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Autore: Yuri_e_Momoka    11/07/2012    0 recensioni
Avevo iniziato a sedermi al suo posto, nella sua poltrona: vederla vuota mi riempiva di malinconia e, inoltre, speravo che qualche traccia della sua intelligenza fosse assorbibile attraverso quella fodera in pelle sintetica; speravo che il mio cervello potesse lavorare più in fretta.
Se fossi stato al suo posto, mi avrebbe trovato in poche ore, e questo soltanto perché la polizia avrebbe dovuto ultimare tutta la burocrazia e mettere in atto tutte le procedure prima di agire. Se fossi stato al suo posto, a quest’ora mi sarei già trovato a Baker Street a sorseggiare caffè caldo.
La verità era che ero spaventato a morte perché stare seduto su quella poltrona non faceva di me Sherlock Holmes.
Genere: Angst, Drammatico, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: John Watson , Lestrade , Quasi tutti, Sherlock Holmes , Sig.ra Hudson
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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TSS - 3 Vidi Molly Hooper apparire in fondo al lungo corridoio: reggeva una cartellina chiara, sottile, pochi fogli all’interno. Forse addirittura solo uno. La risposta che aspettavo non aveva bisogno di lunghe spiegazioni. In realtà una sola parola avrebbe fatto la differenza.
Molly camminava spedita, rallentò, poi accennò una corsa e rallentò di nuovo. Non era sicura di volermi far sapere la risposta, era indecisa tra il rivelarmi subito il risultato o prolungare la mia attesa. Avrebbe semplicemente potuto gridarmelo dal fondo del corridoio e mi sarei tolto quel peso dalle spalle che mi impediva di alzarmi dalla sedia di plastica.
«L’hai letto?» le chiesi impaziente quando fu a portata di voce.
«S-sì. Uhm… John…» No. Volevo una risposta precisa. Volevo vedere scritto su quel foglio: positivo o negativo. Sì o no. Le presi la cartellina, lei si portò immediatamente la mano libera a coprirsi le labbra, poi guardò per terra, aspettando che leggessi.
Aprii il fascicolo, all’interno un singolo foglio bianco era fissato con una graffetta al margine superiore. C’era un titolo stampato in corsivo che precisava che le analisi erano state condotte dal laboratorio di analisi genetica dell’ospedale St. Bartholomew, poi il nome del capo del laboratorio: Dr. Culverton Smith.
Stavo indugiando, ma con la visione periferica riuscivo già a scorgere una parola stampata in caratteri grandi.
 
POSITIVO
 
Distolsi lo sguardo e lessi di nuovo; c’era scritto ancora ‘positivo’.
«Cosa facciamo, John?» domandò Molly Hooper, impaziente.
Positivo.
«Voglio parlare con questo dottor Smith.»
«Vedo cosa posso fare.»
Non aveva senso.
 
Non aveva senso: lo avevo pensato anche quando avevo trovato quel pacchetto davanti alla porta. Un oggetto semplice come quello non avrebbe mai suscitato sospetti se non fosse stato drammaticamente simile a quello che, solo pochi giorni prima, giaceva aperto sul tavolo della stazione di polizia, mostrando la parte mozzata di un corpo umano.
Lo avevo portato di sopra, sul tavolo in salotto, e nel frattempo non avevo potuto non notare un particolare che mi aveva provocato una sensazione simile a quella del ghiaccio che scivola sulla spina dorsale: l’indirizzo sul pacchetto era scritto in una grafia assurdamente simile a quella di Sherlock, solo un po’ più disordinata. Oppure tremante.
Mi rifiutavo di crederci, eppure sapevo cos’avrei trovato al suo interno. Dopo aver scartato il  pacchetto con lentezza esasperante, avevo sollevato il leggero coperchio di cartone con una delicatezza destinata solo alle ali di una farfalla, o al viso di una donna. O a Sherlock.
L’odore di formalina mi aveva mozzato il respiro. Aprire del tutto quella scatola sarebbe stato inutile, eppure dovevo andare fino in fondo.
Cotone bianco.
E un pallido dito affusolato.
 
Aggirandomi nel labirinto abbagliante di provette, becchi Bunsen e macchinari dall’aria incredibilmente costosa e futuristica non potei fare a meno di immaginarmi Sherlock seduto a un tavolo, con gli occhi incollati a un microscopio. Chissà se era stato lì, chissà se aveva collaborato con alcune delle persone presenti, se aveva mai insultato la loro intelligenza, se aveva mai chiesto loro di passargli il telefono che teneva nella sua giacca. Chissà se, in un qualche giorno passato, ci eravamo incrociati nei corridoi del Bart’s, io da studente e Sherlock da insaziabile ricercatore.
Ora, sullo sgabello davanti al microscopio, sedeva il dottor Smith, che mi osservava con sguardo greve da sopra la montatura degli occhiali da presbite calati sul naso. Potevo quasi specchiarmi nella sua grande testa calva.
«Col passare degli anni che ha trascorso qui, utilizzando i nostri laboratori…» esitò un momento su quell’utilizzare, «ha archiviato parecchi campioni del suo DNA, del suo gruppo sanguigno e le sue impronte digitali. Per i suoi esperimenti, presumo. Non ho mai lavorato con lui.»
Continuavo ad aspettare una speranza che non venne. «Quindi è sicuramente suo? Senza nessun dubbio?»
Culverton Smith esalò con rammarico, poi si strinse nelle spalle. «Posso ripetere le analisi, ma sia il DNA che le impronte coincidono.»
Annuii. «Ripetete i test. Per favore» aggiunsi poi, in tono conciliante. In realtà notai che stavo suscitando solo pietà agli occhi del dottor Smith.
«Di norma dovrebbe essere la polizia a richiederlo, queste analisi sono costose. Le assicuro che le probabilità che entrambi i test diano risultati sbagliati sono pressoché nulle.» Notando che stavo per insistere, mi interruppe: «Credo che questo sia il momento di darsi da fare per rintracciarlo, non crede?».
Era imbarazzante, ma negare la verità lo era ancora di più.
 
«Ma certo che puoi aiutarci col caso, John» iniziò Lestrade, mettendo le mani avanti per frenare le mie proteste; aveva abbassato di molto il tono della voce, «ma non potrai farlo in veste ufficiale».
«Sherlock lo faceva in veste ufficiale?» Sapevo che non era così, sapevo che i superiori non conoscevano il reale livello di coinvolgimento di Sherlock nei casi più delicati.
«Se persino lui non aveva l’autorizzazione ufficiale, immagina cosa succederebbe se concedessi a te  di mettere le mani su informazioni scottanti riguardanti l’intero governo!»
Ero sorpreso: da quando il caso dell’orecchio mozzato era diventato così importante? «Che sviluppi ci sono?»
Lestrade sospirò. «Ascolta, John. Non è una questione personale, capisco che tu voglia aiutarci ad accelerare le indagini ora che anche Sherlock è stato coinvolto, ma loro non lo accetteranno.» Rivolse un’occhiata fulminea ad alcuni poliziotti che stazionavano nel corridoio; tra questi vi erano anche Anderson e Donovan.
«Sono professionisti» proseguì, «alcuni sono meno professionali di altri, ma rimangono comunque poliziotti addestrati. Non accettavano il peso che Sherlock aveva nei loro casi passati e di certo non accetteranno te, che sei…» Esitò sul termine.
«Ordinario? Lo so! Lo siamo tutti, ecco perché chiamavate lui, ed ecco perché serviamo tutti noi, adesso!» Lestrade mi mise le mani sulle spalle allontanandomi il più possibile dalla porta. «Sai che sono discreto, non pubblicherò nulla sul mio blog, non parlerò con nessuno, ma devo fare qualcosa, posso essere utile. Conosco i suoi metodi, Greg!»
Cercai di rendere la faccenda personale chiamandolo per nome.
Dopo qualche istante di esitazione, alternando occhiate al pavimento e ai poliziotti ancora fuori, Lestrade annuì impercettibilmente. «So che puoi esserci utile. Ti passerò informazioni frammentarie su cui potrai lavorare senza correre il rischio di divulgare le notizie sbagliate.» Abbassò nuovamente il tono della voce, come se si vergognasse: «Non che ci siano a disposizione tutte queste informazioni…».
«C’è qualcuno che vi ostacola?»
«Già» replicò lui stizzito, «i Paesi stessi! Vogliono tenere la faccenda privata, non capiscono perché debba essere proprio il Regno Unito ad occuparsene. Alcuni ci mandano risultati incompleti, altri li alterano e altri ancora si rifiutano di collaborare credendo di fiutare intrighi politici e spie ovunque. Non è la Guerra Fredda, dannazione!».
Ora finalmente mi rendevo conto della sua frustrazione e delle difficoltà che risiedevano in questa indagine. Eppure tutto ciò aveva un’impronta familiare. Era tutto così sfuggente e incerto e, allo stesso tempo, così ovvio. Bastava osservare. In quel momento capivo davvero ciò che Sherlock continuava a rimproverarmi: tu vedi, ma non osservi.
«Si tratta di Moriarty.» Già soltanto pronunciare quel nome sembrava indebolire lui e rafforzare me.
Lestrade si stuzzicava pensosamente il labbro inferiore con le dita. «Quel nome è come una maledizione: più lo si declama e più si allontana. È come se ci stuzzicasse, ma nessuno mai fa in tempo a capire il suo legame con i vari crimini.»
Annuii con convinzione. «È lui, è certo. Questo è chiaramente il suo modus operandi, sta mettendo in atto la sua minaccia. Crede di avere una faccenda personale in sospeso con Sherlock. È l’unico che avrebbe voluto puntare a lui in questo caso, chi altri sennò? Non aveva nemmeno accettato di collaborare!»
«È presto per fare insinuazioni di questo calibro, John: chiunque abbia visto Sherlock alla stazione di polizia, quando è arrivato l’orecchio, o la signora Trelawney-Hope recarsi a Baker Street, può pensare che lui si stia occupando della faccenda e quindi decidere di impedirglielo.»
Ero irritato dalla sua mancanza di coraggio e della sua cecità: chi altri avrebbe avuto la macabra idea di inviare proprio a me un pezzo di Sherlock? Chi altri avrebbe potuto architettare un crimine di portata europea così facilmente, godendo delle nazioni che precipitavano nella confusione e si ostacolavano l’una con l’altra? Un teatrino di Paesi che litigano sullo scenario d’Europa, tutto per distogliere l’attenzione dalla sua vendetta personale.
«Dammi tutte le informazioni che puoi, poi me ne andrò» dissi, decidendo di porre fine alla discussione.
 
Sapevo che non sarei mai riuscito ad arrivare a Moriarty tramite delle prove – nemmeno Sherlock ne era stato in grado –  e sicuramente non potevo capire la natura del suo coinvolgimento solo grazie al mio intuito. Sapevo solo che c’entrava qualcosa e che probabilmente muoveva i fili dell’intero spettacolo, ma non era lui ad agire direttamente quindi, per risolvere la questione il prima possibile, dovevo concentrarmi sugli effettivi artefici di quelle minacce. Perché dovevano per forza trattarsi di minacce, no? Che senso avrebbe avuto, altrimenti, spedire pezzi di corpo umano alle capitali europee?
Il fatto di non conoscere il numero effettivo di Paesi coinvolti limitava di gran lunga le mie possibilità di successo poiché non riuscivo a trovare un nesso tra loro. Spagna, Danimarca e Svezia. E Inghilterra. L’unico tratto in comune che mi sovveniva era il fatto che fossero tutte monarchie, ma non riuscivo a capire che senso avrebbe avuto, per gli anarchici, minacciare proprio questi Paesi. Gli anarchici non fanno differenza tra monarchia, repubblica, dittatura o altro; perciò c’era probabilmente qualcos’altro che mi sfuggiva.
C’era sempre qualcosa che mi sfuggiva.
Mi distesi lungo lo schienale della sedia, sentendo i muscoli della schiena rilassarsi un poco. La mascella mi doleva per la tensione e notai che le mie mani tremavano leggermente tenendo in mano le fotografie. Mi chiesi se Sherlock fosse mai stato così teso durante un’indagine. Lo avevo visto raramente ansioso: impaziente, sì; irritabile o eccitato, sì; ma mai teso come lo ero io in quel momento. La soluzione dei suoi casi non corrispondeva alla salvezza di un amico. Tranne quando mi aveva trovato alla piscina, impacchettato in una bomba e ostaggio di Moriarty. Non se l’era proprio aspettato; ma quello non era un caso, si trattava di una prova di resistenza e di audacia, una gara con Moriarty.
Ora ero io a gareggiare con lui. Era ovvio, si trattava di un gioco, altrimenti perché mandare il suo dito proprio a me? Tuttavia si trattava di un gioco crudele: che speranze avevo di incastrare Moriarty quando nemmeno Sherlock, pur andandoci vicino, c’era riuscito?
Perciò era inutile concentrarsi sul consulente criminale: se davvero ero diventato il suo gioco, forse ignorandolo avrebbe commesso un passo falso. In ogni caso non avevo alternative se non concentrarmi sulla parte più pratica di quel problema.
Gettai sul ripiano la foto ingrandita scattata al graffito, scivolò sopra le altre e cadde dal tavolo. Lestrade mi aveva procurato le fotografie delle prove raccolte – non tutte, probabilmente – ma anche se fossero state di più sarebbero servite a poco: non avevo idea da dove iniziare.
Conosco i suoi metodi, avevo detto a Lestrade, ma non ero sicuro che fosse vero. Sapevo che Sherlock osservava ciò che a me sembrava trascurabile, che vedeva tutto in nulla, che stava seduto sulla poltrona per ore a fissare il vuoto, che parlava da solo, che la sua mente compiva chissà quali viaggi dai quali tornava quasi sempre con una soluzione. Quando non riuscivo a capire come ci fosse arrivato – ovvero la maggior parte delle volte – me lo spiegava, ma i suoi ragionamenti mi sembravano sempre troppo contorti e azzardati, sebbene zeppi di logica.
Continuavo a domandarmi come avessero fatto a portarlo via con tanta facilità. Come minimo, grazie alle sue intuizioni, aveva previsto che qualcuno potesse volerlo fuori dal caso. Forse era per questo motivo che non aveva voluto accettarlo, anche se l’idea di uno Sherlock prudente mi faceva semplicemente ridere.
Era entrato qualcuno mentre la signora Hudson era fuori? In quanti erano? Lo avevano portato fuori con la forza? Per quanto potesse star male sicuramente non si sarebbe lasciato portare via senza reagire, senza rimproverarli per la scarsa creatività dimostrata nel rapimento. No, più verosimilmente era stato attirato fuori; magari con una telefonata o con un messaggio. Cosa avevano usato? Un bel caso macabro come esca? Oppure me? Ero forse stato il bersaglio di un cecchino senza accorgermene, mentre qualcuno gli intimava di uscire? Si sarebbe davvero esposto a un pericolo, se io fossi stato minacciato?
Non lo sapevo. Non sapevo niente.
Dalla strada giunse inaspettatamente il suono lamentoso di un violino, una melodia lontana e armoniosa. C’era qualcun altro che suonava il violino a Baker Street? Non l’avevo mai notato fino ad allora. Forse Sherlock lo aveva sempre oscurato. Sherlock aveva sempre oscurato tutto, a dire il vero. Da quando lo avevo conosciuto c’era sempre stato solo lui: lui e i suoi casi; lui e le sue avventure assurde e pericolose; lui e le sue lamentele e i discorsi senza fine; lui e il suo violino; lui e i suoi esperimenti di chimica e ogni volta le pareti dell’appartamento sembravano sempre troppo piccole per contenere sia lui che le sue attività. Avevo provato ad aggiungere qualcosa a questa vita monotematica – donne, amici – ma il risultato si era sempre rivelato incompatibile e, a dire il vero, non mi ero mai impegnato con serietà.
Adesso, invece, l’appartamento sembrava troppo grande. Era come se non fosse mai stato mio, come se fossi all’improvviso un estraneo nella mia stessa casa.
Cercai con lo sguardo la custodia del violino: era lì, a lato della finestra, inspiegabilmente abbandonata dal proprietario. Iniziai a chiedermi, a malincuore, se senza un dito sarebbe ancora stato in grado di suonarlo. Forse no. Forse, da quel momento, mi sarei dovuto accontentare di una vaga composizione appena udibile suonata da uno sconosciuto.
Lestrade aveva allegato anche la fotografia di quella macabra prova: il dito era stato ritratto nel suo contesto – la carta da pacchi e l’indirizzo scritto con un insolito inchiostro verde che, sicuramente, non proveniva dalla sua penna –  poi di nuovo accostato a un righello. Non vi era dubbio che fosse il suo, eppure così separato dal resto del corpo aveva improvvisamente perso senso, appariva diverso – quasi irriconoscibile – e insulso. Non era il corpo ad avere bisogno del dito, era il dito a necessitare del corpo per conservare il suo scopo. Senza di esso, il dito non era altro che un’appendice priva di utilità.
In quell’attimo provai una profonda empatia.
 
Un sommesso toc toc si confuse con il picchiettio della pioggia.
«È permesso?» La signora Hudson non aspettava mai una risposta, ma si addentrava nell’appartamento con cautela, come se il pavimento fosse cosparso di cocci di vetro. Alle volte non aveva dovuto solo immaginarlo.
Alzai la testa dal tavolo e una delle fotografie si staccò dalla mia guancia, cadendo per terra. La raccolsi in fretta accorgendomi, con profondo dispiacere, di essermi addormentato nel bel mezzo della mia indagine. Purtroppo non possedevo l’abilità di Sherlock Holmes nel rimanere insonne finché un caso non era concluso, anche se, in quel momento, ne coglievo appieno l’utilità.
«Oh, John, hai passato tutta la notte a guardare quelle foto?» chiese la signora Hudson, procedendo attentamente con un paio di tazze fumanti in bilico su un vassoio.
«Era mia intenzione, ma purtroppo no.» Mi affrettai a nascondere la foto del dito prima che la padrona di casa raggiungesse il tavolo: lei non sapeva niente del pacchetto, le avevo detto che Sherlock era ufficialmente scomparso e che stavo aiutando la polizia nella ricerca. Non potevo preoccuparmi di consolarla, quando avevo già i miei nervi da tenere sotto controllo.
La signora Hudson mi porse una delle tazze prima di sedersi; in quel movimento colsi qualcosa di inaspettato: un profumo. In genere non captavo queste cose, a meno che non si trattasse di una situazione particolare – quando uscivo con una donna le facevo sempre i complimenti per il profumo, ma si trattava più di un’osservazione automatica. Stavolta, però, avvertii qualcosa di familiare.
«Ha un nuovo profumo, signora Hudson?»
«Oh, sì» rispose lei con aria fintamente colpevole, mescolando il suo tè, «Connie Prince consigliava sempre questa marca e, dopo molti ripensamenti, ho deciso di concedermelo. Sai, è abbastanza costoso e forse non è adatto a una signora, ma ha questa fragranza particolare…».
«Come si chiama?» mi affrettai a domandare.
«Uh? Ehm… qualcosa come… non so bene il francese, ma ha qualcosa a che fare con le sirene.»
Floris eau de parfum: Sirena. Era lo stesso che avevo sentito a casa di Lucas, lo stesso che Sherlock mi aveva spruzzato addosso. Frugai tra le fotografie e trovai quella del pacchetto bianco accostato alla boccetta. Era un oggetto banale, forse un poliziotto l’aveva fotografato solo perché aveva visto Sherlock esaminarlo. Ora però, che sapevo che ogni particolare poteva essere fondamentale, non potevo non pensare al fatto che lui, forse, aveva voluto farmelo annusare. Cos’avrei dovuto notare? Quello contenuto nella boccetta era indubbiamente profumo e se, durante le analisi, fosse emerso qualcosa di importante su di esso, Lestrade me l’avrebbe riferito, o almeno così speravo.
Mostrai la foto alla signora Hudson, chiedendole se fosse lo stesso profumo che aveva comprato.
«Sì, esatto. È una novità, sai?»
«È recente?» chiesi.
«È in commercio da circa un mese. Ho fatto bene a comprarlo, anche se alla mia età…»
«Le dona molto, signora Hudson!» le dissi mentre mi infilavo la giacca. Il mio complimento voleva essere un ringraziamento al suo contributo.
«Esci già? Non sono neanche le 8…»
«Vado a Scotland Yard.» Il mio slancio si bloccò sulle scale; tornai indietro. «Ahm… le foto… non si scomodi a riordinarle. Anzi, non le tocchi proprio, va bene? Non… non sono importanti.»
«Certo che no, caro, non sono la vostra domestica!» puntualizzò la signora Hudson appena prima che mi richiudessi la porta alle spalle.
   
 
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