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Autore: SognoDiUnaNotteDiMezzaEstate    16/07/2012    8 recensioni
Era quello che volevo, no? L’occasione giusta per mandare tutto all’aria e concedermi del tempo per me.
Avevo immaginato di mandare al diavolo il mio lavoro e la mia coinquilina tante di quelle volte che nemmeno ricordavo quando la mia insofferenza nei loro confronti fosse iniziata. Quello che non avevo immaginato, però, era di non intraprendere quel viaggio da sola; e che ad accompagnarmi sarebbe stata una delle persone da cui cercavo disperatamente di fuggire in quel momento: Edward Cullen.
Genere: Avventura, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Coppie: Bella/Edward
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun libro/film
Capitoli:
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Route 66

And you are such a fool to worry like you do.

I know it's tough, and you can never get enough

Of what you don't really need now.

My, oh my.

You've got to get yourself together,

You've got stuck in a moment

And you can't get out of it.

U2 - Stuck In A Moment You Can’t Get Out Of

20. Faraway horizon

Ero rimasta in silenzio, senza sapere che cosa dire, che cosa fare.

Il movimento delle sue dita sui miei capelli si fermò. «Di’ qualcosa, ti prego», esalò dopo diversi minuti di silenzio.

«Cosa?», sussurrai, con la voce che tremava.

«Ad esempio che non stai per alzarti e scappare da Los Angeles per quello che ti ho chiesto».

«Non sto scappando… sto riflettendo», mi difesi.

Edward rimase in silenzio ancora per qualche istante, poi intervenne di nuovo: «Di cos’è che hai paura? Ci sono state delle volte che sei rimasta diverse settimane da me, e mi sembrava che le cose funzionassero».

Mi morsi il labbro.

«Potresti finalmente lasciare l’appartamento e Jessica e Mike. Pensavo fossi stanca di loro», aggiunse.

Tacqui, e riflettei su ciò che comportava accettare la sua proposta, ovvero trasferirmi a casa sua non appena saremmo tornati a Chicago.

Se fossi andata a vivere da Edward non avrei più avuto il mio appartamento. Avrei dovuto lasciare quello che potevo considerare il mio porto sicuro e allora non avrei più avuto nessun nascondiglio. Cosa avrei fatto se Edward ed io avessimo litigato? Dove sarei potuta andare? E se le cose fossero precipitate e ci fossimo nuovamente lasciati? Mi sarei ritrovata senza un tetto e sicurezze. Erano le stesse paure che mi avevano bloccata e impedito di fare quel passo gli anni precedenti. Non era la prima volta che Edward mi faceva quella domanda ma fino all’anno prima avevo sempre rifiutato e lui aveva accettato di buon grado perché il mio appartamento si trovava ad appena un isolato dalla redazione del giornale presso cui lavoravo, e quando capitava che restassi a lavoro fino tardi era comodo avere la casa a due passi. E quando Edward ed io litigavamo mi rifugiavo spesso lì per rimettere in ordine le idee. Ma per il resto del tempo restavo da lui, e mi ero sempre sentita a casa, più che in quell’appartamento condiviso con Jessica.

«Non stiamo correndo un po’ troppo?», gli chiesi in un sussurro, cercando nei suoi occhi il minimo segno di indecisione.

Edward si mise a sedere, e strinsi il lenzuolo intorno al busto. «Non ha senso aspettare. Abbiamo aspettato tutti questi anni, e guarda cos’è successo. Voglio ricominciare da capo e questa volta senza saltare nessuna tappa per paura di accelerare troppo le cose».

Aspettai che continuasse.

«Potrai tenere ancora il tuo appartamento finché non ti sentirai sicura di poter restare da me anche quando le cose si mettono male», aggiunse, con un sorriso rassicurante.

Ripensai a quei giorni passati insieme, a quando in passato restavo anche settimane a casa sua senza sentire il minimo bisogno di tornare al mio appartamento. Avevo accarezzato più volte l’idea di trasferirmi definitivamente, ma non l’avevo mai fatto per paura. Ed io ero stanca di avere paura.

«Va bene», dissi alla fine, buttandomi. Negli ultimi tempi avevo preso diverse decisioni di getto, seguendo il mio istinto, e fino a quel momento non mi aveva delusa. Speravo di poter continuare a fidarmi.

Gli occhi di Edward si allargarono nella poca luce della camera. Vedevo un sorriso nascere sulle sue labbra ma che tentava di reprimere, incerto. «Davvero?»

Annuii lentamente, sorridendo per mostrargli che ero certa. Sorrise anche lui, e portò una mano sul mio viso, scostando indietro i capelli che si erano asciugati da soli e ora sembravano un cespuglio di rovi. Fermò la mano sulla mia nuca, e avvicinò il viso per baciarmi delicatamente.

Mi allontanai poco dopo. «Se per te va bene lascerei subito l’appartamento», gli dissi.

Ridacchiò. «A Jessica verrà un colpo quando lo saprà. Dovrà trovarsi una nuova coinquilina».

Feci una smorfia. «Sinceramente non mi importa di come la prenderà».

Si sdraiò nuovamente sui cuscini, e mi accoccolai al suo fianco.

«Ti pregherà di aspettare e di non andartene. Sarà difficile per lei trovare qualcun altro disposto a pagare le bollette al suo posto ogni due mesi», mormorò, con una punta di disapprovazione tutta per me. Fortunatamente non sapeva che nell’ultimo anno quel fatto era successo quasi ogni mese, e visto il suo odio già piccato per Jessica non mi sembrava il caso di informarlo.

«Quindi lo facciamo sul serio», sussurrai senza fiato diversi minuti di silenzio dopo.

«Penso che l’abbiamo già fatto», ghignò Edward, divertito. «Cinque volte, credo. Forse di più, ho perso il conto».

Gli schiaffeggiai leggermente il petto, avvampando e ridendo con lui.

«Credo di sì», disse poi lui, quando le risate si spensero. «Se ne sei sicura».

«Lo sono», risposi immediatamente.

Lo vidi sorridere ancora. Era la scelta giusta. Non l’avevo mai visto così felice, e sapere che era tutto merito della mia decisione mi fece capire che non dovevo più avere paura.

 

Los Angeles fin dalle prime luci del mattino era affollatissima. La spiaggia prese vita molto presto, e dalla finestra vedevo l’oceano tempestato di surfisti e nuotatori mattinieri.

Io ed Edward uscimmo dall’albergo con le valigie, decisi a trovare un altro posto in cui passare la notte per allontanarci da Santa Monica. Potevamo trascorrere tutto il tempo che volevamo a Los Angeles, a girare per le spiagge e a visitare le diverse mete turistiche.

Per quel giorno avevamo in programma di visitare Beverly Hills e Hollywood, e in serata ritornare verso la costa.

Attraverso il finestrino osservai il paesaggio cambiare, e le abitazioni trasformarsi da condominii e prefabbricati a villette di svariate dimensioni, dalle più minuscole alle più grandi e spaziose, circondate da siepi e cancellate con telecamere di sicurezza e auto lussuosissime parcheggiate al loro interno. I vialetti erano ombreggiati da alberi alti, palme e decorati da aiuole verde smeraldo. Procedendo verso le colline le ville si facevano sempre più ricche e isolate, e le strade strette e rampanti. Oltre i tetti e le fronde degli alberi ogni tanto riuscivo a scorgere la scritta ‘Hollywood’ a lettere cubitali che spiccava sulla collina arida. Sapevo che non si poteva arrivare ai piedi dei cartelli, ma che da qualche parte su quelle stradine ripide c’era un punto di osservazione, che avremmo cercato nel pomeriggio.

Attraversammo Beverly Hills accontentandoci di osservare i negozi dall’auto, e proseguimmo fino a giungere ad uno dei tanti parcheggi coperti sulle strade laterali della Hollywood Boulevard. Non appena misi piede fuori dall’ambiente climatizzato del furgoncino annaspai. C’era un caldo torrido, e l’afa era la cosa peggiore in assoluto. Nemmeno una volta all’aperto, in mezzo alla strada principale di Hollywood, riuscii a trovare un po’ di sollievo.

La prima cosa che notai furono le stelle che tempestavano i marciapiedi della via, che riportavano nomi e piccoli stemmi in base al settore in cui suddette persone avevano brillato nel corso della loro carriera. La gente si ammassava intorno a quelle più famose, si inginocchiava a terra e sorrideva agli obiettivi delle macchine fotografiche, come in un museo di Madame Tussauds, con la posto delle statue di cera delle mattonelle. C’erano dipendenti del posto vestiti da protagonisti di film e cartoni animati che giravano per fare le foto con i turisti, e i negozi di souvenir erano presi d’assalto. Entrammo in uno di questi ultimi, per comprare una cartina che indicava in base ai nomi delle star i punti esatti in cui trovare le stelle lungo la strada, e rimanemmo lì dentro per almeno mezz’ora, incuriositi dall’enorme varietà di oggetti che si potevano trovare. Edward sparì con la cartina verso la cassa, lasciandomi a curiosare ancora in giro, e quando lo ritrovai aveva in mano un sacchetto che conteneva due cartine e un giornale patinato.

Aggrottai le sopracciglia, chiedendogli cosa fosse, e lui rispose che si trattava di una cartina delle ville delle star sulle colline hollywoodiane e un giornale che spiegava come raggiungere i punti di osservazione della scritta e le vie con le ville dei più famosi.

Quando arrivammo davanti al Kodak Theater rimasi per qualche secondo ad osservare la sua struttura, pensando a quanto fosse strano ritrovarsi di persona davanti a qualcosa che di solito si vedeva solo per televisione e dove passavano durante le cerimonie e le prime dei film delle star internazionali. Accanto a me una giornalista stava parlando davanti ad una telecamera di un film di cui si sarebbe tenuta a breve la première, e ciò mi ricordò del mio lavoro, e per poco non mi venne un colpo. Non avevo ancora telefonato alla redazione. Mi ero completamente dimenticata del fatto che quel pomeriggio avrei dovuto trovarmi a Chicago per fare un colloquio con il redattore del Chicago Tribune, e soprattutto avevo dimenticato di non averlo ancora avvisato che non ci sarei stata.

Non avrei voluto farlo. Detestavo fare quelle cose: telefonare per disdire un appuntamento. Ma non avevo altra scelta, avrei fatto una figuraccia a non telefonare al redattore per avvisarlo che non ci saremmo incontrati quel pomeriggio, e soprattutto sarebbe stato poco professionale. Avrei telefonato già la sera precedente, ma quando avevo preso la decisione di restare a Los Angeles a Chicago era già sera, quindi era possibile che non avrei trovato nessuno in redazione. E poi il pensiero mi aveva completamente abbandonato.

«Devo telefonare alla redazione», dissi ad Edward, prima che attraversasse la strada per arrivare ai piedi del teatro, dove il pavimento era costellato dalle impronte di mani e piedi di attori famosi.

Lui annuì. «Vieni, andiamo là dietro. Qui c’è troppo rumore».

Mi condusse in una via laterale, il più lontano possibile dalla bolgia di turisti rumorosi. Trovai il numero della redazione nella lista delle chiamate ricevute, e dopo un respiro profondo premetti il tasto verde. La telefonata partì all’istante, e una professionale voce femminile rispose al primo squillo.

«Ufficio del signor Nomadi, Chicago Tribune. Posso aiutarla?»

«Sono Isabella Swan, ho un appuntamento con il signor Nomadi fissato per questo pomeriggio-»

«Certo, signorina Swan. Le passo subito il redattore», tagliò corto la donna, senza nemmeno lasciarmi il tempo per terminare la mia frase.

Sgranai gli occhi. «Veramente-», iniziai, per interromperla, ma sentii un click, poi un altro tu-tu e qualcun altro rispose al telefono qualche secondo dopo, questa volta un uomo.

Edward mi osservava con un sopracciglio inarcato.

«Buongiorno signorina Swan, sono il signor Nomadi», rispose la voce all’altro capo. «C’è qualche problema?»

«Buongiorno», risposi subito, cercando di mantenere un tono professionale. «Sì, vorrei informarla che questo pomeriggio non potrò venire al colloquio. Mi trovo a Los Angeles e non posso tornare a Chicago in settimana».

L’uomo fece uno strano verso. Sembrava un mmm pensieroso. «Capisco», disse infine. «È comunque interessata al posto che le stiamo offrendo?»

«Sì. Sì, certo», dissi, confusa. Nessuna persona sana di mente non sarebbe interessata, possibile che non lo capissero? «È solo un problema di tempistica», aggiunsi. Non volevo che pensassero snobbassi la loro offerta; se fosse ricapitata un’occasione simile - poco probabile, ma sperare non faceva male - era meglio che sapessero che ero interessata. «Se fossi stata a Chicago sarei venuta sicuramente al colloquio».

«Mi fa piacere saperlo. Purtroppo non possiamo assumerla regolarmente senza un colloquio regolamentare», disse, ed io mi preparai mentalmente ad essere scartata definitivamente. «Ma possiamo offrirle un posto come freelance finché non sarà tornata a Chicago e potrà fare il colloquio».

Rimasi in silenzio alcuni secondi, gli occhi sgranati. Edward mi guardava preoccupato. Mi fece segno per chiedermi se era tutto a posto.

«Questo significa che dovrà lavorare ad un articolo questo weekend. Cosa ne pensa?», insistette la voce all’altro capo del telefono quando non risposi.

Mi schiarii la voce. «Sarebbe fantastico», risposi, e ringraziai il fatto che la mia voce era ferma e secca.

«Perfetto», disse il signor Nomadi. «Ha detto di essere a Los Angeles, è esatto?»

«Sì», risposi, e nella foga annuii pure con il capo. Edward era perplesso. Gli sorrisi per tranquillizzarlo e gli feci segno che era tutto okay.

«Ci sarà una conferenza domani mattina dei maggiori vertici degli Stati Uniti. Forse ne avrà sentito parlare al telegiornale o sui giornali».

Annuii, snocciolando qualche dettaglio che avevo letto e sentito alla CNN per fargli capire che ero ferrata sull’argomento e non fargli avere qualche ripensamento. Alla fine sembrò compiaciuto. Mi diede l’indirizzo del Convention Center e l’orario di ingresso. Avrei trovato il mio badge alla reception e le indicazioni sull’articolo - che doveva assolutamente essere terminato e spedito in serata - nella mia casella di posta elettronica. Ringraziai il signor Nomadi, facendogli capire quanto apprezzassi il suo gesto, e alla fine chiusi la chiamata.

Edward mi guardò. «Com’è andata?»

«Ho un lavoro», gli dissi, ancora incredula.

Lui sorrise. «Perfetto. Cosa devi fare? Se ho capito bene devi scrivere un articolo per domani».

Annuii. «Devo andare ad una conferenza. Ti dispiace?», gli chiesi poi, sperando che quella mia improvvisata non rovinasse la nostra vacanza. Avevo deciso di restare a Los Angeles per lui, e aver appena ricevuto un lavoro da finire durante il viaggio mi sembrava quasi un passo indietro.

Edward scosse il capo, sorridendo. «Non dire sciocchezze. Sono contento che ti abbiano dato questa possibilità».

Iniziammo a tornare verso il Kodak Theater. «Domani non avrò molto tempo per girare Los Angeles con te», lo avvisai, delusa.

«Rimanderemo i giri a domenica, allora. Io starò un po’ in spiaggia, e quando avrai finito l’articolo andremo a festeggiare il tuo primo giorno da giornalista del Chicago Tribune».

«Non sono ancora una vera giornalista. Sono una freelance», specificai. Non lo ero mai stata prima di allora. Mi dava sia una sensazione di piena libertà - non avrei dovuto stilare un articolo a giorno, quindi potevo dedicarmi anche ad altre faccende - che di instabilità - non avrei avuto uno stipendio fisso e articoli assicurati. Però era la soluzione migliore mentre ero lontana da casa. Finché ero a Los Angeles io guadagnavo il mio posto di freelance, e il giornale si risparmiava il costo dei voli per i propri giornalisti.

«Allora festeggeremo il tuo primo giorno da freelance», disse Edward, ridendo. Sembrava di buon umore. Era sinceramente felice che avessi ottenuto un lavoro. Del resto avrei dovuto aspettarmelo, dato che mi aveva quasi caricata di peso su un aereo per andare a quel colloquio a Chicago.

Ci facemmo largo fra la folla per raggiungere le lastre di pietra incisa, su cui spiccavano le impronte delle mani e dei piedi delle star del cinema. Scattai alcune foto a quelle più famose e recenti, poi ci allontanammo. Edward aprì la cartina della via per individuare alcune delle stelle che volevamo vedere, e mentre le guardavamo entravamo e uscivamo dai negozi di souvenir. Prima di andarcene entrò nuovamente in un negozio, chiedendomi di aspettarlo fuori, e quando ne uscì aveva un nuovo sacchetto in mano. Quando gli chiesi cosa avesse preso non rispose, e si limitò a raggiungere il furgoncino.

Mi passò la cartina delle ville, e ci avventurammo per le colline. Le strade erano strette e in alcuni punti occupate da auto lussuose parcheggiate attaccate ai muretti delle case, e più salivamo più il percorso si faceva contorto. Iniziai perfino a pensare che in qualche curva il furgoncino si sarebbe incastrato, ma per fortuna Edward riuscì a scortarlo fino al punto di osservazione più famoso senza fare danni.

Parcheggiammo l’auto in salita, accanto a diverse altre e vicino ad una villa. Un grosso cancello dalle sbarre nere e appuntite riportava un cartello con il nome del punto di osservazione, e vietava severamente l’accesso con qualsiasi tipo di veicolo. Un piccolo sentiero ciottolato risaliva la cima della collina su cui ci trovavamo, fino a portarci sulla punta piana, dove il terreno era sabbioso e secco. E la scritta di Hollywood apparve lì, così vicina che sembrava di poterla toccare solo allungando la mano o facendo un salto in avanti. Un’auto della polizia faceva avanti e indietro per la collina dai cancelli fino a lì, sollevando la polvere. Dopo aver scattato diverse foto Edward mi tese il sacchetto che aveva preso nell’ultimo negozio.

Lo aprii incuriosita, e sorrisi non appena chiusi la mano intorno a ciò che c’era dentro. Lo estrassi con una risata, facendolo risplendere alla luce del sole. Era un’imitazione di una statuetta degli Oscar, con la targhetta del piedistallo che riportava in caratteri dorati “Miglior Giornalista”.

«Avrei dovuto dartela domani sera, ma almeno possiamo iniziare a festeggiare», disse Edward, prendendomi la macchina fotografica. «Una foto per i giornali», rise.

Finsi una posa da star alla cerimonia degli Oscar, mentre continuavo a osservare quella statuetta. Quando mi ridiede la macchina lo abbracciai, ringraziandolo. Non solo per il regalo in sé, ma perché sapevo che lui era dalla mia parte, ed approvava che avessi scelto di accettare quel lavoro nonostante fossimo ancora in vacanza.

Quando tornammo in auto era quasi pomeriggio, e dovevamo ancora pranzare. Seguimmo le indicazioni stradali che ci condussero dritti all’ingresso degli Universal Studios, dove lasciammo l’auto e scendemmo a girare per la strada pedonale che circondava il parco divertimenti. C’erano diversi negozi e una zona era dedicata completamente alla ristorazione. Ci fermammo in un piccolo locale vicino ad una piazza disseminata di zampilli d’acqua, che a intervalli irregolari sorprendevano con i loro schizzi la gente che passava. Ovviamente con la mia fortuna ero finita per bagnarmi.

«Potremmo andare a Disneyland», propose Edward, mentre mangiavamo.

«Siamo agli Universal Studios e tu proponi di andare a Disneyland?», gli chiesi divertita.

Lui scrollò le spalle. «Secondo me è più divertente».

«Ma se non sei mai stato in nessuno dei due», risi ancora.

«Non è vero. Quando eravamo piccoli Esme e Carlisle avevano portato me ed Emmett a Disney World», mi rivelò.

«Disney World è dieci volte più grande di Disneyland, se non sbaglio».

«È pur sempre un parco della Disney», ribatté.

Inarcai un sopracciglio. «Non ti facevo il tipo da parco divertimenti».

Scrollò le spalle. «Perché da noi non ce ne sono di questo tipo».

Riflettei per un istante. «Non sarebbe una cattiva idea», dissi infine. «Anche se Disney World sarebbe più carino secondo me».

«Disney World è dall’altra parte degli States», disse lui, sorridendo soddisfatto.

Scrollai le spalle.

«Potremmo andarci domenica per un paio di giorni», propose. «A meno che ti chiedano qualche altro articolo».

Annuii. «Per ma va bene».

Dopo pranzo riprendemmo il furgoncino e tornammo in direzione della costa.

«Potremmo andare a dormire in campeggio stanotte», proposi di mia iniziativa quando iniziammo a parlare su dove dormire.

Edward mi guardò come se mi fosse spuntato un occhio sulla fronte. «Ma se quando l’ho proposto ieri hai subito bocciato l’idea».

«Ho cambiato idea», mi difesi. «Basta che mi assicuri che non corriamo rischi di allagamento o pinzate da granchi».

Alzò gli occhi al cielo, ma fortunatamente me lo assicurò. Ci fermammo in un supermercato a prendere qualcosa per la cena in campeggio, e alla fine trovammo un campeggio lontano dalle spiagge pubbliche, dove gli alberi spuntavano dalla sabbia e arrivavano fino all’oceano. Lasciammo il furgoncino nel parcheggio sterrato, lontano dalla strada, e ci inoltrammo nel bosco poco fitto per arrivare a pochi metri dall’acqua, dove montammo la tenda e stendemmo le coperte e i sacchi a pelo. Quel giorno soffiava un vento gelido che faceva accapponare la pelle, e se non fosse stato per gli alberi che almeno riparavano in parte la tenda probabilmente avrei cambiato idea sulla sistemazione di quella notte. Presi una giacca a vento di Emmett dal baule del furgoncino, e la indossai mentre finivamo di sistemare la tenda. Quando terminammo di sistemare era quasi ora del tramonto.

Edward stese un asciugamano sulla sabbia, a un metro dall’acqua, e ci sedemmo l’uno di fianco all’altra a guardare il sole tramontare, proprio come la sera precedente.

Dopo pochi minuti, però, lo vidi rabbrividire per il vento che continuava a soffiare impetuoso.

«Apri le gambe», gli ordinai, abbassando velocemente la zip della giacca che indossavo.

Lui inarcò un sopracciglio, con il suo sorriso sghembo stampato sulle labbra. «È una proposta indecente?», ghignò.

Alzai gli occhi al cielo, sentendo le guance diventare rosse comunque. «Edward», lo rimproverai, sorridendo.

Rise, ma obbedì immediatamente, divaricando le gambe per permettermi di avvicinarmi di più a lui in ginocchio. Poi sfilai la giacca e gliela porsi.

Scosse il capo, serio. «Non serve, tienila tu».

Alzai ancora gli occhi al cielo. «Edward, mettiti questa cavolo di giacca, poi ti faccio vedere come fare».

Con un cipiglio contrariato mi obbedì. Non appena la indossò mi accoccolai con la schiena contro il suo petto, prendendo entrambi i lembi aperti della giacca e tirandoli davanti a me per coprirmi. Come avevo immaginato era talmente grande da contenere perfettamente sia me che Edward.

«Aspetta», sussurrò al mio orecchio Edward, sfilandomi i lembi dalle mani per chiudere la zip, racchiudendo entrambi dentro.

Così il freddo era solo un lontano ricordo. Il fiato caldo di Edward soffiava dolcemente sul mio collo, procurandomi alcuni brividi e riscaldandomi più di quanto facesse la giacca stessa.

«Va meglio?», sussurrai piano.

Lo sentii muoversi piano alle mie spalle, e vidi le sue mani sparire nella felpa. Le sentii poco dopo infilarsi vicino al mio corpo, e poi stringermi la vita dolcemente.

«Adesso sì», rispose, carezzevole. «Molto meglio».

Arrossii, ma non dissi niente. Mi appoggiai meglio contro di lui, rilassando il capo contro la sua spalla.

«Credo che dopo Disneyland dovremmo tornare a casa», disse Edward ad un certo punto. 

Non mi aspettavo che dicesse una cosa simile, ma questa volta non mi colse il panico che mi aspettavo. Era normale che dovessimo rientrare. E adesso sapevo che sarebbe andato tutto bene.

Annuii. «Anche perché abbiamo ancora tutto il viaggio di ritorno da fare», mormorai.

«Già. E dobbiamo restituire l’auto a Jacob o inizierà a pensare che gliel’abbiamo rubata o distrutta».

«Tornerai in ospedale quando saremo a casa?», gli chiesi.

«Penso di sì. Non posso continuare a non fare niente e piangermi addosso», disse lentamente.

Gli strinsi il braccio sotto la giacca. «Andrà tutto bene».

Scosse il capo in segno affermativo, sfregando le labbra sulla mia tempia.

In quel momento ero sicura che tutto sarebbe andato bene, e mai come allora l’orizzonte lontano mi sembrò roseo.

 

Il mattino seguente mi risvegliai a causa della sveglia del mio cellulare. Ciò mi ricordò subito i miei giorni lavorativi - che mi sembravano ormai così lontani - e soprattutto mi fece presente che quella mattina avrei dovuto raggiungere il Convention Center a nome del Chicago Tribune.

Avevo un braccio di Edward stretto sullo stomaco, e non sembrava essersi svegliato, dato che non si muoveva di un centimetro. Aprii gli occhi e mi guardai attorno, rendendomi conto di trovarmi sdraiata nel retro del furgoncino. Ricordai confusamente che verso mezzanotte avevamo raccattato qualche coperta e cuscino e ci eravamo chiusi in macchina a dormire, dato che il vento che continuava a soffiare impetuoso scuoteva la tenda e produceva dei sibili troppo fastidiosi per riuscire a chiudere occhio.

Mi girai nell’abbraccio di Edward, e cercai di svegliarlo il più delicatamente possibile. Aprì gli occhi solo dopo diversi tentativi.

Dopo esserci rinfrescati nei bagni pubblici del parcheggio smontammo la tenda in fretta e furia, gettando tutto alla rinfusa nel baule e preparandoci a tornare verso il centro di Los Angeles, dove si trovava il centro di conferenze.

Edward mi lasciò davanti all’ingresso principale, dicendomi che fra quattro ore sarebbe tornato a prendermi. Nel frattempo lui sarebbe andato in spiaggia.

Entrai nel Convention Center e ritirai il mio badge, appuntandomelo sulla camicetta. Il nome Chicago Tribune spiccava sulla plastica bianca della targhetta, ed entrai a testa alta nel salone delle conferenze, di nuovo in mezzo ai miei colleghi.

 

“Arrivo fra cinque minuti. Scusa.”

Guardai ancora una volta l’orario in cui mi era arrivato il messaggio. Erano passati già dieci minuti. Va bene, mi dissi, non fa niente. Può capitare che sia in ritardo, visto il traffico di Los Angeles.

Ne avevo approfittato per iniziare a stilare il mio articolo, e anche se non potevo dire di essere a buon punto per lo meno non ero nemmeno all’inizio. In un paio d’ore avrei dovuto finire.

Il centro si era velocemente svuotato non appena la conferenza era terminata, e le persone erano sparite a bordo di taxi o auto private. Pochi giornalisti erano rimasti a girare per le sale e l’esterno.

«Ti dispiace se mi siedo?», mi chiese a un certo punto una voce maschile gentile, che mi fece distogliere l’attenzione dai miei appunti.

Alzai il capo e incontrai due occhi scuri e un viso giovane, incorniciato da folti capelli neri. Attaccato al taschino della camicia aveva la targhetta con il suo nome - Eric Yorkie - e l’intestazione di un’importante testata giornalistica di New York.

«Prego», gli dissi, accennando al resto della panchina su cui mi trovavo.

Lui sorrise e si accomodò. Lanciò un’occhiata al mio badge. «Chicago Tribune, eh? Niente male, complimenti».

Sorrisi e lo ringraziai, ricambiando il complimento.

Pensai che la nostra conversazione sarebbe finita lì, ma al contrario riprese a parlare. «Stai aspettando l’autista?», mi chiese.

Scossi il capo. «No. Il mio ragazzo», ammisi, arrossendo. Era la prima volta che lo dicevo ad alta voce da quando ci eravamo rimessi assieme e farlo mi faceva sentire come se migliaia di farfalle stessero svolazzando allegramente nel mio stomaco. «Tu sei qui con un autista?»

Annuì. «Purtroppo mi sono ricordato di inviargli un messaggio per farmi venire a prendere solo quando è finita la conferenza. Spero non sia andato troppo lontano».

Non sapevo cosa dirgli.

«Viaggi spesso con il tuo ragazzo quando devi muoverti per lavoro?», continuò lui, deciso a fare conversazione.

Scossi il capo. «Di solito non viaggio per il giornale. Sono qui in vacanza, ma il redattore mi ha chiesto di fare un articolo, dato che sono ancora una freelance».

«Ah, capisco», disse.

Prima che dicesse altro - perché ero sicura che avrebbe detto qualcos’altro - il furgoncino blu della Volkswagen inchiodò davanti all’ingresso del centro conferenze, ormai quasi deserto.

Edward scese dal posto di guida e mi corse incontro, un’espressione colpevole in viso. «Scusami, c’era un traffico infernale in autostrada», disse senza fiato.

Mi alzai dalla panchina, avvicinandomi a lui. «Non fa niente», lo rassicurai, sorridendo.

Guardai alle mie spalle, dove Eric era ancora seduto sulla panchina. «Grazie per la compagnia. Spero che il tuo autista arrivi presto», gli dissi, per gentilezza.

Lui sorrise, rimanendo dov’era. «Grazie. Allora buona continuazione per la vostra vacanza».

Gli feci un cenno di saluto con la mano, mentre Edward lanciava occhiate perplesse fra me e l’altro giornalista. Lo trascinai di nuovo verso il furgoncino.

«Chi è?», mi chiese, non appena chiudemmo le portiere.

«Un giornalista di New York», risposi. «Continuava a cercare di fare conversazione».

Si accigliò, mettendo in moto. «Appena ti lascio provano subito a saltarti addosso».

Alzai gli occhi al cielo. «Esagerato. Gli ho detto subito che avevo il ragazzo ma ha continuato lo stesso, quindi voleva solo fare conversazione. Si annoiava probabilmente».

Tirai fuori il mio blocco di appunti, sperando di riuscire a concentrarmi durante il viaggio per non sprecare le ore del pomeriggio sulla spiaggia.

«Non hanno un minimo di dignità certi tizi. Ci provano pure con le donne impegnate», borbottò, ignorando completamente le mie parole.

Scossi il capo, divertita. Edward era sempre stato geloso e possessivo, ma non mi aveva mai dato fastidio questo suo atteggiamento, tranne quando esagerava e diventava intrattabile, ovviamente.

Mentre ci dirigevamo verso la costa mi dedicai al mio articolo, approfittando soprattutto della lunga coda che c’era sulla superstrada. Quando finalmente giungemmo sulla costa avevo già trascritto l’articolo sul portatile, e aspettavo solo di trovare una rete wifi non protetta per collegarmi alla rete e inviare il tutto al redattore. Ci fermammo davanti ad un hotel che aveva la linea e inviai l’e-mail.

Andammo verso sud, in direzione di Disneyland, costeggiando l’oceano. Il mio cellulare prese a squillare dopo appena un’ora che avevo mandato il messaggio di posta elettronica, e capii subito dal numero sconosciuto che doveva essere il signor Nomadi, il redattore del Chicago Tribune.

Edward accostò il furgoncino ed io risposi.

«Signorina Swan? Sono il signor Nomadi», disse. «Volevo dirle che ho ricevuto il suo articolo, e sono decisamente soddisfatto».

Sorrisi. «La ringrazio».

Mi trattenne ancora qualche minuto per chiarire la faccenda del pagamento, che sarebbe stato versato sul mio conto bancario. Alla fine mi chiese se volevo un altro articolo, riguardo un’altra conferenza che si sarebbe tenuta lunedì mattina. Gli chiesi di richiamarmi nel giro di qualche minuto, così avrei potuto pensarci.

Edward mi guardò perplesso. «Che succede?»

«Mi ha offerto un altro articolo», gli dissi, delusa. «Ma è su una conferenza che si terrà lunedì mattina».

Rimase in silenzio alcuni secondi. «Va bene».

«No, non va bene», borbottai. «Lunedì dovremmo essere a Disneyland».

«Ci andremo un’altra volta», mi assicurò.

«Ma-»

«No, niente ma», mi interruppe Edward, sorridendo rassicurante. «Lunedì andrai a quella conferenza, e nel pomeriggio inizieremo il viaggio di ritorno. Che ne dici?»

«Sei sicuro? Avremo solo più domani da passare a Los Angeles», gli ricordai, preoccupata.

Lui annuì. «Lo sapevamo che c’era la possibilità che ti chiedessero un altro articolo. Quella di Disneyland era una solo proposta per passare dell’altro tempo nei dintorni».

Quell’ultima affermazione non ero certa fosse vera, perché guardò fuori dal finestrino e contrasse la mascella. Non dissi nulla.

«D’accordo», sussurrai alla fine, affondando la schiena contro il sedile. Nomadi richiamò esattamente cinque minuti dopo, e accettai l’incarico.

Arrivammo a Long Beach in pieno pomeriggio. I lunghi moli si estendevano verso l’oceano, tempestati di pescatori e turisti. Edward ed io ne imboccammo uno, passeggiando lentamente.

Ci fermammo quasi alla fine, dove un uomo sulla quarantina stava urlando ad altri pescatori di aiutarlo a sollevare una canna da pesca che aveva probabilmente colto all’amo un pesce molto pesante o molto combattivo. Tre altri uomini lo aiutarono, mentre una donna li osservava incitandoli alle loro spalle. Un capannello di persone si era radunato insieme a noi ad osservare la scena.

Un minuto dopo riuscirono a sollevare il pesce. Era enorme. Non ne avevo mai visto uno così grosso se non al supermercato già morto stecchito; questo invece continuava a dibattersi anche quando lo lasciarono cadere in una bacinella.

Uno dei pescatori esultò e urlò a un altro di portare lì la bilancia. Pesarono il pesce, e sentii un’esclamazione da parte di tutti i pescatori che si erano radunati. Era uno dei più grandi che avessero pescato da settimane, da quanto avevo capito. La donna gettò le braccia al collo dell’uomo, congratulandosi. Poi lui si staccò, e si inginocchiò davanti a lei. Si pulì le mani sui pantaloni ed estrasse una scatoletta dalla tasca della giacca, e tutto intorno si fece silenzio.

«Come ti avevo promesso», disse, e non capivo a cosa si riferisse, se alla proposta che stava per farle o a qualcos’altro. «Vuoi sposarmi?»

Lei sorrise e annuì vigorosamente, lasciando che le infilasse l’anello al dito. Applaudii insieme al resto del pubblico, e sentii i pescatori lì vicini dire che quell’uomo aveva promesso alla donna di sposarla solo quando avrebbe pescato con la sua canna da pesca un pesce che pesasse più di venti chilogrammi.

Edward fissava la coppia con le sopracciglia inarcate, perplesso. «E io che volevo chiederti la mano davanti al castello di Disneyland», commentò semplicemente, quasi soprappensiero. «Devo trovare qualcosa di più originale».

Mi irrigidii, e sentii l’aria mancarmi dai polmoni. Lo guardai con gli occhi sgranati, ma lui aveva già ripreso a camminare lungo il molo, lasciando alle sue spalle il capannello di persone.

Gli corsi dietro, sentendo la testa girare. Stava scherzando? O no?

Gli strinsi la mano, camminando al suo fianco.

«Secondo me è un’idea originale», dissi qualche minuto dopo, con il cuore ancora in gola.

Sapevo che aveva capito quello che volevo dire, perché lo vidi sorridere in maniera particolare. E in quel momento seppi che la sua non era stata una semplice battuta, ma la verità.

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Il Diario di Bella - blog dove potete vedere immagini dei luoghi visitati nel corso della storia.

Salveee! :D

Credo di aver finalmente capito quanto manchi alla fine. Se tutto va come ho in mente il prossimo sarà l'ultimo capitolo, e poi ci sarà l'epilogo. Il viaggio ormai è finito, ed Edward e Bella hanno risolto quasi tutti i loro problemi.

So che è un preavviso molto limitato, ma davvero prima di finire questo capitolo non sapevo ancora quanto mancasse alla fine :/

La scena della proposta di matrimonio dopo aver pescato un pesce enorme è vera! :)

Grazie infinite a chi continua a recensire e anche ai lettori silenziosi!

A presto! :***

   
 
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