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Autore: ConsultingFangirls    17/07/2012    5 recensioni
Era iniziato in un nebbioso mattino di febbraio quando, marciando per l'appartamento di Baker Street con le mani nei capelli e gli occhi da folle, Sherlock Holmes si era imbattuto in qualcosa che non sarebbe dovuto esistere.
L'uomo seduto nella poltrona dei clienti, un tizio magro, alto, con un completo a righe blu e marroni, Converse rosse e capelli spettinati, stava imperturbabile e con le gambe accavallate, seguendo con gli occhi il famoso detective uscire di testa. John non ci avrebbe scommesso, ma sembrava si stesse divertendo.

/ «Rose? È finito il latte»
«E perché non vai a prenderlo?»
«Perché ci vai tu» Layne le tese il cappotto con un sorriso e svuotò la pipa sul divano «E prendi anche del tè, che è quasi finito»
Genere: Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash, Slash | Personaggi: Companion - Altro, Doctor - 10, Rose Tyler, TARDIS
Note: Cross-over | Avvertimenti: Contenuti forti, Gender Bender
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Layne lo capì quando sentì la prima scossa. Seppe già in quel preciso momento. Vide la caduta, vide l'essere precipitare avvinghiato a John Watson. In quell'esatto istante, voltò le spalle a Rose e al Dottore e iniziò a correre. Giù di volata per tutti i gradini che aveva faticato a salire. Giù, giù e giù. Lo seppe perché nella sua mente c'erano idee e statistiche precise, ma lo seppe soprattutto perché, a suo modo, aveva capito ciò che c'era nella mente dell'essere. Perché, se l'aveva richiamato lei, un po' era lei.
Corse e corse e arrivò in strada con il fiato intrappolato nei polmoni. Per terra c'erano persone e sangue. Ne sentì l'odore, gli occhi presero a lacrimarle più per riflesso che per sentimento. Non erano lacrime vere. S'inginocchiò accanto al corpo di John e guardò un attimo in su e vide Sherlock. Sentì il suo dolore per un istante e fu un po' come quella volta in cui le avevano piantato uno stiletto nel petto ma poi si chinò su quel sangue e quella carne e tutto il resto sparì. Era Layne Holmes. I sentimenti erano cose che aveva relegato a Rose.
Lo vide. L'essere era lì accanto al dottor Watson, ma nessuno sembrava vederlo. Era un mucchietto patetico di carne e stracci e non c'era neanche sangue, era tutto di John, perché ciò che usciva dall'essere era luce. Sembrava che qualcuno avesse catturato un fulmine e l'avesse reso liquido. Scintillava e turbinava e usciva dalle ferite dell'uomo-che-non-era-un-uomo, dalle narici, anche, e dagli occhi, come lacrime che non erano lacrime, come le sue. Quegli occhi verdi adesso non sembravano più dipinti, perché quella luce li illuminava dall'interno, ed erano ancora fatti di buio e dolore, questo sì, ma erano vivi. Vivi mentre morivano.
In quel momento, Layne non pensò al fatto che avrebbe potuto morire. Aveva cancellato dalla propria consapevolezza Rose ed il Dottore e Sherlock e il cadavere di John ed Elizabeth e Londra e la faglia di Cardiff; c'erano solo lei e quell'essere che un tempo era stato un uomo, un problema da risolvere, come due elementi che combinati insieme ne devono formare un terzo.
E come aveva saputo, per idee e statistiche precise, che John e l'essere sarebbero precipitati, come dicevano avessero fatto gli angeli, come metaforicamente facevano le comete, allora sapeva anche, senza dubbio, cosa doveva fare. Gliel'aveva sussurrato, in sogno, la voce di una donna dagli occhi chiari ed i ricci biondi che aveva vissuto tre vite e si era innamorata dell'uomo dello spazio. Allungò una mano, e toccò quella dell'essere che stava tornando ad essere un uomo, lì di fronte a lei.

Sento di star diventando leggero e di star scivolando via da Sherlock. Non voglio. Voglio aggrapparmi a lui e fargli sapere che ci sono. Voglio raccogliere le sue lacrime. Ed è come se la mia preghiera fosse udita, perché tutto si blocca. Come uno strappo, come un pugno battuto sul tavolo. Tutti i mondi e gli universi che ho nella testa si fermano. Le lacrime di Sherlock si fermano. Una è ancora in bilico fra le sue ciglia. Se soffiassi, cadrebbe.
Poi sento un rumore. Il più delicato, come una foglia che si raggrinzisce e diventa rossa e poi cade dal ramo e volteggia e arriva per terra con il fruscio più lieve. Che d'improvviso, diventa un boato. Guardo in basso e c'è una crepa che squarcia il mondo, piena di luce, d'oro e d'argento e fulmini, e c'è una mente lì in mezzo che ancora si muove, è d'arcobaleno come quella di Sherlock ma diversa, e accanto a lei c'è quello che mi ha ammazzato e la sua mente è ancora lì pure lei, ed è ingiusto perché dovrebbe essere morto, ma vedo che si sta spegnendo, non è altro che un buco nero che ancora si sforza d'inghiottire tutto quello che gli sta attorno, soprattuto lei, soprattuto quella luce.
La mente simile a quella di Sherlock si muove appena, come le ali di un uccellino appena nato. È lei che controlla la crepa, il flusso di luce. Si muove verso di me. Sento che ritorno pesante. Sento che ripiombo nel mio corpo.

Cadeva. Aveva sempre saputo che sarebbe successo, ma non pensava così in fretta, e non aveva mai pensato che il vento facesse così tanto rumore nelle orecchie e che gli occhi potessero vedere così tante cose tutte insieme, colori, espressioni, voci che urlavano direttamente nella sua testa ma nessuno c'era a parlare, nessuno era lì, vedeva tutti ma nessuna figura, solo quell'uomo strano, alto e scuro, che gli chiedeva cose e lui rispondeva, rispondeva perché ricordava appena come si facesse a parlare, perché nella Prigione non ti facevano parlare, e se urlavi era ancora più dolore, dolore, dolore che si diramava in tutto il corpo come un albero rosso di sangue e oro di puntura ed era come quello adesso, e lo colpiva il vento freddo, ma lui stava già saltando quando l'uomo alto continuava a parlare, e chiedeva, chiedeva, e la sua mente era nebula e tempesta, e grigio colorato di ogni possibile sfumatura e non vedeva i colori nelle loro menti, nelle loro menti c'erano stati colori e lui li strappava, lentamente ma in fretta, insieme alle loro parole, e le parole di quello dorato erano più pesanti, avevano visto tempi di buio e tempi di luce, e una scia speciale di lucciole argentate entrava nelle sue ultime parole, ed erano parole dolci, dolci, dolci come quello zucchero di cui gli raccontavano un tempo, e non le capiva davvero, non nella profondità di cui era sicuro fossero vestite perché non le aveva mai sentite pronunciare, ma solo nella sua mente o sulla carta, su quella carta bianca che divorava e che era stata divorata da altri in altri tempi, e aveva scritto quelle parole, ma era come quando si scriveva di emozioni contrastanti in nuvole di gas tossici, e si scriveva perché piaceva, ma non perché fosse capito, e invece l'uomo d'oro le capiva, e le aveva come sue, e lui le voleva, le voleva, voleva quelle parole e voleva capirle come le capiva l'uomo d'oro e gli mancava quello spessore, quella pozzanghera infinita di mercurio liquido e emozioni, emozioni, emozioni che voleva provare ma non aveva mai provato e lacrime che voleva versare ma non aveva mai versato perché di lacrime ne aveva dovute piangere troppe alla Prigione, ma non erano mai quelle lacrime di cui vedeva scritto nella mente dell'uomo d'oro, lacrime di parole che non conosceva come felicità e amore, ma le sue erano lacrime di parole che gli erano troppo chiare come dolore, tristezza, perdita, perdita, perdita era la parola che vedeva nella mente di cristallo dell'uomo nero, alto, mentre saltava con l'uomo dorato e lo mordeva e lo rompeva per prendere le sue parole perché l'altro all'improvviso non era più importante, lui voleva sapere, voleva poter scrivere, ancora, ancora, ancora, ancora con il flusso compulsivo con cui scrivevano i suoi pensieri su tavole di carta non ancora inventate che ticchettavano nella notte, una notte fredda, fredda, fredda come gli occhi di quell'uomo che li guardava, e vedeva ora, vedeva, vedeva, vedeva la terra su cui stava per scontrarsi, e faceva male, la pietra sotto la schiena, nelle ferite già aperte dalla frusta, e voleva sentire il sangue uscire, uscire come usciva quello dell'uomo d'oro, e il suo era liquido e caldo come il mercurio che cercava nelle sue emozioni, ed era dolce e salato e amaro e miele, e gli mancava il sapore del suo sangue anche se l'aveva sentito abbastanza, abbastanza nella sua mente e nella sua bocca, abbastanza ovunque in tutto quello che era stato il suo mondo, ma non poteva non uscire dai tagli profondi che aveva su tutto il corpo e nell'anima, quelle cicatrici sull'anima facevano ancora più male perché non poteva uscire sangue ma sentimenti, sentimenti che non credeva possibile provare e lì, steso su quell'acciottolato li provava ed erano orrendi ed era tempesta ed era la calma che veniva appena prima, in quell'attimo di silenzio, silenzio, silenzio come quello che usciva dalle labbra dell'uomo dorato, sapeva di essersi aggrappato a lui per cadere, ed erano caduti insieme, ma adesso l'uomo dorato non brillava più, le sue parole di pietre preziose sembravano essersi rotte per terra, perse in mille schegge rosse e verdi, e adesso stavano volando insieme e adesso erano caduti ma ancora cadevano e da per terra vedeva ogni attimo insieme, tutto correva, tutto era fermo, tutto era niente e niente era tutto nei suoi occhi che ormai dovevano essere vuoti ma ancora vedeva e sentiva il vento e voleva chiuderli perché il vento bruciava, ma le palpebre erano pesanti, troppo pesanti per essere chiuse, e non voleva e sì che lo voleva, certo, perché il vento gli stava seccando gli occhi, e lui voleva continuare a vedere, perché non vedere era come tornare alla Prigione, dove tutto era buio, buio, buio così denso che faceva male, feriva la pelle e tagliava ferite già aperte con lame bollenti, perché la febbre era dolce alla Prigione, la febbre era bella e ti portava via nel sonno e tu non vedevi più nulla e non sentivi più nulla e nessuno ti faceva più male, come male stavano facendo a lui ora, che tutto era dolore perché era caduto dall'alto, troppo in alto, era caduto direttamente dal cielo, e mentre prima non era stato adesso era, era decisamente, e essere era doloroso, adesso ancora più di prima, perché nulla si stava più formando, tutto era già fatto, pronto ad essere rotto, spezzato, tagliato, mutilato, e non solo con i salti nel nulla, dall'alto verso il niente, da tutto verso il buio, ma solo guardare era male, perché male era la situazione normale, dolore era quello che c'era ed era una parola che conosceva anche troppo bene, ogni singola lettera era un ricordo, un colore sferzante nei suoi occhi ormai secchi che avevano contenuto tutto l'universo, e vedeva quello stesso universo nelle parole che stavano scivolando via dal corpo dell'uomo d'oro, mentre l'altro si affacciava da lassù, ed erano rubini quelli che cadevano dai suoi occhi, e lo vedeva come se fosse stato lì, lì, lì vicino a soffiare sul collo di quell'uomo che aveva ancora le parole, anche se stavano sbiadendo, sembravano storie importanti sciolte nel latte acido, acido, acido che bruciava come quello che stavano buttando sulle sue ferite e lui era scappato, scappato, scappato via, il più lontano possibile perché non voleva mai più vedere quel buio perché era un buio che gli faceva male, e lui aveva sofferto già abbastanza, abbastanza per quanto la sua mente ricordasse, ed era così male che anche i suoi ricordi erano stati spazzati via, alcuni erano solo nuvole grigiastre di indifferenza e di espressioni vuote che fissavano il vuoto e i suoi carcerieri che lo vedevano ma lui non vedeva loro, e ricordava solo i loro occhi rossi in un mare di niente, e adesso era di nuovo così, e sentiva tutto che pizzicava, ogni parte del suo corpo era pizzicore come una scossa elettrica che passasse dalla sua testa e arrivasse fino ai piedi, e lo riempiva di paura perché sentiva lentamente il suo corpo scomparire verso qualcosa che non sapeva cosa fosse e aveva già viaggiato abbastanza e basta, basta, basta, basta, non ne poteva più di quel pizzicorio che lo trasportava via, lontano da dov'era, e lo faceva scivolare verso altri universi bianchi e gialli e verdi e azzurri che sapevano di tutti i sapori dell'arcobaleno come quello che scivolava via dagli occhi dell'uomo nero e alto che lo aspettava la sopra, e guardava verso il basso mentre le sue parole volavano via nelle lacrime, immagini di vita che racchiudevano perle di storie che non sarebbero state usate mai più in quell'universo, e lui ora comprendeva tutti gli universi, e li vedeva, tutti insieme, sovrapposti in catene dorate come l'uomo con cui era caduto, e i raggi scrivevano in lingue che non sapeva ma che adesso conosceva perfettamente, e questo non faceva male, era una carezza di seta sulla sua mente mentre i suoi occhi tornavano umidi, e tutto quello che vedeva intorno virava al grigio, ad un grigio che non aveva mai visto perché erano mille sfumature di perle perse ed era da solo ma c'era qualcun altro, lo sentiva, la sentiva, vicina, vicina, vicina, e tutto nella sua testa tornava a posto, ogni nodo tornava a legarsi, ogni filamento tornava a tessere quella ragnatela che aveva avuto un ordine primordiale, all'inizio, quando l'aveva provata ed era solo un bambino e nella sua testa adesso tutto aveva senso e le frasi tornavano ad essere linee lunghe e dritte senza curve né nodi, perché adesso il suo pensiero era dritto, dritto, dritto come era stato nelle notti d'estate passate sulla spiaggia, quando sentiva ancora il sapore del mare, e guardava la figura negli occhi e lei guardava lui e sapeva cosa stava per fare e lui sapeva di essere pronto.
Quando la ragazza gli parlò, sapeva esattamente come rispondere.

È tutto grigio di nebbia e gas di scarico. Le carrozze si muovono attorno a loro con le urla secche dei cocchieri e il chiacchiericcio degli uomini che passano in gruppetti sui marciapiedi. È come il loro mondo, ma diverso. Layne sa che il rivelatore sonico di carica statica retroattiva - o cacciavite sonico, come lo chiama quell'uomo strambo che è il Dottore - non funziona, qui. Sa, anzi, che non esiste niente di simile. Sa che non esiste neanche il Dottore, non esiste nemmeno lei, non esiste Sherlock - e non esiste neanche quest'uomo che è accanto a lei. Che è tornato un uomo. Che è vivo e vegeto, adesso.
È accanto a lei e la guarda con gli occhi ancora vivi anche se non sta più morendo. «Milady» dice, con una voce soffice, calma. «Credo di doverla ringraziare.»
Lei si mette le mani nelle tasche del cappotto. «Non so quanto abbia senso ringraziarmi ora, e dovrei ucciderla perché lei ha ucciso il fidanzato del nipote che avrò fra un paio di secoli, secondo il principio del codice di Ammurabi, ma… ormai lei è in un altro tempo.»
«Come farà a tornare indietro?»
«Da quello che ho imparato stando col Dottore, siamo ancora in uno spazio di confine. Dovrei riuscirci. Lei, piuttosto, rimarrà qui. Non è una scelta.» Si guarda attorno. «Questo mondo è privo di parole. Almeno, non le parole che conosciamo noi.»
Gli occhi dell'uomo diventano lontani e tristi e poi si stringe nelle spalle e annuisce. «Lo so, lo sento. Forse è meglio così, però, sa? Una nuova scelta, una nuova vita… Mi dispiace per John Watson, cercherò di rendergli onore come posso.»
Layne scrolla le spalle. «Avrà bisogno di un nome, qui, di una vita. Ha già pensato a qualcosa?»
Lui sorride. «Come ho detto al suo futuro nipote, lassù sul tetto, ce l'ho un nome. L'avevo dimenticato, o perso, ma questo posto me l'ha fatto ricordare. Mi chiamo Arthur Conan Doyle. E credo che il suo tempo qui stia scadendo, Milady. Mille grazie.»
Layne sente le punta delle dita iniziare a formicolare, come quando le mette accanto al fuoco dopo essere stata a lungo fuori al freddo. Guarda quell'assassino pazzo che adesso ha gli occhi da bambino, solleva una mano e fa un cenno minuscolo che non è neanche un vero saluto, e sente di star iniziando a scomparire

  
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