CAPITOLO 22
“DANCING ON OUR OWN”
Il respiro si bloccò mentre l'ultimo frammento della
sua sagoma spariva dietro lo stipite.
Il suo cuore mancò un battito.
Le sue labbra tra i denti.
Lo stomaco in gola.
Lascialo andare.
Lascialo andare.
Lascialo andare.
"Davis!"
Urlò.
Con tutta la voce che aveva.
Senza nemmeno aver dato il comando al cervello.
D'istinto mosse due passi lasciandosi la bambina alle
spalle, voleva essere sicura che si fosse fermato.. perché non era così che
doveva finire.. Se fosse mai arrivato nella sua vita il momento in cui avrebbe
visto Davis Miller per l'ultima volta, non è così che l'avrebbe vissuto.
Dair sbuffò la sua rabbia con un gesto di stizza.
Quante volte ancora sarebbe dovuta finire in quel modo? Lui era già stanco di
fuggire, stanco di quel continuo andirivieni di parole e di occasioni sfumate.
Indietreggiò verso Sophia mentre l'ombra di Davis tornava indietro poco a
poco.. Non voleva più guardarlo in faccia.
Davis riapparve nella stanza con un'espressione
vagamente simile ad un sorriso
"Ho forse dimenticato qualcosa?"
Eden tirò un sospiro di sollievo, ma non lo diede
troppo a vedere. Nella sua mente cominciava ad affiorare la malsana idea che
alla fine potessero andarsene tutti e quattro insieme verso un posto più
sicuro, senza tutta quella necessità di decisioni definitive.
Scosse la testa. Non sarebbe andata in quel modo.
"Dacci un minuto."
Chiese voltandosi. Il tono dolce e tenuto basso
affinché, dopo tutto, potesse sembrare una proposta accettabile.
Dair scrollò le braccia
"Cosa?"
Scosse la testa cercando di trattenere lo stupore per
non spaventare la bambina attaccata alle sue gambe.
Eden si voltò verso di lui, nel suo sguardo e nelle
sue movenze una grazia decisa
"Per favore... Porta Sophia di là, ci vorrà solo
un minuto."
In realtà non sapeva se un minuto sarebbe bastato, ma
doveva restare sola con Davis se voleva finalmente essere sincera.
Il sopriro di disapprovazione di Dair riempì la
stanza, decise che avrebbe comunque avuto ancora un briciolo di rispetto per la
situazione. Nella sua testa quella scena si sarebbe risolta in maniera del
tutto diversa e benché la divisa non gli mancasse troppo, il desiderio di
sbattere Davis in una cella era sempre forte e vivo.
Convinse una piccola, assonnata e confusa Sophia a
seguirlo in cucina per latte e biscotti.
Quando Eden e Davis incrociarono di nuovo gli occhi,
senza nessuno intorno, lo sguardo di lui si scurì di botto. Le ferite
dell'orgoglio erano più vive che mai e la mancanza di possibili testimoni
esortava la sua parte oscura a venir fuori.
Eden deglutì
"Non possiamo più andare avanti così."
Davis non rispose. Lei riprese fiato
"Devo pensare a mia figlia."
Qui lui si mosse
"Nostra..."
Sottolineò
"...Nostra figlia."
Eden annuì abbassando gli occhi per un momento
"Non posso fare finta che gli ultimi cinque anni
non siano passati..."
Di nuovo provò a guardarlo in viso, ma i suoi occhi
erano scuri e vitrei.
"...Non posso fare finta che tu non sia quello
che sei..."
"Sarebbe solo colpa mia quindi?"
La interruppe lui. Il suo sopracciglio destro
tremolava, ma il resto del suo corpo era ancora immobile.
"Tu..."
Esordì in risposta
"Tu sei l'artefice di tutto questo."
Eden incassò il colpo e si mosse prima che lui potesse
continuare
"Ti prego, non voglio l'ennesima inutile
discussione."
Quella frase iniziò decisa come una richiesta, ma finì
labile come una preghiera.
"Inutile??"
Davis si morse il labbro, abbastanza stretto da farsi
male
"Io c'ho provato credimi, ci provo con tutte le
mie forze, ma tu..."
Strinse i pugni
"...Tu avresti dovuto dirmi che cosa stava
succedendo.."
"Cosa?"
Davis non rispose, lasciando all'immaginazione ogni
riferimento.
Prese di nuovo fiato
"Tu hai fatto di un altro il padre di mia
figlia."
Eden indietreggiò scuotendo la testa
"No Davis, questo no."
Dair non era il padre di Sophia e non lo sarebbe mai
stato, indipendentemente da come le cose potessero mettersi tra loro. Sophia avrebbe saputo la verità, almeno su
quello, sui suoi genitori e sul loro amore.
Sua madre l'aveva cresciuta raccontando solo i difetti e gli errori di
un padre che non aveva mai conosciuto e lei non avrebbe mai fatto la stessa
cosa a sua figlia.
Di nuovo Davis la fissò in quel modo
"Ma non pensare che ci rinunci."
Eden si sentì per metà sollevata da quell'affermazione
"Ti capisco..."
Replicò cercando di arrivargli più vicino, le labbra
socchiuse aspettando l'arrivo delle parole più giuste.
Lui non si mosse e non si lasciò distrarre dai segni
della stanchezza sul viso di Eden. Le sue lunghe ciglia scure battevano
comunque allo stesso ritmo, quasi tentassero di nascondere il timore nei suoi
occhi, come ogni volta che stava per dire qualcosa di davvero onesto
"...Non avevo mai pensato prima d'ora che
rinunciare fosse tanto difficile."
Conluse, con un sospiro che mosse l'aria tra lei e
Davis. Era combattuta e lui poteva vederlo chiaramente... Così combattuta che
stavolta forse avrebbe finito per scegliere una strada diversa.
Davis aggrottò le sopracciglia
"Vuoi davvero andare con lui?"
Eden abbassò il viso, sperando che senza guardarlo
potesse mentire, ma fissare il pavimento non bastò
"No..."
Confessò cercando di muovere i suoi occhi il più
possibile lontano dalla visuale di Davis
"...Ma devo."
Lui inspirò cercando il suo sguardo senza trovarlo, allungò
la mano verso il suo viso, lo raggiunse e si mosse, delicato e deciso, finché
Eden non sollevò il mento.
Gli occhi di lei brillavano di lacrime prossime e
voglia di un bacio.
"Io non..."
Le parole di Davis si fermarono a metà, la sua
espressione tornò scura ed estranea di colpo. I suoi occhi ora fissavano un
punto che non era più il viso di Eden.
Lei si guardò intorno d'istinto senza capire.
La mano di Davis si allontanò definitivamente da lei
così come il suo corpo, pochi passi lenti lo portarono al di là di sua moglie e
del loro discorso in sospeso.
C'era improvvisamente qualcosa di molto più importante
a cui pensare.
"Merda."
Imprecò tra le labbra mentre Eden individuava
finalmente l'oggetto della sua preoccupazione.
Si erano distratti abbastanza da non notare cosa stava
succedendo sul monitor di controllo lasciato acceso da André.
Auto. Auto intorno alla casa.
E persone.
Agenti per l'esattezza.
Agenti armati schierati intorno alla loro casa.
Mentre Eden stava per parlare due colpi decisi alla
porta ne furono la conferma. Erano lì.
Davis sembrò pensare tutto in un secondo
"Andiamo!"
Eden rimase impalata
"Sophia."
Di nuovo colpi alla porta.
Dair si affacciò dalla cucina
"Che succede?"
"L'FBI."
Davis fu schematico. Nel contempo dalla sua valigetta
tirò fuori una pistola. Fece scattare la sicura.
"Andiamo!"
Ed era l'ultima volta che lo diceva.
"Prendo Sophia!"
Eden fece per muoversi, ma rimase dov'era.
La porta della casa venne spalancata con un solo colpo
deciso, quattro agenti armati si buttarono dentro. Fuoco puntato e pronti a
sparare.
Fortuna volle che Dair si trovasse lì, la sua presenza
all'entrata di quella casa, con un bicchiere di latte in mano, distrasse i suoi
ex agenti abbastanza a lungo da permettere a Davis di volatilizzarsi.
Eden invece non capì cosa le stesse succedendo.
Una stretta morsa alla vita e qualcosa, o qualcuno,
che la trascinava via. Più provava a spingere verso la cucina e più se ne
allontanava.
Si sentì sollevare e, solo dopo aver preso contatto
con la pelle fredda, capì di trovarsi su un'auto che sfrecciava via a tutta
velocità. Lo stomaco le arrivò in gola mentre provava a seguire le curve e
dovette stringersi la testa tra le gambe per non sentire gli spari.
Venivano da fuori, ma anche da quella macchina.
Si sollevò prima di vomitare, Davis stringeva il volante con una mano
mentre con l'altra sparava colpi verso gli agenti. Per fortuna erano meno di
quanti temesse.
"Fermati!"
Esclamò
"Fermati! C'è nostra figlia lì dentro!"
Lui sembrò non ascoltarla
"Reggiti."
Ordinò mentre afferrava il freno a mano. Un gesto
deciso e l'auto si girò di novanta gradi in un secondo, senza minimamente
rallentare.
Eden si ritrovò appiccicata alla portiera.
"Aspetta! Devo tornare lì!!"
Urlò, ma lui di nuovo non rispose.
E non disse nulla finché i rumori esterni furono
zittiti. L'ultima manovra indelicata e la macchina si fermò dopo aver sceso il
bordo della strada. In quell'angolo di campagna e desolazione che avevano
raggiunto sembrava regnare un minimo di tranquillità.
"Scendi. Dobbiamo muoverci."
Davis abbandonò immediatamente l'abitacolo ed Eden si
sentì costretta a seguirlo mentre correvano tra alberi e baracche
fatiscenti. Continuava a pensare di aver
lasciato sua figlia da sola, ma le gambe si muovevano da sole mosse dalla paura
e dall'urgenza.
Un'infinità di passi dopo Davis si fermò di fronte ad
una piccola casupola di legna e rottami.
Ruppe la porta di assi marce con un calcio e spinse Eden dentro. Il sole
era quasi completamente sorto e l'intero armamentario delle forze dell'ordine
si stava muovendo per cercarli. Doveva pensare in fretta.
Senza nemmeno notare la polvere e la sporcizia del
posto tirò fuori il cellulare dalla tasca del giubbotto.
Eden iniziò ad agitarsi
"Devo tornare indietro! Dobbiamo tornare!... Oh
Dio, che cosa sarà successo??"
Lui la congelò con lo sguardo
"Devi stare zitta adesso."
Eden rimase di sasso
"Come fai ad essere così tranquillo?!"
Tranquillo?? Non c'era una sola cellula nel corpo di
Davis che fosse tranquilla al momento.
Compose qualche numero prima di risponderle
"E' una bambina, non le faranno niente..."
Si interruppe in attesa di sentir squillare all'altro
capo
"...E poi c'è il tuo amico con lei."
Era dura da ammettere, ma a giudicare da quel che
aveva visto, per quanto doloroso, Dair avrebbe tenuto al sicuro sua figlia.
Eden non si rilassò, mentre Davis parlava al cellulare
a malapena percepì le sue parole. Un certo McClair li avrebbe aiutati a venir
fuori da quel casino.
Davis si infilò di nuovo il telefono in tasca e
sospirò guardando fuori. Quei minuti sarebbero stati lunghissimi.
"Sei sicuro che starà bene?"
Chiese lei ancora piuttosto angosciata. Davis la guardò con la coda dell'occhio
"Non le succederà niente. Mai."
Eden si sforzò di annuire. Era confusa e spaventata,
ma nuovamente, anche davanti a questo timore, avrebbe lasciato le redini del
comando a Davis.
Sorprendente e meraviglioso come nonostante tutto
riuscisse sempre a fidarsi di lui.
Seguì un lungo silenzio. Lui continuava a fissare il nulla da una
fessura delle travi ed Eden lo guardava da lontano.
Era sempre lo stesso. Gli abiti sgualciti e poche
gocce di sudore che brillavano la luce dell'alba sulla sua fronte. Le braccia
incrociate e l'espressione imbronciata mentre vagliava ogni possibile
soluzione.
Probabilmente erano gli ultimi momenti che passava con
Davis e voleva farne tesoro, fotografando ogni millimetro della sua presenza.
Al di là delle legittime preoccupazioni l'avrebbe
ringraziato di averla trascinata via con sé.
Le stava regalando non poco.
Davis si voltò trovandola immediatamente a portata di
sguardo
"Andiamo."
Eden annuì senza parlare. Si strinse nella felpa
sciogliendo i muscoli delle gambe poi lo seguì alla porta.
Fuori un anonimo furgone blu ed un conducente dai
tratti stranieri. Mediorientali per l'esattezza.
Il tizio non disse nulla mentre gli indicava di salire
dietro.
Davis aprì la portiera posteriore e lasciò che Eden
salisse per prima offrendole una mano come appoggio.
Anche lì dentro era sporco e piuttosto buio.
Eden inspirò l'intenso odore di terra e prodotti
chimici. Tossì cercando di risputarlo fuori.
"Sarà un viaggio breve."
Davis provò probabilmente a rassicurarla. Seduto su
una cassa di legno fissava per terra.
Eden inspirò di nuovo, pian piano il suo naso stava
abituandosi all'odore.
"Perché mi hai portata con te?"
Lui sollevò lo sguardo, così ardente che avrebbe
potuto inchiodarla alla parete.
"Non avevo finito il mio discorso."
Non era quello che stava pensando davvero, era solo la
prima risposta a portata di mano.
Eden arrossì appena respingendo i suoi pensieri più
intimi.
Deviò gli occhi verso un'altra direzione senza
insistere, rimase in silenzio finché il mezzo si fermò.
Davis balzò in piedi e portò d'istinto la mano alla
pistola. Non poteva vedere cosa stesse succedendo fuori e sperò che fossero
semplicemente arrivati.
L'autista improvvisato di nuovo non disse una parola
mentre apriva le porte.
Stavolta Eden scese per seconda, guardando intorno a
sé una fitta schiera di volti sconosciuti.
Davis si sforzò di sorridere mentre improvvisava una
sorta di saluto da confraternita con quegli uomini. Lui e quello al centro si
strinsero la mano avvicinandosi in un breve abbraccio virile. Era un uomo alto
coi capelli chiari e le braccia tatuate.
"Grazie John."
Lui sorrise di nuovo
"Te lo dovevo amico. Non ho mai dimenticato come
mi hai salvato il culo a Vegas."
Eden aggrottò le sopracciglia. L'ennesimo pezzo della
sua vita che non conosceva.
McClair sorrise anche a lei
"Finalmente conosco la tua signora!"
Eden si sentì in imbarazzo, non per l'appellativo, ma
per il disastro che doveva essere il suo viso. Sollevò un angolo della bocca
senza troppo scomporsi mentre gli stringeva la mano.
"Potete usare il bungalow per darvi una
sistemata. Vi procuro un aereo in un paio d'ore."
Eden guardò la casetta di legno alla sua destra,
sembrava realmente accogliente.
"Grazie ancora."
Davis scambiò una nuova stretta di mano con McClair e
si avviò verso la piccola abitazione. Eden lo seguì assaporando il momento in
cui avrebbe potuto togliere gli stivali e godersi una doccia calda.
L'arredamento era povero, ma essenziale e pochi pezzi
scelti lasciavano trasparire il reale potere d'acquisto del proprietario.
Doveva essere solo una specie di rifugio usato di rado.
Eden venne immeditamente fuori dalle scarpe
lasciandosi sfuggire un gemito di puro piacere.
Lui lo raccolse al volo fermandosi per qualche secondo a scorrere la sua
figura sottile. I capelli finalmente sciolti. La maglietta macchiata di terra e
la biancheria scura a contrasto con la pelle bianchissima della spalla.
"Vuoi fare una doccia?"
Lei annuì resistendo al primo istinto di togliere
immediatamente i vestiti.
"Faccio in fretta."
Precisò prima di chiudersi nel piccolo bagno dalle
piastrelle color lavanda.
Davis rimase nella stanza ad ascoltare il rumore
dell'acqua calda che si infrangeva sulla ceramica e sul corpo di Eden.
Tolse le scarpe e sbottonò la camicia. Si passò le
mani tra i capelli mentre aspettava il suo turno per la doccia.
Era stanco e visibilmente agitato. L'adrenalina della fuga scorreva ancora nelle
sue vene, ma non era solamente quella a turbarlo. Aveva trascinato Eden con sé cedendo all'istinto..
fuggire da solo sarebbe stato infinitamente più semplice, ma lui l'aveva
afferrata comunque, stretta a sé e portata in macchina.. Anche contro la sua
volontà.
La sua volontà sarebbe stata quella di andarsene con
un altro.
Eccola accendersi di nuovo.. L'agitazione gli faceva
tremare le mani e bruciare lo stomaco. Non poteva sopportarlo. Non ora, non in quel momento, non lontano da
tutto e tutti... Senza distrazioni esterne quel pensiero gli riempiva la testa,
chiedendo al vero Davis Miller di venire fuori.
Eden uscì dal bagno avvolta in un asciugamano bianco,
la pelle ancora umida ed i capelli bagnati, già arricciati per via della nuvola
di vapore che si portava dietro. Mollò
la presa sulla maniglia e cercò Davis con lo sguardo.
Era lì di fronte. La camicia sbottonata lasciava
intravedere la linea dei pettorali ed il lungo tratto verticale che dal petto
in giù delineava i suoi addominali, fino all'ombelico e all'orlo dei jeans.
Inspirò profondamente stringendosi nell'asciugamano
"Puoi andare se vuoi.. Ti ho lasciato l'acqua
aperta."
Davis rimase a fissarla con le labbra socchiuse e le
braccia tese lungo il corpo. Eden si mosse indietro senza nemmeno accorgersene,
l'aria sembrava mancarle d'improvviso e quegli occhi le bruciavano addosso..
gli perforavano la pelle.. trafiggevano ossa e muscoli fino ad invadere ogni cellula..
fino a raggiungere i confini della sua anima.
"Che c'è?"
Riuscì infine a domandare in un sussurro. Davis le fu
presto più vicino, senza mai staccare gli occhi da lei. Eden si strinse ancor più stretta
nell'asciugamano e lui scosse appena la testa. Inutile che cercasse di
coprirsi, lui sapeva perfettamente cosa c'era sotto quel pezzo di tessuto
bianco.
"Come puoi stare con un altro?"
Le chiese. La voce bassa e nervosa. Gli occhi che
continuavano a rimestarle dentro. Il tono quasi dispregiativo.
"Io non... Non sto con qualcun altro."
Balbettò.
Lui scorreva lo sguardo sulla sua sagoma quasi nuda.
"Ma ci vai a letto."
Ribatté stizzito.
Eden nuovamente scosse la testa
"E' stata solo una volta."
Nemmeno capiva perché sentisse il bisogno di
giustificarsi.
E intanto lui aumentava il ritmo del respiro. Ogni
boccata d'aria era più breve, ma più piena. Stava di nuovo immaginando la
scena... Una o cento volte non faceva differenza... Strinse i pugni mentre il
sangue gli scorreva più veloce nelle vene, le mani iniziarono a pulsare mentre
reprimeva ogni primo istinto.
Voleva punirla.
Punirla per averlo tradito.
Per aver concesso a qualcun altro qualcosa che era
stato solo suo.
"Come hai potuto farti toccare da lui?"
Eden aggrottò le sopracciglia. Quello sguardo stava
diventando troppo invadente e quell'espressione troppo pericolosa. Non aveva il
diritto di chiederle delle giustificazioni.
Prese coraggio
"E tu? Con quante sei stato mentre ero morta
?"
Davis avanzò minaccioso
"Non cercare di cambiare discorso. Stiamo
parlando di te..."
La afferrò all'altezza delle spalle. Strinse
abbastanza da far diventare la pelle bianca sotto la presa dei suoi
polpastrelli.
Avrebbe desiderato farle del male, tanto quanto gliene
aveva fatto lei, ma allo stesso tempo altri pensieri si facevano strada nella
sua mente.. pensieri carnali ed insidiosi prendevano forma mentre il suo sangue
iniziava a scorrere al contrario.
Voleva ciò che era suo.
Eden colse quella nuova scintilla nelle sue iridi.
Inspirò sentendo le gambe che iniziavano a tremare. La odiava e la voleva.
Lo odiava e lo voleva.
Lo schianto tra le loro labbra le fece quasi perdere
l'equilibrio. Era un bacio profondo, intrusivo, soffocante.
Lui la sollevò da terra usando il suo corpo per
spalancare la porta del bagno. Le tolse
l'asciugamano di dosso lanciandolo il più lontano possibile. Il corpo di Eden fu avvolto da quell'intenso
vapore caldo mentre cercava respiro fuori dalla sua morsa.
Davis la spinse sotto l'acqua quasi bollente, il getto li colpì in pieno mentre la schiena
di Eden sbatté contro la parete fredda della doccia. Continuava a baciarla
mentre la camicia fradicia gli si appicicava addosso, le sua mani dappertutto
fintanto che Eden continuava a cercar respiro. I suoi gemiti soffocati dal
rumore dell'acqua addosso.
Davis era una furia senza controllo, in preda al solo
desiderio di riprendersi ogni centimetro di quel corpo... Voleva cancellare
dalla mente di Eden e dalla sua pelle ogni ricordo di quell'altro... Voleva che
l'acqua lo portasse via, come se non fosse mai successo...
Eden era sua.
Di nuovo la sbatté contro il muro spingendo il viso
nell'incavo del suo collo.
"Tu sei mia."
Specificò mentre sbottonava i pantaloni.
"Tu sei mia."
Ribadì sollevandola con una presa alla vita.
Eden si appoggiò alle sue spalle annaspando in quella
breve attesa.
"Prendimi Davis."
Riuscì a dire guardandolo negli occhi. Era il
desiderio più onesto che avesse.
Lui non attese un secondo di più prima di farla sua,
spingendo e stringendo con tutta la rabbia che aveva dentro. Voleva sentirla
urlare, sicuro che nessuno conoscesse meglio di lui come farla godere.
Voleva che si dimenticasse per sempre di Dair.
La sentì soffocare i gemiti mentre gli affondava le
unghie nella pelle e non ne fu soddisfatto. Non era ancora abbastanza.
Stavolta la afferrò per i capelli, abbastanza deciso
da costringerla ad alzare il viso senza farle male. Ora poteva guardarla dritto
negli occhi mentre si muoveva. Adesso Eden non poteva più fingere... Sulle
guance arrossate e nelle pupille dilatate poteva chiaramente leggere i suoi
pensieri più intimi... Dentro quel corpo non c'era posto per altri se non per
lui.
Spinse più forte e poi si fermò appoggiando la fronte
sulla spalla di Eden.
Le contrazioni del suo corpo scemarono lentamente e
poté finalmente mollare la presa.
Chiuse il rubinetto rimanendo lì a fissare sua moglie,
stremata e bellissima.
Il suo respiro stantava a tornare regolare. Le aveva
dato tutto, sfogando su di lei rabbia, gelosia e dolore. Era davvero esausto.
Eden inspirò a fatica e lo lasciò allontanarsi.
Lo guardò togliersi i vestiti bagnati senza dire una
parola.
Lei raggiunse un nuovo asciugamano, ci si avvolse
dentro e pensò a cosa dire.
"Davis?"
Lui le rivolse immediatamente il viso. Era
stanchissimo, ma visibilmente più rilassato.
Eden rimase con le parole a mezza bocca, non più certa
che ci fosse qualcosa di giusto da dire. Se ci fossero stati solo loro due non
avrebbe avuto dubbi, ma mentre il suo corpo iniziava ad asciugarsi anche la
realtà sembrava tornare nitida un poco alla volta.
Stavolta però fu lui a sorprenderla. Un mezzo sorriso
si aprì sul suo volto, un sorriso che Eden non si aspettava... Un sorriso che
non vedeva più da tantissimo tempo.
Quell'attimo di pace fu presto interrotto dalla
suoneria del telefono di Davis. Il sorriso sparì e lui corse a rispondere.
Dall'altra parte la voce allarmata di André. Troppo allarmata.
"Sono solo."
"Come?"
"Sono solo Davis, solo! Nessun altro sta venendo
qui!"
"Blake non era con te??"
"No. Me ne sono andato da solo."
La sua espressione si pietrificò.
"Dove siete tutti?!"
Davis si leccò il labbro afferrando d'istinto la
pistola. La sua mente aveva già focalizzato la situazione.
"Ci vediamo a New York. Tu sai dove."
Chiuse la comunicazione restando bloccato per una
manciata di secondi. Tremava di nuovo.
Eden alzò il sopracciglio. Il terrore per la sorte di
sua figlia tornò a farsi sentire come un pugno nello stomaco.
"Che succede?"
Davis si voltò lentamente verso di lei.
Il sorriso di poco prima dimenticato per sempre.
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NEW YORK - Dipartimento generale della Federal Bureau
of Investigation.
"Andiamo! E' davvero necessario??"
Tyler stringeva tra le mani il cartellino mentre
l'agente dietro la fotocamera lo guardava con sufficienza. Le manette non gli permettavano di muovere le
mani più di quei venti centimetri e la sua apparente calma iniziava a dare
segni di cedimento.
Un flash improvviso gli ferì gli occhi. Ruotò il viso
d'istinto notando che poco più là un altro agente stava strattonando Payne.
"Hey! Toglile le mani di dosso!"
Quello gli rivolse un sorriso compiaciuto
"Muoviti col servizio fotografico, vi aspettano
in cella!"
Rispose spingendo Payne verso una grossa porta
d'acciaio a chiusura elettronica.
Lei guardò Tyler scuotendo la testa. Sperava solo che
non li separassero.
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Nella stanza accanto il vice-comandante McPhee
spingeva un piatto di pasticcini alle mandorle accanto ad una tazza di caffé
fumante. Poco più là un pacchetto di Marlboro.
"Serviti pure tesoro. Sarà una chiacchierata
lunga."
"Va' al diavolo."
McPhee sorrise maligno ed aggiustò il collo della
giacca blu lavata di fresco.
"Andiamo... Ho deciso di usare le buone maniere
con te..."
Gli scivolò dietro sfiorandola appena
"...Non vorrai farmi cambiare idea."
Blake trattenne l'istinto di vomitare. Quell'uomo non
le faceva paura, ma ribrezzo. Nel modo in cui la guardava c'era qualcosa di
così perverso che metteva in soggezione perfino lei.
McPhee accarezzò i suoi lunghi capelli scuri.
"Dimmi dov'è tuo fratello. Adesso."