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Autore: Nonamedgirl    08/07/2012    9 recensioni
vincitrice del contest "Amore? No, grazie"
prima classificata

Storia scritta dalle 4 alle 5 di una notte di incubi, che mi hanno dato l'idea per scrivere questo racconto.
Cecilia si guarda intorno: come al solito il marito l'ha trascinata a una cena nella villa di qualcuno di cui non sa nemmeno il nome.
E, neanche a dirlo, ha un pessimo gusto in fatto di quadri; uno in particolare la colpisce: è cupo, rappresenta un bosco spoglio, illuminato da un debole chiaro di luna che sta per essere coperto dalle nubi di un temporale. Sullo sfondo appare un castello, con ampie vetrate illuminate.
Il maggiordomo avvisa che la cena è servita, e la gente prende posto a tavola.
[...]
Poi i suoi occhi si posano sulla vetrata di fronte a lei: c'è un bambino che li guarda mangiare, pallido, cadaverico, quasi bianco se non fossero nere le sue occhiaie. Li fissa con due enormi occhi rossi, magari ha pianto, magari è un povero orfano. Si lecca le labbra, le morde, e non ci vuole molto a capire che dal modo in cui li fissa deve avere davvero fame.
Genere: Angst, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: L'Ottocento
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Storia vincitrice al contest "Amore? No, grazie" di SNeptune84
link che non so inserire --> http://freeforumzone.leonardo.it/discussione.aspx?idd=10387726&p=1
non appena avrò tempo inserirò anche un'immagine :)
nel frattempo, spero vi piaccia

 

Fame nera

 

 

Parigi, 1864.

Cecilia si guarda intorno: come al solito il marito l'ha trascinata a una cena nella villa di qualcuno di cui non sa nemmeno il nome.

E, neanche a dirlo, ha un pessimo gusto in fatto di quadri.

Due in particolare la colpiscono: uno raffigura un bosco spoglio, illuminato da un debole chiaro di luna che sta per essere coperto dalle nubi di un temporale. Sullo sfondo appare un castello, con ampie vetrate illuminate.

L'altro riporta una figura scura, pallida e quasi scheletrica, coperta da un cappuccio nero. Quello che le fa venire un brivido di freddo, però, sono gli occhi rossi, iniettati di sangue.

Sulla cornice c'è una targa che riporta l'autore e il titolo dell'opera: “Fame nera”.

Il maggiordomo avvisa che la cena è servita, e la gente prende posto a tavola. Gente che Cecilia non conosce, ma capisce dai pettegolezzi che è costretta a sorbirsi che quel tipo ha un figlio bastardo, e che quell'altro se la fa con la nuova cameriera mentre la moglie lo tradisce con il giardiniere.

Poi i suoi occhi si posano sulla vetrata di fronte a lei: c'è un bambino che li guarda mangiare, pallido, cadaverico, quasi bianco se non fosse per le sue occhiaie nerissime. Li fissa con due enormi occhi rossi, magari ha pianto, magari è un povero orfanello. Si lecca le labbra, le morde, e non ci vuole molto a capire che dal modo in cui li fissa deve avere davvero fame.

“Caro...”

“Dimmi, Cecilia”

“Guarda quel bambino: non credi che dovremmo...”

Lui la guarda divertito.

Poi guarda il bambino, con quei suoi rivoltanti occhi porcini: ride, mentre divora avidamente una coscia di pollo. Il bambino lo osserva, triste.

Cecilia prende una fetta di pane, e fa segno al ragazzino di passare alla vetrata alle sue spalle.

Lui, esitante, percorre il perimetro esterno della sala da pranzo, e arriva alla vetrata alle spalle dei coniugi. Cecilia allunga la mano col pane, attraverso il piccolo vetro aperto, ce l'ha quasi fatta, il bambino la guarda come se fosse Dio in terra...

Ma una mano le afferra il polso e la blocca. Una mano grassa e unta.
“Cecilia, per l'amor del cielo...” la rimprovera.

Per cosa? Per dar da mangiare a un bambino affamato? Per seguire un istinto materno, o semplicemente umano?

Questo vorrebbe rispondergli, Cecilia.

Ma non può.

Lei è una donna.

Donna significa sottomissione, rinuncia, debolezza.

Guarda il bambino affranta, e lui ricambia lo sguardo, disperato.

Poi si volta. Tenta di ignorarlo, ma il suo sguardo le pesa.

Lo sguardo di una bestia ferita.

Lo sguardo di un orfanello affamato.

 

***

 

La cena è finita, ringraziamenti, moine, affetto più falso di una moneta tarocca.

Cecilia non guarda l'orfano, all'uscita.

Non potrebbe sostenere il suo sguardo.

Eppure sente che lui la osserva.

Lei l'ha illuso.

Lei capisce di provare qualcosa che non proverebbe, se non fosse nata in un quartiere povero, e se suo marito non l'avesse tirata fuori da lì, innamoratissimo.

 

***

 

Cecilia sta di nuovo osservando il quadro.

“Sfioralo....”

Lei lo sfiora.

E poi si guarda intorno.

È in una foresta, accompagnata solo da Geremia, il servo che le è vicino da quando era giovane.

È notte. Geremia la prende per mano, lei si fida di lui, come ha sempre fatto, seguendolo.

“Odo dei suoni, padrona!”

Lei non li sente.

Sente una voce che rimbomba: “Niente suoni per una vigliacca come te...”

“Sento degli odori, padrona!”

“Niente odori per una vigliacca come te...”

“Vigliacca!”.

“Vigliacca!”.

“Vigliacca!”.

“Vigliacca!”.

“Vigliacca!”.

Cecilia lascia la mano del servo per coprirsi le orecchie, ma è inutile, le voci non accennano a diminuire, la tormentano, non la lasciano stare.

Lei inizia a correre, corre lungo un sentiero in salita.

E arriva al castello.

Le vetrate, illuminate, mostrano una festa. Si ride, si mangia, si parla...

Si mangia...

Improvvisamente prova una fitta allo stomaco, sempre più forte.

Fame.

Fame nera.

Oscuro ricordo della sua infanzia, cancellato, rimosso.

E riapparso.

Quando lei rialza lo sguardo dal suo ventre la sala è buia, e infuria un temporale.

I lampi lasciano intravedere l'interno, vuoto, polveroso.

Le gocce di pioggia sembrano aghi, il vento la fa rabbrividire, e Cecilia decide di entrare.

Nell'ingresso c'è una figura accovacciata, e lei non osa avvicinarsi.

Si alza.

È un bambino.

È il bambino della vetrata.

La fissa, ancora più pallido, ancora più cadaverico, avvicinandosi.

Ad ogni passo, illuminato a intermittenza dai lampi, diventa più grande, alto, i suoi denti si fanno aguzzi, la sua schiena si inarca, la sua figura si fa più scura, fino a diventare nera. Eccetto gli occhi, che sono ancora più rossi.

 

“Corri...”

Cecilia non se lo fa ripetere due volte.

Si fionda fuori, senza voltarsi.

Corre, inciampa, si rialza, corre, corre, corre, incespica, corre, le si rompe un tacco, rotola lungo la discesa, è sporca di fango, fradicia di pioggia, abbagliata dai fulmini.

E ha fame, una fame nera, che la divora dall'interno.

 

***

 

Si sveglia, le labbra spalancate in un grido muto.

Non un suono dalla sua bocca.

L'anziana cameriera che veglia su di lei ogni notte le si avvicina: “Stia tranquilla, signora, ha solo avuto un incubo. Posso fare qualcosa per lei?”

“Chiamami Geremia.”

 

***

 

“Più veloce! Più svelto!”.

La carrozza sfreccia per le vie di Parigi.

Ecco la casa.

Il cocchiere non ha nemmeno il tempo di dire un “siamo arrivati” che la signora è già scesa, con un cesto di viveri in mano.

Sono davanti alla casa dei signori dove lei e suo marito sono andati a cena.

È certa di trovarlo lì, anche se non sa perché.

Infatti non si è mosso, si è solo rannicchiato.

Il capo chino sulle ginocchia, le gambe circondate da quelle braccia esili come fuscelli.

Cecilia si inginocchia davanti a lui, felice di averlo trovato.

“Bambino! Tieni, ti ho portato da mangiare!”

Non riceve nessuna risposta.

“Bambino...” sussurra incerta.

Poi capisce.

Un principio di lacrime sale, la mano che si porta davanti alla bocca soffoca un singhiozzo.

E lentamente una figura nera incappucciata si allontana per le strade di Parigi.

   
 
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