedere le fiamme esplodere alle sue spalle, e cancellare ciò che restava di Atlantide. Mentre cadeva, avvertiva l'odore del fumo, e della distruzione sopra di lui.

Però, non aveva paura.

Tanto, ormai, avere paura non aveva più alcun senso.

 

 

Cari lettori, ciao a tutti!

Finalmente con questo – lungo - capitolo si conclude questa prima parte. Spero vi sia piaciuto, perché a me ha divertito molto scriverlo. È stato un vero tour de force... Per sapere quale sarà il destino di Jean e degli altri, però, dovrete attendere il prossimo capitolo, in cui, dopo un sacco di tempo, ritroveremo finalmente proprio lei: Nadia! Eh, sì, non vedo l'ora: praticamente posso dire di aver imbastito tutta la storia fino qui solo per poter scrivere i capitoli da qua alla conclusione. Sono felicissimo di essere arrivato fin qua insieme a tutti voi e spero che mi farete compagnia ancora fino alla fine.

 

Al prossimo capitolo, dunque!

 

Un carissimo saluto

Puglio

  
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