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Autore: ConsultingFangirls    13/07/2012    4 recensioni
Era iniziato in un nebbioso mattino di febbraio quando, marciando per l'appartamento di Baker Street con le mani nei capelli e gli occhi da folle, Sherlock Holmes si era imbattuto in qualcosa che non sarebbe dovuto esistere.
L'uomo seduto nella poltrona dei clienti, un tizio magro, alto, con un completo a righe blu e marroni, Converse rosse e capelli spettinati, stava imperturbabile e con le gambe accavallate, seguendo con gli occhi il famoso detective uscire di testa. John non ci avrebbe scommesso, ma sembrava si stesse divertendo.

/ «Rose? È finito il latte»
«E perché non vai a prenderlo?»
«Perché ci vai tu» Layne le tese il cappotto con un sorriso e svuotò la pipa sul divano «E prendi anche del tè, che è quasi finito»
Genere: Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash, Slash | Personaggi: Companion - Altro, Doctor - 10, Rose Tyler, TARDIS
Note: Cross-over | Avvertimenti: Contenuti forti, Gender Bender
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Sherlock e John erano rimasti con le spalle verso il fondo del terrazzo. Si guardavano l'un l'altro, risoluti, e sentivano i passi affannati del tizio che li stava inseguendo. «Sherlock?»
«Sì?»
«Ho paura» il moro lo guardò per un secondo, con gli stessi occhi fermi di prima, stringendo solo un po' di più la presa contro la mano di John. Poi gli sorrise, per la prima volta un sorriso vero, grosso e felice, che brillava nel pomeriggio grigio «Non devi, John. Non ti preoccupare. Ci sono io» gli si avvicinò di un passo. John pensò che era alto, così tanto più alto di lui da intimorirlo quasi, e ancora una volta si scoprì a chiedersi quanto fosse bello, con i ricci scuri e il viso di ceramica. Era bellissimo. E gli stava infondendo una sicurezza profonda, come mai gli era successo prima in vita sua. Sentì appena le braccia di Sherlock attorno alla sua vita, il viso contro il suo petto e il battito del  cuore nelle sue orecchie, calmo, lento, rilassato e rilassante. Durò appena una manciata di secondi, ma a John bastò per annuire, ed essere sicuro nel suo profondo che sì, ce l'avrebbero fatta. Ci sono io.
L'uomo salì dalle scale, e si fermò ad osservarli. Aveva occhi grandi, infossati, di un verde militare, un ciuffo di capelli scuri che dovevano essere cresciuti molto negli ultimi tempi e la pelle tirata sulle guance di chi non mangia da troppo tempo. L'uomo si appoggiò per un attimo allo stipite della porta e continuò ad ansimare, velocemente, senza dire una parola. Sul suo viso c'erano tutte le emozioni del mondo e insieme nessuna, un po' come tutti i colori mescolati insieme danno il nero. Quell'uomo era nero, lo si vedeva nel profondo di quegli occhi persi e incavati e troppo lucidi, come comete che bruciano nello spazio e bruciano e bruciano e bruciano e sono fatte di ghiaccio, e potrebbero essere infinite non fosse per il calore delle stelle che, a poco a poco, le scioglie. All'anima di quell'uomo doveva essere successa la stessa cosa.
«Quindi sei tu.» La voce di Sherlock suonò come al solito sicura, profonda e brillante. I suoi occhi non mostravano alcuna paura, e brillavano. Gli occhi dell'uomo sembravano dipinti, invece.
«Piacere d'incontrarvi, milords. Davvero piacere.» Era una voce nervosa, ansimante e sottile, e spezzata. Ma non priva d'intelligenza, e John se ne accorse con un brivido. Sapeva che spesso i pazzi si considerano lucidi, e lui doveva essere uno di questi. Mentre ci pensava, aveva fatto un passo avanti. Si tormentava le mani come un bambino che si dice di dover ascoltare la mamma e non toccare la crostata appena sfornata perché è calda e si deve conservare per gli ospiti ma, oh, è così buona, chi mai se ne accorgerebbe se ne raccogliessi le briciole? Briciole. È questo ciò che siamo, per lui?
«Immagino che per te lo sia. Le nostre parole sembrano così buone?» John deglutì. A che gioco stava giocando, Sherlock? Perché lo istigava? Serrò la presa attorno alle sue dita e gli rispose una pressione rassicurante, il pollice che creava cerchi quieti sulla pelle del dorso della sua mano.
Lui annuì con forza, le braccia percorse uno spasmo. «Non solo buone, milord. Sono… come le stelle. Infinite e brillanti e potrebbero inghiottirti e bruciarti vivo - io le ho viste le stelle, sapete? Quando ero nel non-dove fra la prigione e qui. E bruciavano la pelle, ma mai quanto il sole che c'è su questa terra… ma a voi non interessa, è vero. E d'altro canto non interessa neanche a me, fintanto che sono venuto qui semplicemente per-» si passò la lingua sulle labbra, poi riprese; «potrebbero bruciarmi vivo ma sono così belle che vorrei metterle in uno scrigno e tenerle al sicuro e non toccarle mai più perché le sporcherei, ma sono debole e le voglio, non so se mi capite, le voglio perché sono solo un essere umano che non ha avuto niente per tanto tempo e ha fame e deve riempirsi di quella luce per essere vivo. Anche se…» Si portò le mani al viso, le fissò come se non le avesse mai viste, come se non fossero le sue. «…ho così tanta energia adesso.»
«Quella con cui hai ucciso le tue vittime precedenti. Ma loro non ti bastavano, vero?» Lui scosse la testa. Sherlock continuò, la voce quasi metallica. «Quindi ora vuoi prendere noi perché siamo meglio di tutti quelli di questo misero mondo? E dopo? Non ti basteremo neanche noi, lo sai?» Scuoteva ancora la testa, più forte. «Hai perso chi eri, non credo che ricordi neanche il tuo nome, non sai dove ti trovi. Hai perso, perché non vedi più le cose chiaramente. Hai lasciato che il mondo ti entrasse dentro come un veleno, mentre si dovrebbe solo osservare le cose e catalogarle e conoscerle, senza lasciarle entrare.» John fissò il profilo impassibile del detective, i riccioli bruni e gli occhi di ghiaccio, strinse forte la sua mano. Avrebbe voluto chiedergli cosa intendeva. Si vide insieme a lui, seduti sulle poltrone del 221b di Baker Street, la loro Baker Street, a sforzarsi di non innervosirsi per lo sguardo mentre ne discutevano. Ma Sherlock non si voltò neanche verso di lui, come se non lo vedesse.
«Io ho un nome!» L'uomo aveva iniziato a urlare, scuotendo ancora la testa con ferocia. Se la reggeva fra le mani, gli occhi sgranati, sembravano pezzi di carta colorati con le tempere da un bambino preciso, verdi slavati e vuoti, e; «Mi hanno tolto il mio nome, ma è ancora lì! È, è-» Si fermò di scatto. Sollevò la testa. Sorrise. «Ma di cosa me ne faccio, ora? Potrei semplicemente» ed il sorriso si allargò. «Prendermi i vostri.»
Allargò le mani ed i suoi palmi iniziarono a emanare una luce argentea e metallica, simile a quella dei fulmini. Dal cielo nuvoloso iniziarono a cadere gocce di pioggia pesanti come piombo. In quello stesso momento, l'essere scatenò la sua energia. Aveva ancora quel largo sorriso folle sul viso. Il tetto del Bart's tremò. Il cielo iniziò a tuonare.

Scatto. Velocità. Sarà troppo veloce per fermarlo. Lo vedo. La mano di John è nella mia. Vedo la cosa che salta verso di noi e ha l'aspetto di un uomo ma non lo è. Ha il corpo anchilosato di chi viene malnutrito e la pelle di chi non vede la luce da troppo tempo. I suoi occhi hanno quella stessa sfumatura. Velocità. Goccia di pioggia sulla mia guancia. Dura. Tirare indietro John. Troppo veloce. Non lo vedo più. La sua energia è come un campo elettromagnetico. La sento ed è come vento che mi solleva capelli e giubbotto. Mi investe. Pizzica, brucia. BRUCIA. «JOHN! JOHN!» Non sento più la sua mano nella mia. L'ho visto. Si è mosso. Prima c'era. Adesso non c'è più. John. Trovare John. Sono solo, adesso. Perché? Non capisco. Io capisco sempre tutto. Cosa succede? Questa è pioggia. Brucia. Cade sulla mia faccia e fa male. Non riesco più a vedere John. Non è più qui, ma c'era. Non è un sogno. Sento ancora il suo sudore umidiccio sulla mia mano. Ma lei non c'è più. La mano. Smetti di piovere. Mi manda in confusione. Non sento gli odori, solo muschio e calce bagnata. Pioggia. E il mio John è sparito. Forse lo so. Si è mosso in fretta. Era veloce. Guardo giù dal tetto. Non sento nulla, solo il rumore della pioggia. Sulle mie spalle. Sulla mia testa. Sulla mia faccia. È laggiù. Sembra un rospicino, da qui. È piccolo. Ha i capelli sporchi di rosso. Mattone. È mattone. Lo so che è mattone. Continua a piovere. Non sento neanche la sua voce. Perché non mi chiami, John? Adesso arrivo. Non preoccuparti. Adesso arrivo e ti tolgo tutta quella polvere di mattone dalla testa. Perché è polvere di mattone. Arrivo. Alla fine non ce l'ho fatta. Sono umano anche io. I sentimenti hanno vinto anche in me. Ma adesso arrivo, John. Arrivo e ce ne torniamo a casa. Appena smette di piovere. Perché questa pioggia fa così male? Mi bagna. Ora capisco.
Questa pioggia sono lacrime.

Quando l'ho visto iniziare a correre non ho fatto in tempo a scansarmi. Scusami, Sherlock. Sono sempre stato un po' troppo lento. E adesso stiamo volando insieme, sento il corpo scheletrico dell'uomo senza nome che preme sulle mie costole. È aggrappato al mio maglione come se fosse un paracadute, ma mi fa male. Mi sta strappando qualcosa che non sapevo di avere, e fa male. Intanto, continuiamo a cadere. Sento il vento che fischia, mi stanno esplodendo i timpani perché è troppo forte, e vorrei fermarlo, ma non posso. Non posso perché quando cadi non puoi bloccarti. Smetti di cadere solo quando colpisci la terra. Non ho paura di farlo. Alzo gli occhi oltre la spalla dell'uomo, e vedo Sherlock ancora girato di spalle sul tetto. No, non ho paura di cadere. Non ho paura di… morire. Morire. Come suona definitivo. Non si torna indietro, dalla morte, e io dovrei saperlo bene. Eppure non ho paura. Come quel ragazzo, in Afghanistan. L'avevo lasciato andare la mattina e la sera non era tornato. E neanche quella dopo. Ma lui non aveva paura. Sapeva di esserselo scelto. Neanche io ho paura. Se cado io cade anche lui. Non c'è scampo per me, ma neanche per lui, che continua a mordermi il collo. Questo fa male. I suoi denti che affondano nella mia pelle, questo sì che fa male. Eppure dovrei esserci abituato. 
Guardo di nuovo verso l'alto. Sherlock si è girato, adesso. Ora che ci penso, non sento neanche più il vento nelle orecchie. È tutto così… silenzioso. I colori sono diventati all'improvviso più forti, nitidi, come se qualche divinità impazzita si fosse divertita a sovraesporre il mondo.  E io sono leggero. Tanto leggero. Non so se voglio davvero guardarmi intorno, forse ho paura di quello che potrei vedere se lo facessi. Ma Sherlock è la sopra, e mi sembra sempre più… vicino. Sempre più nitido. Mi faccio coraggio. Guardo verso il basso.
Oh. Beh, non sono davvero un bello spettacolo. No, proprio no. Sono un piccolo rospetto rachitico in una posizione scomposta e decisamente innaturale. I miei capelli sono tutti sporchi di rosso e impiastricciati, devo farmi una doccia appena arrivo a cas… già. In questo momento realizzo. Non ci tornerò mai più, a casa. Che strana impressione che fa, dirlo. Mai più suona così definitivo, adesso che devo affrontarlo. Beh, direi che buttarsi giù dal tetto di un ospedale è abbastanza definitiva, come cosa. Non mi ha neanche chiesto il permesso. Si è semplicemente buttato su di me, e siamo caduti insieme. Per un attimo devo anche averlo sentito urlare. E se io non avessi voluto morire? Non che mi abbia fatto male, o cosa, mi ha solo dato fastidio, perché magari io non volevo morire. Magari volevo continuare a vivere la mia esistenza pacifica e senza uno scopo particolare. Insomma, di sicuro non ero io quello interessante, dei due. Però è meglio così. Vedermi schiacciato per terra come una marmellata d'essere umano fa molto meno male che immaginare Sherlock al mio posto. No, è meglio così. Probabilmente sarei morto in ogni caso, se a cadere fosse stato lui. Una morte un po' meno fisica, certamente, ma comunque sarei morto. Mi sarei spento come una candela sotto una cascata. Però almeno poteva chiedermelo. Beh, sì, non è particolarmente scenografico. «Salve, Dottor Watson, che gliene pare di morire, oggi pomeriggio?» No, in effetti non funziona. Meglio così. Meglio essersene andati in silenzio. Ma se guardo proprio bene, laggiù, in quella poltiglia scura fatta di pelle, sangue e pioggia che è il mio cadavere, vedo ancora lo stupore, nei miei occhi. Sono rimasti aperti. Sinceramente avevo smesso di pensare alla morte da che ero tornato dall'Afghanistan. Non ho mai pensato di morire così. Ero sicuro che me ne sarei andato con un proiettile, o una bomba, o chissà quale diavoleria Afghana, ma mai avrei pensato di morire per essere caduto da un ospedale nell'Ottocento. Non che possa farmene una colpa, in effetti non è particolarmente realistica come ipotesi. Eppure eccomi qui. Morto. Se non fossi sicuro che quello che vedo sotto di me è il mio corpo, e che quindi i miei occhi sono rimasti laggiù insieme a tutta la mia faccia - a quello che ne resta dopo un volo di quasi dieci metri, almeno - e con loro tutto il mio apparato lacrimale sarei quasi sicuro di star piangendo. Ma non sto piangendo, sono solo invaso da una tristezza inutile e profonda. Sto lentamente realizzando di essere morto. 
Di essere morto senza aver mai neanche… senza aver mai neanche detto a Sherlock quanto lo amassi. Oh, dio santo, se non sono patetico. Sì, lo so. Ma concedetemelo, in fondo sono morto. Mi meriterò un po' di facezie da diva, almeno adesso, no. Comunque mi dispiace. Tornerei indietro volentieri, adesso che sono sicuro di non poterlo più fare, e glielo sussurrerei ogni momento. Anzi, se tornassi indietro sapendo che finirebbe così, mi godrei ogni nota di violino alle tre di notte, ogni suo esperimento nel microonde e ogni testa umana nel frigo. Alla fine non erano così male. Almeno… erano. Non come me. GIà. Perché io adesso non sono. Non sono più. Posso vedere tutti gli universi paralleli, e tutta la linea temporale - tra l'altro, che pessima scelta di parole. Non è affatto una linea. È più simile ad una sfera. Neanche una vera sfera, però, è più un ammasso strano di cose, una "wibley-wobley-timey-wimey" roba che ondeggia su e giù - e il suo svolgimento, di qua e di là dalle barriere che separano i mondi. Quante cose che non sappiamo, noi piccoli miseri cuccioli mortali. Adesso che non sono più uno di noi, mi facciamo pena. Credo che la mia nuova condizione di morto mi stia mandando in pappa il cervello con i pronomi personali. Noi, voi, essi. No, tutto uguale. Solo che voi camminate ancora sulla terra, e vedete ancora una sola dimensione alla volta. Io invece vedo tutto insieme, e vi assicuro che non è bello come pensate. Se è quello che vede davvero il Dottore tutti i giorni, mi chiedo come faccia a non esserne uscito pazzo. Ah, già, scusate. Lo è. 
Adesso sono di fianco a Sherlock. Vorrei toccarlo, ma non trovo la mano per farlo. Vorrei parlargli, ma non mi ricordo più com'è, parlare. Riesco solo a pensare, se questo è pensare, poi. Vedo i miei pensieri che si scrivono in giro per la testa come se fosse un foglio di carta, e vedo anche i pensieri di tutti gli altri. Vedo delle figure scure che, là in basso, si raggruppano accanto al mio corpo - ma quanto siete premurosi! Vedo il Dottore che pensa un grido verde, ma non lo sa neanche lui davvero. Vedo Rose che pensa in grigio e nero, e in mezzo al grigio ci sono una macchina e un vaso, chissà che è. Sherlock invece non pensa. Cioè, sì, pensa, ovviamente, lui pensa sempre, ma i suoi pensieri sono trasparenti, sono pensieri di vetro. E si stanno rompendo, velocemente. Mi muovo - faccio qualcosa che sicuramente se avessi un corpo sarebbe muovermi, se non altro - e mi metto faccia a faccia con lui. Piange. 
Non ho mai visto Sherlock piangere. Piange davvero. Lacrime. Tante, grosse. Cadono per terra. Seguono la linea di quei suoi zigomi troppo marcati, scivolano sul mento e si fermano per un secondo sul colletto del suo giubbotto, come se si stessero prendendo una pausa meditativa. Poi, in file ordinate, cadono per terra. Sono tutte colorate. Sono belle, le sue lacrime. Hanno tutte le sfumature di vita che i suoi pensieri non hanno più, sono un arcobaleno di parole ed emozioni intrecciate, fuse, cadute e perse per sempre. Non può riprendersele, quelle lacrime. Me ne rendo conto solo in questo momento, perché vedo tutti i mondi insieme, e tutti i momenti della storia, e ogni ora, e ogni ticchettio di orologio: i suoi pensieri resteranno per sempre pensieri di cristallo. Resteranno brillanti, sì, e splenderanno sotto la luce del sole; ma appena il sole tramonterà scompariranno, e nessuno andrà più a cercare i cocci di quella che è stata la mente più brillante della nostra generazione. È come in Blade Runner, tutti questi momenti andranno persi come lacrime nella pioggia. Ed è colpa mia. No, in realtà è colpa sua, che non mi ha chiesto il permesso. Se soltanto mi avesse chiesto se volevo vivere ancora adesso Sherlock avrebbe ancora quell'arcobaleno che sta cadendo dai suoi occhi nella sua mente. Piove, adesso. Piove forte, e nasconde le sue lacrime. Sì, in effetti la pioggia sta lavando via tutti i nostri momenti. Ha la bocca un po' socchiusa, una lacrima si ferma sul labbro increspato. In quella lacrima ci siamo noi, mano nella mano sul tetto del Bart's pochi minuti fa. La lacrima si ferma sul suo colletto. Sbiadisce. Cade in una pozzanghera ai suoi piedi, e diventa solo briciola d'acqua nel mare. Alla fine è questo che siamo, no? Briciole. Briciole che vengono spazzate via semplicemente perché nessuno ti chiede se può. 
Fa niente. Ho vissuto la mia vita da briciola, e ho colorato i pensieri di qualcuno. Se avessi una bocca sorriderei. Guardo ancora un attimo nella mente di vetro di Sherlock. La crepa che si sta aprendo diventa sempre più grossa.

  
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