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Autore: xmosquito    09/07/2012    0 recensioni
«Un posto morto, dove tutti sanno di tutto, e nessuno si fa mai i fatti propri. E poi, chi, come me, ama la riservatezza, passa per quella terribilmente strana. Ormai sono abituata al clima delle persone di Smallway. Una cittadina piuttosto piccola, nel Nord America, sempre distinta tra le altre non per l’attuale arretratezza e la vitalità pari a quella di un cimitero, ma per la lunga storia di omicidi che la riguardano.»
Genere: Drammatico, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il sole è dannatamente cocente. Le labbra sanno ancora dell’ultima ciliegia rubata dall’albero dei vicini, ed ogni volta che mi avvicino ad esso, sembra una fuga da un carcere. Devo correre, per non farmi vedere, o, meglio, per non ricevere una ciabatta dritta sulla schiena. Mi odia, non capisce che non faccio del male a nessuno buttandomi nel suo giardino e rubando qualche frutto; non capisce che non c’è nulla di male, non sono una ladra. Nemmeno se glielo chiedessi per favore mi lascerebbe fare, troppo preziose quelle ciliegie che lascia lì, ogni anno, a marcire. Troppo preziosa qualunque cosa che riguardi me: non mi ha mai rivolto davvero la parola, né io, né mamma sappiamo il perché. Da quando papà è morto, l’intero vicinato è come se avesse creato una barriera invisibile contro di noi: non ci vengono mai a trovare, mai ci parlano, nemmeno sappiamo di quello che accade. Ci sentiamo rinchiuse in un ghetto, grande quanto una casa. La nostra casa.
Mi fiondo sulle scale distrutte della casa che si trova sul’immenso albero che vi è davanti casa, e, no, non un ciliegio. Un semplice albero di nocciola, ormai senza frutti da diverso tempo; salgo con velocità quei pezzetti di legno calanti, fino ad arrivare al mio unico e vero rifugio. Nella maggior parte delle volte esso serve a ripararmi dal caldo, a stare lontana da tutte le persone che continuano ad ignorarci da mesi, senza motivo, ma soprattutto ad avere il dialogo più bello che possa desiderare: quello con me stessa. Un lungo confronto. Io ed Eileen parliamo di tante cose: Eileen sale sull’albero, Eileen rischia l’ennesimo sasso lanciato dalla vicina, Eileen si sente terribilmente sola. Un incubo. I capelli color cioccolato mi ricadono lungo la schiena, tenuti in ordine solo con l’utilizzo di un terribile cerchietto che non fa altro che farmi male, la piccola canottiera e gli shorts che indosso non bastano per fare cessare il caldo, vorrei solo scappare in una qualche località di mare, mettermi in costume e starci per sempre. Quello sarebbe un paradiso, non il carcere in cui sono costretta a vivere da ormai anni. Un posto morto, dove tutti sanno di tutto, e nessuno si fa mai i fatti propri. E poi, chi, come me, ama la riservatezza, passa per quella terribilmente strana. Ormai sono abituata al clima delle persone di Smallway. Una cittadina piuttosto piccola, nel Nord America, sempre distinta tra le altre non per l’attuale arretratezza e la vitalità pari a quella di un cimitero, ma per la lunga storia di omicidi che la riguardano. Nel 1263 vi fu l’assassinio di Virginia Smallway, la figlia dei fondatori attuali. Il collo pieno di graffi, la testa mozzata, il corpo ridotto a pezzi. 1581, Lucy Portman morì di freddo, ormai ridotta a pelle ed ossa e piena di sangue, lo stesso identico segno sul collo. E poi ne seguirono altri, come quello dell’anziana signora che abitava nell’ormai centro storico della cittadina nel 1800, o quello del soldato del 1941, o il ragazzo psicopatico del 1990. Dall’ultimo assassinio di ventidue anni fa, nessuno ne ha più parlato, ma gli abitanti continuano ad esserne spaventati. Molti se ne sono andati, altri, come me e mia madre, non possono permettersi di andarsene per soldi, e poi ci sono gli anziani che non potrebbero mai abbandonare il luogo in cui hanno vissuto per anni.
- Non pensi sia ora di scendere da quella casetta traballante? – Alexander. Probabilmente è l’unica persona, oltre mia madre, che si diverte a passare qualche ora insieme a me. Eppure non mi sta nemmeno particolarmente simpatico, ma insiste, e la cosa mi piace. Non mi piace però la sua sfacciataggine, il suo mettersi sempre nelle faccende degli altri, e quegli occhiali enormi che non si toglie mai, una brutta copia di Peter Parker. Me ne resto seduta, poggiando quel libro di fiabe che avevo preso tra le mani. Non ho mai tolto nulla da questa casetta, ogni cosa è rimasta intatta da quando mio padre decise di costruirmela, avevo solo cinque anni.
- Sparisci, Alexander. – Mi limito a dire, anzi, ad urlare. Ha un anno in più di me, diciotto anni, ma sembra che ne abbia due. Si diverte con così poco che sfiora la pateticità. Non mi muovo nemmeno di un passo, scrollando le spalle. Se mi vuole vedere, basta che faccia attenzione e che salga le scale. La casetta è poco stabile, certo, ma riesce ancora a sostenere due persone del nostro peso. Alexander, infatti, è il ragazzo più mingherlino che abbia mai visto: alto circa un metro e ottanta, è talmente magro che potrei vedere i segni delle ossa dalla sua pelle. Non dico niente, quando, sento il rumore delle scale cigolare, mentre, quando me lo ritrovo davanti, non riesco a non roteare gli occhi vedendo la sua solita espressione da pesce lesso.
- Bé, buon pomeriggio – Sibila, sedendosi vicino a me e iniziando a sfogliare con noncuranza il libro che ho appena chiuso. Io taccio, fulminandolo con lo sguardo: è possibile buttarlo giù o cadrebbe anche l’intera casetta?
- Non dirmi che Eileen Johnson passa le sue giornate leggendo mago scorreggia e le sette puzzette. E’ dunque questo il tuo temibile hobby? – Vorrei schiaffeggiarlo, ma resto in silenzio ancora.
- Oh, no, capito. La tua vicina ti ha finalmente tagliato la lingua. – Probabilmente, che la signora voglia farlo, non è una novità. Ma saprebbe di finire in carcere ed inoltre si sente troppo vecchia e, ripeto, non è per sensi di colpa o per umanità. Mi odia, da quando ho deciso di divertirmi rubandole le ciliegie, e, come gli altri, m’ignora da quando mio padre è morto.
Scuoto il capo, ma è lui che continua a parlare. – Un segno di vita, paura.
Gli strappo il libro dalle mani, alzandomi e appoggiandolo sul tavolino a fianco, ormai marcio. Delle volte mi chiedo perché ci stia ancora qui, e l’unica risposta è ricordi.
- Delle volte spero che la serie degli omicidi colpisca te. – Scherzando, gli parlo di quanto sia irritante alle volte, e di quanto lo odio quando fa così. Ma la sua espressione non cambia di una virgola, sempre quel sorrisetto da ragazzo da prendere a schiaffi.
- Sempre più gentile, Eileen, sempre più gentile: dovresti scrivere un libro sul bon ton, diventerebbe un best seller. – Solo ora noto che porta qualcosa con sé, uno zainetto color militare pieno di buchi. Faccio un cenno verso di esso, interrogativamente. – A cosa ti serve? –
Lui lo apre ed estrae la marea di libri e cartacce che si trovavano al suo interno. – Ricerche, e mi serve una tua mano. Tu sai tutto, sei l’unica che si è interessata a tutto ciò. –
E’ la prima volta dopo cinque anni che ci conosciamo, che m’interesso davvero a un suo discorso, l’unica volta era successa proprio durante il nostro primo incontro. Lui mi aveva portato dei cioccolatini poiché nuovo arrivato nel quartiere, nonostante quella che doveva farlo ero io. E mi aveva fatto piacere, poi, ovviamente, avevo conosciuto la persona e qualche volta avevo anche pensato che era stato obbligato a portarmeli, fino a quando non me lo disse di sua spontanea volontà.
- Di che cosa stai parlando? – Domando, prima di prendere un foglio tra le mani ed avere le idee decisamente più chiare.
- Gli omicidi di Smallway. -
Allora, questa è la mia prima storia fantasy e quindi so che non è il massimo, e, questo capitolo è corto rispetto alle aspettative, ma lo conto come un Prologo, diciamo. Comunque spero che la storia sia apprezzata molto più di quanto lo sia da me stessa, e mi vanno bene anche le critiche. Grazie per la lettura, Nazza (:
  
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