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Autore: Lue    17/07/2012    3 recensioni
E sapevo benissimo di sembrare un idiota, con gli occhi spalancati, e le lacrime che scendevano e avrei voluto darmi un contegno perché ero un soldato, ma rimasi a bocca aperta, spaccato a metà tra la voglia di prenderlo a calci in culo fino ad ammazzarlo, e quella di sfiorargli gli zigomi e il collo e chiedergli dove sei stato e stringerlo a me per sempre.
Mi asciugai goffamente gli occhi con il dorso della mano, e ad un tratto mi sentii terribilmente piccolo e goffo nella mia vestaglia di lana.
Gli feci cenno di entrare e la porta si chiuse alle nostre spalle con un colpo secco.
Fuori aveva smesso di grandinare. Ma il bambino aveva iniziato a piangere.
“Shh, Hamish, stai buono”.
[Johnlock]
Genere: Introspettivo, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altro personaggio, John Watson , Nuovo personaggio, Sherlock Holmes , Sig.ra Hudson
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Quello che non ti ho detto mai
 

"How can you say that your truth is better than ours?"
[I gave you all - Mumford and Sons]



Hamish.
 “Stai scherzando?”, sussurrai allibito fissando Sherlock, “Sei morto tre anni fa, sei seduto nel mio salotto, tieni tra le braccia un bambino che si chiama come me. E sei morto. Io ti ho visto”.
“John”, l’ombra di un sorrisino gli apparve sul viso, “Come sempre tu guardi ma non…”.
“Non lo dire”, la mia voce era bassa e fremeva d’ira, “Non ti permettere. Nemmeno la puoi pensare quella frase. Non in casa mia, Sherlock”.
Era la prima volta che lo vedevo abbassare la testa e accettare un rimprovero. Ma dopotutto era anche la prima volta che vedevo tornare in vita qualcuno.
“Ti posso spiegare, ci sono tante cose, John…”.
“Non ora”, lo interruppi di nuovo, e mi sorpresi delle mie stesse parole, “Non posso ascoltarti stasera. Puoi stare qui, sistemati sul divano insieme al… bambino. In fondo a destra c’è il bagno”.
Mi diressi verso la mia stanza, e la mia testa era completamente vuota. Mi addormentai subito, per qualche strano motivo, e il mio ultimo pensiero fu che dovevo ricominciare con le sedute, perché per sognarmi uno Sherlock padre in casa mia, con tanto di prole annessa, stavo proprio uscendo di testa.
 
Ma la mattina dopo fui svegliato da uno strillo acuto, che non apparteneva certo a un adulto.
Lui era in piedi e cercava di tenere fermo il bambino, che scalciava in direzione della mensola della mia libreria. C’era il vecchio teschio lì, l’unico oggetto di Sherlock che avevo tenuto.
“Mio!”, strillò il bambino. Solo allora mi accorsi che era più grande di quanto pensassi, sembrava di circa due anni.
“Ne fa due tra quattro mesi”, decretò Sherlock, serrando le braccia intorno alle gambette scalcianti del bambino.
Non avevo niente da dire. Era come se avessi messo da parte ogni emozione e pensiero e non mi fossi ancora reso conto di quello che era successo.
“Hamish”, sussurrò Sherlock al bambino, picchiettandogli piano sulla gamba, “Lui è John”.
Lui alzò lo sguardo su di me, mi fissò per qualche istante, come mi se stesse analizzando, e poi scoppiò in una risata sdentata e a singhiozzo.
Poi sbadigliò.
“Non ha dormito molto stanotte”, mi spiegò Sherlock indicandolo con un cenno.
Così lo accompagnai in camera mia e lasciai che lo adagiasse su letto, tra le lenzuola. Rimanemmo a guardarlo qualche minuto, mentre lui già dormiva placidamente, ma poi Sherlock mi fece cenno di seguirlo in salotto.
Sospirò.
“Ci sono molte cose che devo spiegarti”.
“Prego”, lo invitai.
“Non… devi andare al lavoro?”.
Io scrollai le spalle.
“Non ci vado”.
Lui mi fissò negli occhi, e poi distolse lo sguardo annuendo.
“Bene, allora… da dove cominciare…”.
Cominciò dal tetto. E io dovetti fare uno sforzo immane per rimanere serio e attento e concentrato, perché tutto quello che mi ero portato addosso per tre anni mi stava esplodendo nel petto. Ma dovevo tenerlo dentro, almeno finché lui non avesse finito di raccontare.
E lui raccontò, mi parlò del piano per inscenare la sua morte, di come fosse l’unico modo per salvarci tutti – e una lacrima solitaria mi solcò la guancia, ero proprio invecchiato, ma apprezzai il fatto che lui fingesse di non averlo notato – di come poi lui fosse fuggito in Russia e fosse stato contattato da lei, dalla Donna.
“…Aspetta”, lo interruppi con un groppo alla gola, “Anche lei… è morta”.
Lui storse la bocca in una smorfia colpevole.
“Abbiamo vissuto insieme per qualche mese e…”.
“Come… è successo?”, era una domanda idiota e al solo pensiero rabbrividii, ma la curiosità era troppo grande, quasi febbrile. Volevo sapere come lui aveva amato quella donna mentre io piangevo la sua morte.
“John”, il mio nome suonava come un rimprovero tra le sue labbra.
Mi sentii incredibilmente stupido. Avevo passato anni a pensare a lui, a rimpiangere tutto quello che mi ero lasciato scivolare tra le dita, e intanto lui giocava alle spie con quella donna. Mi ero immaginato tutto. Non c’era mai stato niente tra di noi, niente più di un’amicizia tra colleghi, tra coinquilini.
“Hai fatto il test?”, accantonai quello che mi passava per la testa.
“Certo che no. Ma sono certo di essere il padre”.
“E da cosa l’hai capito? Dal risvolto dei pantaloni?”, ridacchiai, e l’ombra di un sorriso apparve anche sul suo volto mentre ricordava come me un passato che sembrava appartenere a un’altra vita.
“È sparita due giorni dopo il parto, naturalmente, e io mi sono preso cura di lui. È mio figlio, John”, affermò sicuro.
E guardando i suoi occhi, la sua espressione così salda, le vene azzurrine sul suo collo, i suoi zigomi, mi spezzai. Mi spezzai tutto. E mi spezzai in silenzio, con le crepe che si allargavano dentro al mio petto, e l’unica cosa che potevo fare era aggrapparmi alla poltrona su cui ero seduto, e conficcare le unghie a fondo nel tessuto, come quando mi svegliavo la notte invocando il suo nome.
“John…”, si avvicinò.
“Sei tornato”, sussurrai, “Sei qui davanti a me. Ma questo non cancella il dolore che ho provato. E tu ti divertivi con quella donna, mentre io… annaspavo da solo in questa cazzo di casa vuota, e non mi dire che l’hai fatto per me, Sherlock! Un segno, un messaggio, non chiedevo altro, in tre anni…”, abbassai la voce perché a un tratto mi ricordai del bambino addormentato nell’altra stanza, “E torni con un bambino?! Che si chiama come me. Stai… stai cercando di prendermi in giro, Sherlock?”.
Lui mi fissò a bocca aperta.
“No… Io non… Non potevo rischiare, John”, mi guardò come se fosse tutto ovvio, “Mi sono messo in contatto con Mycroft, e abbiamo eliminato ogni fonte di pericolo prima che io potessi tornare! E ora sono tornato”.
Io rimasi in silenzio.
“John”, continuò allora lui agitato, “Lo so che hai sofferto, e mi dispiace. Ma sei vivo. E questo era il mio obiettivo”.
“Avresti dovuto dirmelo! Metterti in contatto con me in qualche modo!”.
Perché? Avrei dovuto comunque fingere di essere morto agli occhi di tutti”.
“Non è la stessa cosa!”, sbraitai, “È stato doloroso! E ora so che avresti potuto evitare…”.
Pa’!”, strillò Hamish dalla camera da letto, “Pipì!”.
“Continuiamo questo discorso dopo”, si alzò continuando a guardarmi, e si diresse con passo fermo verso la camera. Poi portò Hamish in bagno. Da lì mi raggiunse la sua voce.
“John! Puoi portarmi il vasino di Hamish? È nella borsa nera, non ci riesce a farla nel water!”.
Sospirai e feci come mi diceva, ma un suo verso schifato mi raggiunse dal bagno. Immaginai che Hamish non fosse riuscito a trattenersi.
Non sapevo se sospirare, mettermi a piangere e urlare, o scappare di casa.
Nel dubbio, li raggiunsi in bagno.







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Aggiorno ora perchè purtroppo poi non avrò il computer per due settimane D: spero che mi aspetterete :)
Grazie per le recensioni! Un bacio,
Lu

   
 
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