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Autore: Midvas    20/05/2004    0 recensioni
Un elfo e sua cugina mezzelfa si trovano lontani dalla loro foresta natia, a cui stanno facendo ritorno. I loro caratteri non sono del tutto compatibili e le avventure sul loro cammino possono essere varie... Nuovi incontri, nuovi sentieri, misteri e magie, sfociano in questo racconto ambientato nel Forgotten Realms.
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 3 – UNA DELUSIONE Si mise lentamente a sedere, scrutando per bene ciò che le stava attorno: degli arbusti, qualche cespuglio e almeno due esseri viventi. Dovevano essere passate un paio d’ore da quando aveva chiuso gli occhi per meditare e il buio si era insinuato maggiormente nelle pieghe di ogni oggetto, solo qualche timido raggio di una luna ridotta ad un quarto riusciva a filtrare fra le fronde degli alberi. Il fatto che si trattasse della stagione invernale, benché fosse quasi giunta al suo termine, lasciava più spazio alla luce che voleva insinuarsi nel cuore del bosco e, di conseguenza, non era proprio buio pesto: la condizione ideale per la sua vista ereditata dagli elfi. Il primo sguardo di Lethia fu rivolto a suo cugino, per verificare se la stava sorvegliando anche in quel momento. Si soffermò un lungo istante ad osservare le sue orecchie appuntite, come se si aspettasse che si muovessero nel sentire che il suo respiro si era fatto meno profondo e pur sapendo che l’udito di Helian non arrivava a tanto. Quelle orecchie appuntite… ogni tanto un’idea la solleticava… Si sarebbe goduta un mondo se avesse potuto arrotondargliele con un incantesimo per un giorno! Un largo sorriso si fece strada all’idea del cugino privato dei suoi adorati attributi elfici.
“Bah… inutile. Adesso c’è qualcos’altro a cui dedicarsi” pensò e l’espressione sul suo volto cambiò radicalmente, diventando talmente seria che si sarebbe potuta definire addirittura professionale. I suoi occhi verdi fissarono il suo obbiettivo: Xilth non si era mosso di un millimetro in quel paio d’ore: era coricato a pancia verso l’alto su quella specie di giaciglio che si era preparato, ma perlomeno le sue mani non se ne stavano ancora appoggiate alla bisaccia, come per proteggerla. Evidentemente era sceso nella fase profonda del sonno, dove la preoccupazione per il segreto che nascondeva non riusciva a raggiungerlo.
Ora che era sufficientemente certa di non essere colta sul fatto, Lethia si alzò e con passo felino si avvicinò all’uomo. Le sue spalle erano ampie, come ci si sarebbe aspettato da un buon lavoratore, e le sue braccia erano ciondoloni lungo i fianchi, senza la rigidità tipica della coscienza che le voleva sempre incrociate, ordinatamente lungo i fianchi o ancora occupate a far qualcosa. Ora avevano perso una qualsiasi compostezza, anche la più minima, tanto da far ricordare a Lethia un bimbo più che un uomo. Questa sua sensazione durò meno di dieci secondi, perché a lei interessava molto di più quello che penzolava dalla cintura di Xilth: una bisaccia dal contenuto misterioso, ma evidentemente importante se lui ci teneva così tanto. Prima di tentare di sfilarla, provò ancora a capire di che cosa si trattasse, giusto per evitare uno spreco di energie inutile; se poteva evitare di fare del lavoro “sporco” per domare la sua curiosità, tanto meglio. Per Corellon! Ci aveva pensato tutto il pomeriggio e non ne aveva ricavato nulla… si era consumata il cervello anche mentre si accampavano e il suo desiderio di conoscere non era certo diminuito col tempo, anzi. Le dava un po’ di fastidio, però, il fatto di non indovinare che cosa ci fosse dentro quella stupida bisaccia. Nonostante l’aspetto dell’uomo e qualsiasi cosa a lui correlata sembrasse trascurata e logora, quella bisaccia pareva nuova di zecca. Rivestiva anche una certa importanza per l’uomo, Lethia era sicura di non sbagliarsi: Xilth continuava a preoccuparsi della presenza e dell’incolumità di quella cosa. “Uff… gioielli non sembrano essere. Cibo nemmeno… Che accidentaccio c’è?” La mezzelfa decise che aveva rimuginato fin troppo, ora era più rischioso continuare ad osservare da vicino l’uomo che non passare all’azione, quindi allungò le mani verso la cintura dell’uomo, attenta a non avere contatti diretti con lui. Sciolse i logori lacci che tenevano la piccola sacca legata alla cinghia e la prese finalmente fra le sue mani. Qualcosa c’era dentro, ma ancora non capiva come qualcosa dotato di una certa importanza potesse avere quella forma. O meglio, non avere nessuna forma particolare. Pareva che ci fosse solo della sabbia, il che le ricordò il paesaggio di spiaggia che da poco lei e suo cugino avevano abbandonato. Certo, era una sabbia molto fine… ma per quanto uno ci si potesse essere affezionato, non poteva essere importante neanche per uno stolto come poteva essere quello Xilth. Mentre ancora palpeggiava la bisaccia, si allontanò e cominciò ad aprirla. Non ci poteva credere, doveva arrivare ad una radura con più luce. Non poteva davvero essere sabbia!
E, infatti, non lo era. Lethia annusò il sacchettino e constatò che non si trattava di mera sabbia. Il suo naso non era delicato come quello del cugino elfo, ma forse nemmeno lui avrebbe saputo dire a che cosa apparteneva quella sfumatura di odore. Mah! Fatto sta che rimase delusa: aveva concentrato la sua curiosità su qualcosa che non la meritava davvero. Arricciò la bocca realizzando di avere fra le mani un’autentica schifezza, che per qualche strano motivo le era parsa tanto importante per quel bradipo d’uomo.
Rigirò il sacchetto fra le mani continuando a non dedurne nulla. Delicatamente aprì il sacchetto, si rodeva il fegato ad aver pensato tutto il pomeriggio a qualcosa di futile, senza risultato concreto: forse a quella fioca luce avrebbe intravisto qualcosa di interessante.
Niente.
All’interno dell’apertura stava una iscrizione, che poteva esserne la spiegazione. Tentò di decifrare ciò che vi era scritto e si maledisse per non essersi applicata di più nello studio: non capiva il senso di quelle parole, anzi, non ricordava di averle mai sentite neanche di striscio in vita sua. L’ultima speranza era che nascondesse qualcosa all’interno, ma doveva trattarsi di qualcosa di talmente minuscolo che in quella specie di sabbia non emergeva. Toccò con la punta delle unghie il contenuto, ma la sorte non le arrise meglio: era solo dannata polvere.
E puzzava pure. L’odore acro di quella schifezza pungeva il suo naso, tanto che desiderò essere dotata di un olfatto meno sensibile.
E ora doveva pure rimetterla a posto… erano in tre in tutto, impossibile che non si sospettasse di lei se qualcosa era misteriosamente scomparso.
Tsk! Di che utilità era poi quella polvere?! La tentazione di lasciarla in mezzo alla piccola radura che aveva trovato era tanta, ma il solo pensiero delle lamentele di suo cugino nei suoi confronti era insostenibile. Già se la prendeva per niente, se gli si dava anche uno spunto a cui appigliarsi era finita.; in effetti, suo cugino non rappresentava il compagno di viaggio ideale, brontolone e borioso com’era.
Si riavvicinò agli alberi dove si erano accampati e controllò, non molto da vicino, se Helian era immerso nella sua meditazione. Pareva che lo fosse, quindi si avvicinò tranquilla a Xilth, di cui non aveva nemmeno sospettato un possibile risveglio. Era diffidente praticamente di natura, da quando aveva capito di non riuscire a dominare il suo “vizietto”, ma la delusione per non aver trovato niente di interessante dopo giorni di noia e nonostante la sua aspettativa, l’aveva resa più incauta. Se ne accorse pienamente solo quando il dito mignolo della sua mano sinistra avvertì il calore degli addominali dell’uomo, mentre stava appoggiando la bisaccia lì dove l’aveva trovata. Sbarrò gli occhi, convinta ormai che sarebbe stata colta sul fatto, come non era mai successo in tanti anni. Trattenne il respiro. Essere beccata proprio per una sciocchezza! Che cosa terribile! Almeno si fosse trattato di un bel gioiello, di una mappa interessante… ma per un sacchettino di polvere! No, non poteva essere!
Fortunatamente per lei, Xilth non era dotato di molta sensibilità al momento, il suo sonno era profondo e non si era accorto della sua sottrazione momentanea, o almeno così credeva la mezz’umana. Ad ogni buon conto, Lethia non si fermò a riallacciare la bisaccia. Che se la riallacciasse da solo al suo risveglio, ora lei doveva tornare a meditare o il giorno dopo sarebbe stata lenta a camminare quanto l’uomo era veloce a parlare.
Sperava solo che suo cugino non insistesse per farla alzare subito dopo che era tornato alla “vita cosciente” lui. Un po’ di considerazione per il suo sangue sporco l’avrebbe dovuta avere, soprattutto considerato che ormai avevano detto che avrebbero aspettato anche il risveglio di quell’uomo.
Le luci del giorno ancora non rischiaravano granché, ma Helian avrebbe desiderato partire. Si sentiva fresco e riposato e, come ogni giorno, il suo desiderio era immutato: ridurre la distanza da casa. Non sarà stato molto vario quanto ad aspirazioni, ma che colpa ne aveva lui se era l’unico sentimento che lo muoveva? I suoi gusti non mutavano mai e allora? Ciò faceva di lui una persona affidabile, no? Un punto fermo attorno a cui giravano fin troppe incertezze. L’elfo amava la sicurezza, le verità millenarie della sua stirpe e non ci vedeva nessun male in questo. Ripetutamente gli era stato detto di coltivare anche altri interessi, in un’epoca in cui il mondo era relativamente tranquillo e prospero e i contatti fra razze diverse non erano del tutto infrequenti. Sua zia in particolar modo lo aveva annoiato con questi discorsi – ed annoiare lui non era cosa da poco – ma lui non ne aveva mai inteso l’utilità.
Ora aveva finito la sua meditazione da un po’ e se ne stava a rimuginare, guardando alternativamente sua cugina e l’uomo che s’era per caso aggiunto a loro il giorno prima. In completo silenzio li osservava e tentava di comprendere l’insistenza di sua zia nel chiedergli di “aprirsi al mondo” come diceva lei. Per quanto si sforzasse, non riusciva ad individuare anche un solo motivo per cui avrebbe dovuto essere contento di accompagnarsi ad un umano. E d’altronde riconosceva pure che nemmeno l’umano avrebbe dovuto desiderare di viaggiare con un elfo. Secondo lui, si trattava semplicemente di mondi diversi che potevano anche avere rapporti culturali, che – per chi li apprezzava – potevano portare al massimo a qualche sorriso ed uno scambio commerciale. Ricordava che qualche strano elfo gradiva certe erbe, che gli umani chiamavano spezie; chi le prendeva, usava aggiungerle al pane elfico, ma pure quello era un mistero per Helian: sarebbe stato considerare il loro pasto base non buono di per sé, mancante di qualcosa, e ciò non poteva essere. Senza possibilità d’appello: non poteva essere. Ad ogni modo, qualche stravaganza ci voleva ovunque.
Xilth era alto e sicuramente più robusto di lui, senza essere proprio grasso; ciò lo bloccava in certi movimenti agili in cui Helian era maestro; per questo l’elfo non riusciva a considerare una qualità l’essere più vigoroso ed avere dei forti bicipiti al posto delle sue esili ed aggraziate braccia. Il giorno prima l’uomo si era dimostrato lento e stanco, rumoroso nei suoi passi e non brillante nella conversazione. Poteva anche darsi che l’eccentricità di sua cugina non lo invogliasse a chiacchierare molto ed Helian di questo era sufficientemente contento: almeno non era stato disturbato più di tanto dalla voce cavernicola di quell’essere. Ora era piuttosto inerme, immerso nel sonno incapacitante degli umani; l’elfo trovava che questa fosse una delle debolezze maggiori delle altre razze: il non poter guidare il proprio riposo e lasciarsi condurre da un emisfero del cervello che normalmente non aveva diritto di veto nelle decisioni. Quanto a Lethia… provava un profondo affetto nei suoi confronti, nonostante le scorresse del sangue umano nelle vene. Non sapeva effettivamente se amava quell’allegria particolare che la contraddistingueva, era quasi troppo per il suo animo delicato; i loro bisticci erano più frequenti di quelli fra fratelli e lo erano stati fin da quando Lethia era arrivata al mondo. Aveva vissuto la nascita della cugina molto amareggiato, lei era arrivata a rompere la quiete di cui disponeva e a rubare le attenzioni con cui sua zia lo aveva sempre viziato fino a quel momento. Non era più il “principino” di famiglia e il suo carattere già tendente alla nostalgia, all’autocommiserazione e alle lamentele, era peggiorato. Era vero che la ragazzina riusciva anche a strappargli qualche sorriso talvolta, ma era un accadimento molto raro. Spesso si era trovato vittima dei suoi giochetti e la cosa non gli piaceva affatto. Il legame tra le loro madri era molto forte e, da quando aveva emesso il primo vagito, l’aveva sempre avuta fra i piedi. Inoltre, gli dava un po’ fastidio il fatto che pur essendo nata molto dopo di lui, Lethia lo avesse raggiunto in fretta quanto ad altezza e maturità. Ogni volta che una minima punta d’invidia lo punzecchiava, lui ricordava a se stesso di essere più longevo, che la sua era una razza migliore, benché tutti facessero finta di apprezzare sempre e solo sua cugina. E ancora lì, lei dormiva. Dormiva? Ogni tanto si chiedeva se davvero meditava come diceva o se la sua natura la portava ad un sonno più profondo. Il suo viso era rilassato e aveva un’espressione quasi imbronciata, ciononostante era sempre bella, non poteva negarlo. Chissà quali immagini le si coloravano innanzi alle palpebre chiuse, ma non gli piaceva vederla immusonita. Sì, i suoi sentimenti nei confronti di sua cugina erano proprio contraddittori: da un lato non la poteva vedere, perché finivano sempre per avere qualche battibecco; dall’altro desiderava proteggerla da qualsiasi cosa la portasse a non sorridere. Sua zia gli aveva raccomandato tanto di tenerla d’occhio, ma non era solo quello… Lethia era la persona con cui aveva passato più tempo nella sua vita, perciò era normale che le si fosse affezionato. Gli sarebbe piaciuto fare una magia e farla diventare del tutto elfica, ma non era possibile. Le vesti di un tenue verde luminoso contrastavano coi suoi capelli rosso fuoco, due colori complementari cui si aggiungeva quello pallidissimo della pelle del viso, del collo sottile e delle mani delicate. Nel complesso era armonica, seppur a modo suo. Gli occhi di Helian non si spostarono da lei nemmeno un millimetro, finché non la vide svegliarsi e distolse finalmente lo sguardo.
Il sole era di nuovo alto nel cielo, pur non essendo ancora arrivato al suo culmine, ed era oscurato talvolta da qualche nuvola bianca. Una brezzolina, la cui temperatura ricordava l’inverno appena passato, investiva i tre viandanti e li portava a camminare più velocemente.
In testa stava Lethia, cantava dolcemente e si aggiustava i capelli in una treccia alla bell’e meglio, visto che le davano fastidio le ciocche che le ricadevano sulle spalle. «Non sono tutti» biascicò a bassa voce Helian.
«Come?»
«I capelli, non li hai presi tutti. Se ti vedessi allo specchio, vedresti che groviglio hai organizzato. Possibile che tu non abbia imparato nulla da tua madre?»
«Lo hai imparato tu? Se vuoi ci fermiamo e me la fai tu una treccia degna di un elfo» lo punzecchiò la mezzelfa.
«Tsk. Non ci penso nemmeno»
Lethia riprese a canticchiare, stavolta un po’ più forte, e non si sistemò meglio l’acconciatura, che aveva l’aria di essere molto spontanea e vivace. Non voleva dare a suo cugino la soddisfazione di dargli retta sempre quando lui ricercava la perfezione. Camminavano già da un paio d’ore almeno e non era successo niente. Niente di niente. Nessun altro incontro, nessun discorso, nessun canto che non fosse il suo. Assolutamente niente.
Come spesso succedeva, si annoiava. Suo cugino diceva sempre che era meglio non incontrare nessuno ed annoiarsi, che non correre dei rischi ed essere su di giri. Poteva anche darsi che lui avesse avuto ragione, ma… non ce la faceva proprio a stare così, a morire lentamente di noia. I ricordi delle giornate passate in città, a Waterdeep, cominciavano ad essere più nebbiosi e a non bastarle più; qualsiasi sciocchezza le sarebbe andata bene per rinvigorirla un po’. Beh, non solo il fatto di aver bisogno di… rendere un po’ di liquidi al terreno. Stavano passando in una zona erbosa, il suo stimolo avrebbe dovuto aspettare almeno un poco: non poteva liberarsi proprio davanti ai suoi compagni di viaggio, nemmeno se loro le assicuravano che si sarebbero voltati dall’altra parte. Se non ricordava male, avrebbero dovuto incontrare un’altra foresta nel giro di un’ora; ce l’avrebbe fatta ad aspettare?
Xilth era tutto assorto da chissà quali pensieri, così come pure Helian. Non c’era davvero gusto a viaggiare con loro, la sua vescica in compenso si dimostrava più fastidiosa: dieci minuti con la sua assillante compagnia si stavano rivelando lunghissimi, sperando di arrivare in fretta a qualcosa di simile ad un boschetto perlomeno. E se avesse organizzato un diversivo per il suo momento privato?
L’idea la allettava talmente che riusciva quasi a dimenticare il pulsare del basso ventre e riuscì ad aspettare meglio il momento in cui arrivarono poi al primo accenno di foresta.
«Oh finalmente!» esclamò rompendo il silenzio che i suoi compagni di viaggio amavano così tanto.
«Sentivi anche tu la nostalgia delle foglie della nostra foresta?» chiese Helian, sorpreso che sua cugina condividesse il suo stesso sentimento. «Queste però non ci assomigliano molto» concluse tristemente.
«Veramente a me bastava un boschetto qualsiasi» lo smontò la mezzelfa con tono particolarmente diretto ed efficace «ho bisogni piuttosto concreti e preferisco soddisfarli in un posto dove posso essere sola».
«Oh» Era rimasto deluso e senza parole, per una volta aveva creduto di non essere l’unico a soffrire per la mancanza della natura incontaminata di Silverymoon e già questo l’avrebbe fatto sentir meglio. In fondo non sapeva nemmeno perché aveva pensato che la presenza di quell’uomo gli avrebbe fatto pesare meno la circostanza che sua cugina non era del tutto elfica. Anzi, forse doveva essere più vero il contrario: la presenza di un uomo con loro, accentuava le differenze che esistevano fra loro, ricordandogli che lei era un miscuglio fra le due razze, per quanto ben riuscito a detta di chiunque. L’uomo non dava segno di aver udito nulla di quello che era stato detto ed, infatti, per lui quelle parole erano state come una continuazione del canto.
Lethia si guardò un po’ in giro ed accelerò il passo, per raggiungere una biforcazione che saliva leggermente nel bosco e dove poteva avere quell’intimità richiesta dal buon costume. Senza pensare molto, operazione che la mezzelfa considerò dovesse costargli particolarmente, Xilth fece per seguirla.
«Che fai?» gli chiese «Il guardone?».
L’uomo rimase spiazzato, non intuendo all’istante il perché di quell’attacco gratuito.
«Devo isolarmi un attimo, comprendi?» disse con un sorriso canzonatorio Lethia. «Ti prenderei volentieri con me… sai, una femmina da sola nel bosco ha sempre motivo di aver paura». Il tono era accondiscendente, di quelli che si usano con i bambini per far comprendere loro bene quanto si sta dicendo, scandendo sillaba per sillaba.
A Xilth non era nemmeno mai passato per l’anticamera del cervello di pensare ai rischi di una donna che vagava sola in un bosco; non che non ne avesse mai sentito parlare, ma la cosa non lo aveva mai riguardato nemmeno di striscio. Solo ora, giusto perché la notte prima si erano accampati nella stessa zona e perché la questione gli era stata posta direttamente, gli veniva in mente che l’essere una femmina poteva comportare dei pericoli maggiori.
«Vedi di non metterci tanto» le intimò Helian, prima che lei andasse fuori portata di voce e lei non si prese la premura di rispondere. Obiettivo primario era soddisfare il suo bisogno fisico, che l’aveva assillata per un po’. Si riaggiustò le vesti, giusto un po’, ma non troppo per reggere meglio la scena. Dimenticò apposta di riallacciare il nastro – anch’esso verde della tonalità delle foglie appena comparse su un arbusto – che le fungeva da cintura e prese molto fiato, per farsi sentire anche a chilometri di distanza, nonostante lei si fosse allontanata solo di qualche centinaio di metri.
«Ah! Aiuto!» urlò a pieni polmoni.
Non udì il rumore di passi concitati e questo la indispettì. Di nuovo gridò come se un mostro con sette teste la stesse minacciando di torture varie e, con soddisfazione, udì i suoi compagni di viaggio che correvano verso di lei, talmente veloci da rischiare di cadere. Era curiosa di vedere chi sarebbe arrivato per primo: Helian con la sua tanto declamata agilità o Xilth con la sua evidente forza?
«Attento!» avvertì quest’ultimo che era prossimo ad un rovinoso contatto con un cespuglio di rovi; l’uomo non si curò del suo avvertimento, pensando come prima cosa alla salvezza della compagna di viaggio che era parsa tanto spaventata. Delle spine gli avevano lacerato parte dei pantaloni, già logori in partenza, per cui non gli venne in mente subito di preoccuparsene. Helian gli era arrivato velocemente al fianco, tanto che Lethia non sapeva dire con certezza chi dei due fosse arrivato per primo e meritasse i suoi elogi.
L’elfo guardò con sospetto la tranquillità che ora mostrava sua cugina. «Ebbene, che c’era da farci spaventare tanto?»
«Eri spaventato per me?» sorrise tutta contenta Lethia, salvo poi assumere un’espressione simil impaurita «Que-quello… si muoveva verso di me… mi aveva fatto paura» disse indicando un punto imprecisato del terreno. Cos’era “quello”?
«Non vedo nulla» esclamò corrugando la fronte Xilth, pensando che forse gli elfi vedevano cose che lui non riusciva a distinguere, e consapevole che in primo piano aveva davanti a lui le energie che gli avrebbero permesso di scagliare un dardo.
Lethia osservò l’uomo, per cercare di decifrare meglio il suo comportamento, era corso anche lui per salvarla dal suo pericoloso mostro: sembrava che non stesse guardando direttamente il punto che aveva indicato lei, una mano era protesa in avanti, mentre l’altra era a difesa del suo sacchetto… Un brivido corse lungo la schiena di Lethia: il contenuto del sacchetto si stava rapidamente svuotando da una lacerazione sul fondo e il vento stava disperdendo nell’aria la finissima polvere.
  
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