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Autore: Tuttoatemiguida    13/07/2012    4 recensioni
Ansimo,sotto il peso del suo corpo.
Lui mi bacia il collo, e scende piano, lasciando una scia di baci roventi, che bruciano come ghiaccio sulla pelle.
L'attesa è estenuante. Lo voglio, adesso.
Genere: Erotico, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 1.

La sveglia suona, come previsto, troppo presto.
Allungo il braccio sul comodino, e a tastoni cerco quell'essere infernale, per smorzarlo e riprendere beatamente il sonno interotto.
Finalmente la trovo, in mezzo a tutte le cianfrusaglie, e con un gesto repentino, e inconsapevole, la spingo a terra.
Al tonfo sordo della sveglia caduta, alzo la testa ed esclamo : - Cazzo.-
Mi metto a sedere sul letto, e lentamente la raccolgo, la controllo grossolanamente, ma sono sicura che si è rotta.
Pace all'anima tua, sveglia numero sette. Avevi solo cinque giorni di vita,
Mi alzo dal letto con il cadavere ancora tra le mani, i piedi a contatto con il pavimento ghiacciato hanno una sensazione di benessere e freschezza, mi dirigo verso la scrivania, dove al lato è sistemato il cestino dei rifiuti.
Sotterrò lì la povera sveglia sventurata, tra i fogli del mio quaderno di matematica e i cartellini delle maglie appena comprate e già indossate.
Avanzo di nuovo verso il letto, alzo un ginocchio, con l'intento di salire, quando dal bagno, la voce nitida di mia madre, interrompe le mie intenzioni.
- Sara, sei pronta? Scendiamo tra mezz'ora.-
" Porca puttana, ieri sera era seria." penso. "Passerò davvero tutta l'estate al ristorante. Dannato coprifuoco. Dannata discoteca. Dannatissimo Vittorio. "
Mi fiondo nella cabina - armadio, consapevole che trenta minuti, come i dieci di ieri sera, sono troppo pochi.
Cerco disperatamente qualcosa da mettermi, e arraffo una canotta nera, e uno short di jeans, per ultimo le scarpe, converse nere.
Infilo tutto alla velocità della luce, pentendomi subito di non aver messo i calzini, afferro dal comodino la collana Tiffany&Co, e quella con il mio nome inciso, e gli orecchini di ieri sera, pendenti neri, decisamente esagerati per il giorno.
Esco dalla mia stanza, e mi ritrovo davanti mio fratello Marco, dodici anni, ma và per i cinque.
Lo scanso e vado in bagno, lì ci trovo mia madre intenta a truccarsi , con quell'ombretto verde che io odio, perchè a me, carnagione olivastra, occhi neri e capelli altrettanto scuri sta male, mentre a lei pelle bianca come il latte, bionda e smeraldi al posto degli occhi sta divinamente. Se non assomigliassi tanto a mio padre, mi verrebbe il dubbio di essere stata adottata. 
Mi lavo i denti, consapevole di non avere ne la voglia, ne il tempo di far colazione, e prendo una spazzola dal cassetto alla sinistra dello specchio. Inizio a spazzolare, e opto per una coda alta, sobria e fresca. Intanto mia madre ha finito di truccarsi, e mi scruta con i suoi occhi indagatori : - Tesoro, lo sai che abbiamo un ristorante, vero? Non vendiamo prosciutti. - dice fissando le mie gambe. 
In un primo momento non colgo la battuta, perchè il sarcasmo non è mai stata una caratteristica di mia madre, semmai la mia. Poi mi guardo le gambe, e capisco. 
Da quando è iniziata l'estate ho messo su qualche chilo, e sebbene avrei preferito riempire un po' il mio posteriore, quei maledettissimi grassi hanno deciso di stanziarsi proprio dove non avrebbero dovuto.
- Simpatica. - esclamo ironica.
Finisco di truccarmi velocemente. Mentre mia madre chiama l'ascensore, mi fiondo in camera a prendere la borsa, quella di ieri sera. 
Afferro il cellulare dal comodino, e nascondo le Winston Blue nella sacca interna della borsa. Pronta.
Quando mi dirigo verso la mia macchinetta 50, mia madre mi ferma, e fa segno di seguirla verso la sua, di macchina.
Molto probabilmente aveva già intuito le mie intenzioni, scappare. Nel momento in cui ci sarebbe stata più folla, quello in cui non avrebbe potuto chiamarmi e farmi una scenata al cellulare, minacciandomi di chiudermi in casa per tutta la vita, sarei scappata. Magari andando al mare, a ciondolarmi con un libro tra le mani.
Aveva deciso di evitare tutto questo, semplicemente proibendomi di prendere la macchinetta.
Se si prospettava una brutta giornata, adesso avevo la certezza che sarebbe stata una giornata di merda.

 
- Buongiorno a tutti.- dico mettendo piede in quell’odiato locale, quello che sa di fragole e famiglie sfasciate, di fronti imperlate e sogni infranti.

Uno, due, tre, quattro, cinque. Due persone in più.
I miei occhi spaziano, e vanno da quelli di mio padre, stanchi, a quelli di una ragazzo sulla ventina, con gli occhiali inforcati sul viso, acne giovanile ancora in piena espansione, e il grembiule sporco.
Fanno un giro lungo però, ritornano a quelli di Peppe, lo chef napoletano, continuano la corsa e trovano gli occhi chiari di Federico, il tirocinante che di lavorare seriamente proprio non c'ha voglia.
Arrivano poi, a un paio di occhi, smaltati di nera pece, profondi, arrossati, sognatori.
Cerco di staccare gli occhi dagli occhi, per vedere ciò che gli sta attorno, ma come la gravità, mi tengono attaccata. Sono occhi familiari, e sconosciuti.
Quelle cinque persone mi guardano, salutano, e poi tornano  a ciò che stavano facendo prima che facessi irruzione nella quiete lavorativa estiva.
Resto lì, impalata con un’espressione inebetita sul viso mentre anche mia madre varca la soglia, con i suoi tacchi dodici, che andavano di moda qualche anno fa, con il sorride smagliante disegnato sul volto e la sua voce squillante che rimbomba nell’intero locale. – Buongiorno. –
Gli altri però, le riservano il mio stesso trattamento. Un buongiorno annoiato, e di nuovo a lavoro. Il ragazzo dal fisico asciutto, e gli occhi penetranti però si sofferma nuovamente su di me, e anche io non posso fare a meno di guardarlo.
“Ma che cazzo…” dice la mia vocina interiore, intenta a schiaffeggiarsi.
La mia attenzione però, ricade di nuovo su mia madre mi indica la divisa da cameriera, e mi fa segno di andare a cambiarmi, mentre si affretta a dire :
- E’ tutto pronto? Posso stampare il menù del giorno? –
Ma l’aria mesta e affranta di mio padre, e dei due chef la dice lunga. Mia madre, che di solito è la persona più espansiva del mondo, sembra che non voglia sprecar parole, ed indica il suo studio. Restiamo in tre, in quella grande cucina. Appoggiata alla cella frigorifera, indecisa sul da farsi, mi rigiro tra le mani un laccetto della divisa, mentre con gli occhi scruto i due ragazzi intenti a pelare le patate.
“Oh, al diavolo.”
Afferro il bavero della divisa di Vittorio, e lo tiro verso la cella frigorifera, richiudendo la porta, dico all’altro, Riccardo, quello con gli occhiali e l’acne giovanile : - Puoi scusarci un attimo?!-
Con la mano ancora sulla maniglia sospiro, cercando il coraggio di voltarmi. Tra i formaggi che penzolano dagli appigli del soffitto, e la condensa del suo respiro, lo ritrovo a scrutarmi con quegli occhi, carboni ardenti, capaci di scaldarmi anche in una cella frigorifera.
Sento che sto per sciogliermi, quindi scrollo la testa ed urlo :
- Che cazzo ci fai qui?!-

Si, lo so. Sono consapevole di avervi fatto aspettare un po' troppo.
Spero di riuscire a farmi perdonare con una nuova storia, fresca fresca, alquanto autobiografica. Chissà.
Un bacio, Sissi.


   
 
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