Višegrad, 02.03.1995
Vi scrivo, padre, e queste sono le memorie di un morto,
perché non so se vedrò un altro tramonto e l’alba è così lontana che nemmeno il
pensiero l’accarezza.
Non rispetto le regole, non rifinisco l’intestazione: non è
così che avete educato l’erede del vostro nome, ma è così che morirò.
La guerra cancella tutto, padre.
Cancella il sangue e il suo valore.
Cancella i colori.
Dojna dice che a Višegrad il cielo sbiadiva dal viola al rosa
e che la Drina era una vena d’oro.
La Drina ne ha inghiottito Milan, il fratello, e nelle sue
acque ho visto svanire Branko e Goran e Pero.
La caccia ai bosniaci si è aperta ed è caccia vera.
Penso ai giorni di Durmstrang, al bianco e al nero che mi ha
allevato.
Penso agli scherzi feroci che Klaus ed io facevamo al piccolo
Florian, quando ci sentivamo i padroni del mondo.
Dojna dice che la vita era bella qui, confine sospeso tra due
mondi; che due lingue e due fedi facevano solo più bello l’amore.
Dojna ne parla con occhi pieni di speranza, poi imbraccia il
kalashnikov e torna a essere solo uno sniper bosniaco: un cane sciolto che
abbatte i lupi di Karadžić e Mladić.
Dojna è una Babbana ed è la mia donna, padre. Della vita che
avevo, della sposa che mi era stata promessa, non resta più niente.
Oggi, più che mai, so che la fede in cui sono stato cresciuto
è la stessa che ha fatto impazzire il mondo.
Oggi so che i Babbani sono migliori di noi, perché le loro
guerre sono sangue e fango e merda, non un igienico lampo verde.
Rinunciare alla magia vuol dire sporcarsi le mani. Quando
l’ho fatto, padre, ho compreso che della vita non sapevo niente.
È successo a Sarajevo: è lì che ho perso tutto. Ho perso mio
fratello, la mia identità, la mia bandiera.
È lì che ho trovato la guerra vera o che la guerra ha trovato
me.
Se tornerò mai a casa, padre, non sarò chi ricordate: Kaspar
Von Kessel è già morto mille volte.
Višegrad, 03.03.1995
Li hanno allineati lungo il costone del ponte. È un ponte
famoso, sapete? È un ponte bellissimo.
C’erano vecchi e bambini. Le donne le hanno lasciate per
ultime.
Un bambino piangeva: l’hanno colpito così forte da sfondargli
la testa. Si è sgranato come un fiore, padre, ed io non ho potuto fare niente,
perché ero troppo distante per sparare.
Slobo mi chiama Zwei Zigaretten. Dice che non ho
bisogno della terza, per far saltare una testa.
È una superstizione da cecchini: non si fuma al buio e non si
usa mai lo stesso fiammifero. Il perché me l’ha insegnato Dojna, una notte in
cui eravamo di guardia al ponte. Nell’oscurità, all’improvviso, si è accesa una
brace monocola. L’ho vista imbracciare l’AK-47 e aspettare.
Alla seconda fiammella, ha aggiustato la mira.
Alla terza ha sparato.
Dopo lo sparo, la brace si è spenta.
“È stato Milan,” mi ha detto. “È lui che mi ha insegnato a
usare il kalashnikov.”
Dojna ha ventitré anni, ma qui sono quasi tre secoli. Ha gli
occhi verdi e i capelli neri. L’hanno stuprata in dodici: dodici serbi
gliel’hanno messo dentro, finché non ha smesso del tutto di urlare.
Ha avuto un figlio, che è nato morto.
“Era inevitabile,” mi ha confessato. “Di vivo, qui intorno,
non c’è più niente.”
L’ho incontrata a Sarajevo, dove mi sono perduto, padre.
Ho trovato lei e ho fatto la mia scelta.
Višegrad, 04.03.1995
Il fronte si è spostato a Tuzla.
Le notizie corrono lente, dove il mondo è finito e la Storia
è alla deriva, ma sono veloce io, nel cielo sgombro.
Non sono riuscito ad avvicinarmi, perché era in corso un
bombardamento.
Le forze dell’Onu e della Nato non reagiscono: usano le
parole e le promesse, quando serve una scelta di campo. Io l’ho fatta.
Sono un disertore, padre? No, sono un uomo.
A Sarajevo ho visto sniper sparare a donne indifese che
facevano la fila per il pane.
Ho visto i nostri connazionali arricchirsi, perché il marco è
la valuta che pesa di più.
Ho capito che Voldemort non è un corpo, né uno spazio fisico,
perché il Male ha ormai avvelenato tutto.
Si è preso anche me, padre.
Ho buttato via la bacchetta e
(Più tardi)
ho avuto in cambio un fucile. È stato un processo lento, come capita solo alle infezioni:
poco alla volta, l’abitudine ai Babbani ha vinto la diffidenza del sangue.
Quando abbandoni la magia, quando sei costretto a farlo,
perché attorno a te hai solo uomini, ti accorgi che il mondo ha colori diversi
da quelli che hai sempre visto. Che la vita non è facile. Che il sangue è quello
che trovi accanto a un bambino bianco come carta, con una rosa nel petto.
Un sangue che è rosso per tutti.
Penso al nonno, all’orgoglio con cui parlava di noi, i più
puri e i più rari tra tutti i Purosangue, e penso a mia madre, al coraggio con
cui ha accolto Florian, pur sapendo che l’avrebbe consumata.
Ci avete mai riflettuto, padre?
Quella della nostra famiglia è una storia di sangue diviso,
come la terra in cui vivo e combatto.
È, soprattutto, una grande storia d’amore, dalla morale
sorprendente: la vita ha un solo colore.
Maghi, Babbani, Sanguepuro o Sanguesporco, siamo fratelli e
uguali anche quando ci ammazziamo. E allora, se devo diventare un assassino,
voglio uccidere come un uomo, per sentire la responsabilità di un errore senza
ritorno.
Prima della guerra, Dojna voleva diventare giornalista.
Studiava all’Università di Sarajevo e imparava la mia lingua.
Dice che vuole fare l’amore in tedesco, perché è la voce del
prima: è tutto quello che ha salvato dalle macerie di una vita da
buttare.
Ed io, padre? Io cosa ho salvato?
Quando riabbraccerete Florian, insegnategli a voler bene.
L’odio e il sospetto non valgono i suoi anni e la sua intelligenza.
Non valevano i miei, ma l’ho scoperto tardi.
Srebrenica, 02.03.1995
Padre onorato,
vi scrivo dall’enclave di Srebrenica, dove, al termine di una
marcia sfiancante, siamo arrivati ieri notte. Abbiamo attraversato a piedi
un’autentica polveriera, come i cetnici degli anni Quaranta. L’abbiamo fatto per
evitare nuovi scontri e per respirare l’odore della notte, anziché quello del
sangue. Dopo la tregua invernale, la Bestia si è svegliata: solo ieri
ho schiantato due Warg e catturato un licantropo. Combatto per non pensare a mio
fratello. Combatto e sogno solo di riportarlo a casa con me, padre.
So di aver disatteso i miei doveri di figlio, poiché, dei
diari che vi avevo promesso, non ho scritto niente, ma la piuma pesa tra le dita
più di una bacchetta.
La piuma, padre, e il demone che i Babbani chiamano anima.
Ho perduto Kaspar, padre, e non so perdonarmelo. Se fossi
stato più attento, se mi fossi affidato all’istinto, forse avrei potuto
prevedere quel che è capitato. Avremmo combattuto e non posso dire che l’avrei
sconfitto, perché voi sapete quanto forte e capace sia mio fratello, ma avrei
avuto la consolazione dell’azione. Invece mi è toccata la parte ingrata dello
spettatore inerte: non è tornato da Markale. Non l’abbiamo più trovato.
Ho battuto tutta Sarajevo per cinque giorni. I colpi dei
cecchini sibilavano ovunque, ma non sono mai stato colpito: la morte era già in
me.
Se l’avessi trovato riverso in terra, padre, forse avrei
potuto accettarlo; se fosse stato ferito o mutilato o ridotto in fin di vita,
avrei potuto vendicarlo. L’assenza, invece, è un vuoto incolmabile, che lascia
spazio solo al rimpianto e alla nostalgia.
Anche il colonnello O’ Donnell ha accusato il colpo, poiché
eravamo allievi suoi, dunque figli. Dai giorni della Krajina, tuttavia, ho
capito che i soldati hanno un solo genitore: madre guerra.
La notte è spaventosa, qui, sapete? Non c’è più elettricità,
il gas scarseggia e la benzina è un bene di lusso. Accanto ai soldati Babbani
batto i villaggi, per garantire la sopravvivenza a questa povera gente. Sono
rimasti quasi solo vecchi e bambini. Le donne – le poche che incontri – hanno
occhi da belva ferita e ti si spogliano davanti.
Kolja Van Beek, del comando olandese, mi ha detto che i
cetnici praticano lo stupro etnico e che non risparmiano nessuna sopra i dodici
anni. Chi fa resistenza, non lo racconta.
Le bambine di tredici anni si rasano a zero e si fingono
ragazzi. Qualcuna, invece, si pittura la bocca e ti sorride come una consumata
puttana.
Cento marchi, bel soldato. Sono ancora vergine.
È questo che ha fatto impazzire Kaspar?
Sono stati quegli occhi?
Quella dignità oltraggiata?
Non lo so, ma non mi arrendo: voglio ritrovarlo, padre.
Trovarlo, portarlo a casa e costringerlo a combattere la
guerra che ci aspetta.
I Babbani possono fare a meno dei fattucchieri, ma se c’è
l’ombra del Signore Oscuro dietro quello che vedo, la tempesta che sta per
abbattersi su di noi – su tutti noi – potrebbe cancellarci per sempre. Ed io no,
padre: io voglio vivere.
Vostro Klaus Von Kessel.
Višegrad, 14.03.1995
L’hanno ammazzata.
Mi ha lasciato mentre dormivo, per comprare il pane.
Mi ha lasciato il suo profumo, senza che potessi dirle addio
o raccontarle chi ero e quanto pericoloso fosse il mio sangue.
Mi sono svegliato ed ero solo: quell’evidenza è diventata un
sospetto buono a divorare tutto il mio coraggio.
Ho preso il kalashnikov e sono uscito: l’alba di Višegrad era
quella che Dojna mi aveva raccontato, ma lei non c’era. Non era al mio fianco.
Non era da nessuna parte. Poi ho sentito lo schianto e le urla e ho capito che
il silenzio era la coperta sotto la quale le tigri di Arkan si preparavano a
colpire.
L’hanno ammazzata sul ponte – il nostro ponte.
Uno straccio dagli occhi pallidi.
Non sono riuscito a toccarla, perché non volevo il suo sangue
nelle mie mani. Non potevo sopportarlo.
Ho pensato a voi, padre: al giorno in cui nostra madre è
morta.
Siete stato voi, vero, ad assisterla? Voi avete lottato con
l’emorragia e voi vi siete bagnato della poca vita che le restava.
Ora comprendo il vostro riserbo e la vostra freddezza; ora so
perché non ci avete più abbracciato: non volevate che a contaminarci fossero le
mani di un assassino.
È così che mi sento io, ultimo vivo in una città di morti.
Una città che mi era estranea e che ora mi appartiene, perché si è presa Dojna. Si è presa tutto.
Vado a nord, incontro ai cetnici.
Vado a morire e queste sono le mie ultime parole. Le rivolgo
a voi, ai miei fratelli, a Margaretha.
Non ditele che l’ho tradita, perché, a mio modo, ho amato
anche lei. Solo che non conoscevo la vita, né l’amore. Non immaginavo che fosse
così potente e velenoso.
Vi ho deluso, padre, e non lo meritate, perché da voi ho
imparato la lezione più importante: la fedeltà al cuore. Quando vedrò mia madre,
le racconterò quanto l’avete amata.
Che il suo sorriso vi protegga tutti.
Kaspar
P.S. Questo è l’ultimo ricordo felice che ho diviso con mio fratello. Restituiteglielo: saprà cosa farne.
Agenzia Reuters, 21 marzo 1995
Su Tuzla le bombe tornano a seminare la morte.
Nelle prime ore di ieri l’esercito musulmano ha sferrato un
attacco contro le forze serbo-bosniache che hanno risposto con una pesante
offensiva, la più grave violazione del cessate il fuoco entrato in vigore in
Bosnia dall’inizio di gennaio.
Stando a notizie non confermate, le vittime potrebbero essere
fra le cinquanta e le duecento. Secondo fonti delle Nazioni Unite, la situazione
è tanto allarmante da far temere che la tregua - la cui scadenza è fissata per
il prossimo primo maggio - possa essere definitivamente dimenticata dalle parti
in guerra.
Gli scontri sono esplosi prima dell’alba sulle colline di
Majevica, a est di Tuzla, città controllata dalle forze governative, poi sul
monte Vlasic, un picco in mano ai serbo-bosniaci, nei pressi della città di
Travnik, nella parte centrale della Bosnia e infine a nord, nel corridoio di
Posavina.
A Tuzla, una delle sei zone sotto la protezione dell’Onu,
diverse bombe hanno centrato una caserma delle forze governative uccidendo
almeno trenta soldati. Altri ottanta sono rimasti feriti. Secondo l’Unprofor, il
bombardamento sarebbe stato conseguenza di un attacco sferrato dai musulmani
contro i serbo-bosniaci nella parte orientale della città. Più di duecento
persone sono state ricoverate nell’ospedale civico. Vittime anche fra i civili. L’Unprofor ha contato fra i quattrocento e i cinquecento
colpi di artiglieria pesante a Majevica, a est di Tuzla, e ha registrato lo
spostamento di almeno duemila soldati bosniaci.
«Tutto fa pensare che i governativi abbiano sferrato
un’offensiva in grande stile nella regione» ha dichiarato Gary Coward, portavoce
dei caschi blu. Molti colpi di artiglieria pesante sono stati uditi ieri mattina
anche nel corridoio di Posavina, la zona cioè che permette ai serbi di tenere in
collegamento i loro territori occidentali con quelli orientali, e a Travnik nel
centro della Bosnia.
Si spara anche in Croazia.
Le truppe di Zagabria hanno attaccato domenica una pattuglia
dell’Onu presso la ‘linea del fronte’ della Krajina (territorio geograficamente
della Croazia, ma controllato da secessionisti serbi), ferendo un casco blu
canadese. Lo ha reso noto ieri il quartiere generale Unprofor di Zagabria.
L’attacco - secondo l’Unprofor - è stato «deliberato». La
pattuglia dei caschi blu stava pattugliando la zona, all’interno della Krajina,
quando un’unità croata - a circa trecento metri di là dalla ‘linea del fronte’ -
ha aperto il fuoco e ha intensificato i tiri mentre i soldati dell’Onu si
ritiravano.
L’Unprofor ieri mattina ha inviato una nota di protesta al
governo croato.
A Sarajevo sei persone sono state ferite dai cecchini. Fra
queste un’anziana donna ricoverata in ospedale in gravi condizioni dopo essere
stata colpita nel quartiere di Dobrinja.
Questa recrudescenza dei combattimenti, unita allo scarso
successo delle iniziative diplomatiche fanno temere agli osservatori che con la
fine dell’inverno la situazione possa precipitare riaccendendo il conflitto in
tutta la Bosnia. Un portavoce dell’inviato delle Nazioni Unite in Bosnia Yasushi
Akashi ha cercato di gettare acqua sul fuoco riconoscendo che le notizie
provenienti da Travnik e Tuzla «sono allarmanti, ma non autorizzano a trarre
conclusioni troppo drastiche sul futuro della tregua». Ma altre fonti
diplomatiche danno per inevitabile il precipitare del conflitto: «Solo un più
incisivo intervento internazionale potrebbe riaccendere la speranza. Per il
momento, però, nessuna delle iniziative partite dopo gennaio ha avuto successo,
così non deve sorprendere il fatto che abbiano ricominciato a farsi sentire le
armi».
Gli ultimi sviluppi della situazione e il futuro della
missione Unprofor in Croazia sono stati discussi ieri a Belgrado dal
co-presidente della Conferenza internazionale di pace Thorvald Stoltenberg con
il presidente serbo Slobodan Milošević.
Gli stessi temi – ha detto Radio Belgrado – sono stati anche
al centro di un colloquio, nel pomeriggio, tra Stoltenberg e il leader dei serbi
della Krajina Milan Martić
Sarajevo, 23.03.1995
Ritrovato Kaspar.
Condizioni disperate.
Siamo all’ospedale Kosevo. Colonnello
O’ Donnell autorizza visita.
Rivolgersi Ambasciata Sarajevo.
***
Von Humboldt solleva lo sguardo.
Von Kessel tace.
“Andate e non guardatevi alle spalle. Ho buoni contatti con
il Ministero Babbano e sarà un piacere usarli per voi.”
Axel s’inchina.
“Non siate troppo severo: i figli sono foglie; prima o poi,
abbandonano tutti il ramo che li ha nutriti.”
Von Kessel annuisce, il cuore altrove: quando il falco di
Florian raggiunge Lübeck, è già a Sarajevo, né leggerà mai quanto gli è
destinato.
È un quadrato di pergamena, stracciato ai bordi, per tre
parole.
Rette mich, Vati.
Aiutami, papà.
Finisce bruciato in volo, dalle parti di Zenica, con il
piumato messaggero.
È la prima volta che Florian non usa il Sie e chiede
aiuto.
Della sua voce disperata, tuttavia, restano appena cenere e
fumo.
Nota: (1) Il brano è tratto da La Repubblica del 21/03/1995.