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Autore: Opalix    02/02/2007    12 recensioni
“Prendimi con te, se tu non puoi tornare!” le disse, e sentì risuonare dentro di sé quelle parole come se le avesse pensate, non pronunciate, come se le avesse dette l’uomo che avrebbe voluto essere e che non era più. Poi il volto e il corpo di lei si dileguarono nell’ombra. – V.M.Manfredi “Il Tiranno”
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Draco Malfoy, Ginny Weasley, Harry Potter
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Da VI libro alternativo
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CAPITOLO 2: HELL’S BELLS

Harry si appoggiò allo stipite della porta; Rachel non si era nemmeno girata per guardarlo.
“Scusa. Sono andato a fare un giro.”
Come sempre, Rachel non insisteva.
A volte Harry la trovava quasi snervante, con quel suo accettarlo senza remore, quel non insistere se lui non voleva dirle qualcosa. Quasi. Scrollò le spalle: in ogni caso non avrebbe potuto risponderle. E se anche rabbia, delusione, amarezza, passavano negli occhi della ragazza alle sue risposte evasive, Harry era quasi sempre troppo lontano, troppo ubriaco o troppo preso da se stesso per accorgersene.
Rachel si alzò dalla sedia e gli andò incontro, abbracciandolo.
“Dai, vieni un po’ di là… è solo l’alba…” mormorò contro la pelle calda del collo di lui, appoggiata al suo petto.
Harry strofinò la guancia contro i riccioli morbidi, e abbracciò quel corpo che si appoggiava a lui con una fiducia mai meritata. Si allontanò dal sostegno sicuro dello stipite, barcollando per la stanchezza, e la seguì in camera da letto, lasciandosi accarezzare le spalle, baciare il collo, il viso, la bocca… chiuse gli occhi, e si lasciò cullare, arrendevole ed egoista.
Mentre cadevano sul letto, riusciva quasi a sorriderle, mettendo nei baci tutta la dolcezza che provava per lei e la passione che lei riusciva a risvegliare. Quella pelle morbida, bianca come una droga in polvere fine, dolce da baciare come il bordo caldo di un bicchiere pieno di liquore… quella pelle dalla quale avrebbe voluto staccarsi, ma a cui non riusciva, non poteva rinunciare. Era troppa quella dipendenza, era troppo pensare di allontanarsi dall’unica cosa che lo faceva ritornare umano, sentire vivo, non un pallido fantasma perso nei ricordi di una vita che gli era sfuggita, sciogliendoglisi tra le mani come neve impotente al calore del suo corpo.
Era Rachel che lo aspettava, Rachel che lo accudiva, Rachel che fingeva di non sentire quel puzzo asfissiante di alcol, Rachel che rispondeva al telefono dicendo che si, il signor Evans stava ancora male, no, non se la sentiva proprio di venire al telefono, e si, vendete, comprate, restaurate, affittate, fate esattamente quel cazzo che vi pare con i miei soldi, tanto non me ne potrebbe fregare di meno, grazie. Era Rachel.
E allo stesso tempo, mentre l’aveva tra le braccia, non era lei. Così come non lo era nessuna delle donne che aveva conosciuto prima di incontrarla. Nella sua mente malata, per alcuni istanti intermittenti, erano qualcun altro, la loro faccia, la loro voce, il loro corpo svaniva, sfumava nella penombra per diventare quel corpo che invece non aveva mai conosciuto davvero, se non nei sogni tormentati di ragazzo. In tutte vedeva lei… per qualche istante, nella frazione di secondo necessaria per capire che era vivo, sveglio e non stava sognando tra i fumi dell’ultimo litro di scotch che aveva bevuto, tutte le donne diventavano lei.
Mentre slacciava i bottoni della vestaglia, sapeva che gli sarebbe bastato alzare lo sguardo per vedere un viso riflettersi nell’ombra, nei raggi di luce rosata. Un viso dagli occhi splendenti, che lo guardava accettare da altri corpi, da altre bocche, quello che non aveva voluto da lei. Per questo teneva gli occhi chiusi: per non vederla, per non avere la conferma che c’era, per non sentire quello sguardo su di lui, per… perché non era giusto, per Rachel, per lui, non era giusto per nessuno fare l’amore con una donna e avere davanti agli occhi il viso di un’altra, sulle labbra il nome di un’altra. Non era giusto.
Non parlava mai mentre facevano l’amore. Non la chiamava per nome, non le diceva di amarla: la amava e basta… come poteva, nel modo i cui era in grado di farlo, nell’unico modo che conosceva di amare: donarle la parte di se stesso che non le avrebbe fatto del male, Henry. E nascondere nelle profondità del suo essere la parte di se stesso che l’avrebbe picchiata, insultata, che le avrebbe fatto del male perché - perché non era lei, ecco perché! Perché darle tutto se stesso, anche quella parte, Harry Potter, avrebbe significato farla scappare, restare da solo, vederla inorridire davanti a ciò che era, ciò che lei non credeva nemmeno possibile. Henry amava Rachel, la amava, davvero… e questo era tutto ciò che Rachel avrebbe avuto, che avrebbe dovuto farsi bastare.

“…a lei che spazza via la tua malinconia per me
facendoti l'amore, togliendoti il bicchiere, lo so. […]
A lei che a luci spente confondi nella mente con me.
Dietro lei cammini tu, senza lei non vivi più
dillo a lei, lei che non sa com'eri prima di incontrare lei.
Lei che sogna, lei che dà, lei che viene, lei che non va
lei che vive, lei che c'è tutte le volte che cercavi me.”
Anna Oxa
“A lei”

La luce del tramonto lo metteva sempre di cattivo umore. Una giornata era scivolata via, languida come le acque melmose di un fiume, senza lettere da nascondere prima che Rachel le notasse, senza gufi sospetti appollaiati troppo vicino per essere considerati figli degeneri di una coincidenza, senza volti sgraditi, individuati tra la folla come se rilucessero di luce propria… volti da cui scappare, volti da ignorare, perché lui di quel dannato mondo che aveva salvato non ne voleva più sapere.
Volti piacevolmente sconosciuti e indifferenti gli passavano accanto, sui sentieri che si snodavano tra i tronchi scheletriti dall’inverno degli alberi del parco. Bambini che non volavano su scope, ma calciavano palloni, sembravano fare di tutto per farlo inciampare, strappandogli un sorriso di rassicurazione rivolto alle madri preoccupate, forse per la maleducazione dei figli, forse per la sua aria pallida e smunta. Una bambina accennava una sciocca cantilena, spingendosi sull’altalena al ritmo della filastrocca… la nebbia biancastra che iniziava a scendere sulla città sembrava smorzare quella vocina stonata. O forse era l’allegria della canzone in sé a sembrargli stonata in una giornata come quella, in cui tutto sembra fatto di fumo armonioso.
Passi sicuri alle proprie spalle, identici ad altri mille passi cadenzati che gli erano scivolati accanto invisibili, lo indussero a voltarsi.
“Henry.”
“Dorian.”
Il riflesso opaco della cravatta di seta aveva lo stesso colore della nebbia, lo stesso dei suoi occhi, nascosti da un paio di occhiali quadrati, alla moda, da intellettuale. Finti. Draco ci vedeva benissimo. A ciascuno il proprio veleno, rammentò Harry a se stesso. A ciascuno il modo che preferisce di nascondere le cicatrici di troppe notti passate a ricordare.
Harry si riavviò lungo la strada, Dorian al suo fianco, troppo stanchi e troppo persi nei fantasmi dei propri sogni spezzati per spiccicare anche una singola parola.
Una palla infangata finì tra i piedi di Draco, che sogghignò in direzione del bambino che se l’era venuto a riprendere; palleggiò per un paio di secondi prima di calciare il pallone al marmocchio, che ora lo guardava ammirato e gli sorrideva.
Anche Harry sorrise, affogando il mento nel colletto del cappotto.
Anche il viso incorniciato dai capelli rossi, là a sinistra, proprio dove l’occhio non riusciva più a mettere a fuoco, sogghignò divertito, con dolcezza.
Draco si chinò a spazzolare via il fango dall’orlo dei pantaloni con una manata distratta, poi si guardò la mano bianca e curata… Dorian gli avrebbe comprato altri pantaloni, altre scarpe firmate, un altro fazzoletto di seta con cui pulire via la terra dalle mani. Ma c’era stato un tempo in cui quelle mani si erano sporcate di fango e sangue, sporcate delle vite che avevano rubato, troppo giovani per rendersi conto che una giusta causa non fa di un assassinio una medaglia al valore da portare sul petto. C’era stato un tempo in cui quelle mani avevano asciugato lacrime sul viso di un antico nemico, sporcando quelle guance del sangue stesso che le aveva provocate.
Gli occhi dei due ragazzi si incontrarono per un istante, attraverso due paia di lenti appannate dall’umidità, ma fu solo un istante, e poi la nebbia continuò a scorrere accanto a loro, lasciandoli a vagare di nuovo in quel limbo di nulla tra un incubo e l’altro che erano le loro giornate.

Rumore di passi sicuri nel freddo corridoio di Grimmauld Place numero 12.
Harry alzò il volume dello stereo, la voce di Alice Cooper gracchiò ancora più forte che la scuola era finita per l’estate (*). L’eco di uno strillo deliziato riuscì a superare quel frastuono e Harry alzò ancora, portando al limite di resistenza l’apparecchio già duramente provato dall’interferenza della magia. Non ci teneva proprio a sentire gli acuti sdilinquimenti con i quali la vecchia mammina di Sirius elogiava il passaggio dell’unico, biondo, essere vivente che secondo lei era degno di calcare quelle vecchie assi.
Nonostante il baccano, lo schianto della porta aperta da una mano nervosa fece voltare Harry… la chioma nera spettinata emerse dallo schienale del divano, seguita dal viso assonnato, imbronciato, pronto a mandare l’intruso molesto esattamente dove meritava. L’espressione cambiò immediatamente, raffreddandosi.
“Oh, sei tu…” borbottò.
Draco si appoggiò alla porta chiusa, ignorandolo, i capelli biondi altrettanto spettinati e l’aria di chi avrebbe preferito ascoltare le campane dell’inferno piuttosto che quegli strilli di compiacimento.
Nel corridoio qualcuno lanciò incantesimi rabbiosi contro il ritratto urlante e, quando gli strilli si placarono, la voce della signora Weasley strillò a sua volta attraverso la porta, ordinando ad Harry di abbassare quella dannata musica.
Draco scivolò giù lungo la porta con un sospiro esasperato, trovandosi seduto, e battè la testa contro il legno. I suoi occhi grigi si scoprirono, stanchi, cerchiati, e incontrarono quelli verdi di Harry, stanchi e cerchiati.
Harry sospirò a sua volta e alzò una mano stretta attorno al collo di una bottiglia di firewhisky. Draco annuì, si alzò in piedi e aggirò il divano per buttarcisi sopra, accanto al vecchio nemico… agguantò la bottiglia e ingoiò rumorosamente una lunga sorsata…

La macchia rossastra al limite del campo visivo sospirò tristemente – un alito di vento profumato sulla nuca – quasi fosse partecipe dei suoi ricordi. Harry volse lo sguardo quel tanto che bastava per vederla allontanarsi, come portata via da un soffio di brezza.
“Devi lasciarla andare.”
Draco lo stava guardando di sottecchi, con un’espressione di triste rassegnazione che faceva diventare i suoi occhi del colore delle nubi durante un temporale.
“Sei ubriaco, Dorian” gli rispose, calcando su quel nome – reale, nella vita fasulla che stavano vivendo – per troncare ogni discussione.
Dorian sorrise, celando la tristezza di Draco dietro la sua maschera di beato disincanto.
“Stranamente no. Non ancora, per lo meno. Ma pensa quello che credi…” mormorò, per poi tramutare il proprio accento in quello strascicato e musicale del proprio alter ego, “Hai bisogno di bere e mangiare, amico mio, hai bisogno di vivere! Ma guardati… sei praticamente un cadavere!” declamò, enfatizzando ogni affermazione con ampi movimenti delle mani.
Il fazzoletto di seta cadde nel fango in uno di quei gesti teatrali, e Dorian lo lasciò dov’era.

“Tell me now, you sinner, you run for a better world
Tell me why you'd leave her despite all the hurt.
Don't deny that you once tried to mend the circumstances now out of hand
And don't deny your life's a living hell, you're a shadow of your own self.”
Sirenia
“A shadow of your own self”

“Queste ultime settimane con te sono state come… come la vita di un altro. Ma io non posso, noi non possiamo… Devo fare delle cose da solo, ora.”
“E se a me non importasse?”
(**)
Ginny… intrepida, testarda, Ginny. Non le era mai importato di nulla e di nessuno, di chi o cosa fosse Harry. Lui era soltanto Harry, e lei non aveva mai rinunciato, non avrebbe mai rinunciato a lui. Lo avrebbe seguito fino alle porte dell’inferno, aspettato fino alla fine del mondo… ma la fine del mondo aveva colpito proprio chi stava aspettando.
Harry scese dal letto in silenzio, come faceva sempre, come se avesse paura che la malattia incurabile del ricordo del proprio passato contaminasse anche Rachel.

Sbattè forte un pugno chiuso contro le piastrelle della cucina.
Era al sicuro, ora, poteva farlo, lontano da Rachel e dal suo sonno leggero.
Era un modo come un altro per svegliarsi, per far svanire gli incubi, quel genere di incubi che si attaccano alla gola e non se ne vogliono andare nemmeno quando non stai più dormendo. Farsi del male fisico, sbattere quelle nocche sul muro fino a farle sanguinare, per sentire un dolore che col tempo sarebbe guarito, a differenza del senso di colpa che non se e sarebbe mai andato.
“Sapevo che sarebbe successo, alla fine. Sapevo che non saresti stato contento se non fossi andato a caccia di Voldemort.” (**)
Il suono di quella voce gli pulsava sulle tempie, come se ogni battito del cuore pompasse nuovamente quel retaggio di passato in avanti, verso il presente. Non aveva pensato a lei. Con quel nobile e stupido intento di proteggerla non aveva fatto altro che abbandonarla, lasciarla a se stessa, lasciare che lo amasse in silenzio, che restasse nell’ombra a preoccuparsi quando lui se ne andava, a piangere se ritardava, a sorridere tra sé, nascosta dietro qualche angolo, quando lui tornava sano e salvo. E lui… lui era rimasto ad amarla in silenzio, a spiare la sua figura nell’ombra, a dirle addio in silenzio tutte le volte che se ne andava a salvare il mondo, a pensare a lei, mormorare il suo nome ogni volta che stava rischiando la vita e ad essere felice perché avrebbe potuto guardarla in silenzio per un altro giorno ancora ogni volta che riusciva a tornare indietro intero.
Un amore vissuto a metà, solo perché lui aveva voluto dare ascolto a… a cosa, dannazione, a cosa! Cos’era che gli aveva fatto credere di proteggerla, cos’era che gli aveva fatto pensare che quella sofferenza lancinante nel non poterla avere, avesse uno scopo. Salvarla… da cosa?!? Da cosa, quando Voldemort gli aveva letto negli occhi quell’amore infelice senza faticare un istante? Da cosa credeva di potersi nascondere, quando lei lo seguiva a distanza come un angelo custode porta fortuna, aspettando solo di sacrificarsi per il suo amore?!?
…Ron, con le lacrime che gli colavano dalla punta del naso, stringere a sé Hermione e accarezzarle i capelli mentre lei gli singhiozzava contro la spalla. (**)
Loro almeno avevano avuto quello, ognuno di loro aveva l’altro da proteggere, aveva qualcuno da abbracciare per dire a se stessi e all’altro “è finita, anche stavolta è finita, siamo salvi, per oggi”. Lui si era negato perfino quello.
Cosa gli aveva messo in bocca quelle parole – devo fare delle cose da solo, ora (**) – quando avrebbe solo voluto dirle che, per quel poco che valeva la sua vita… beh, era sua, che ne facesse quello che voleva, perché comunque lui l’avrebbe amata, per sempre, fino alla fine del mondo, con un amore che andava oltre ogni altra cosa che sarebbe successa… sempre. Perché aveva creduto che gli sarebbe bastato amarla in silenzio per sempre?
Longer than always is a long long time… (***)
Già… “per sempre” può diventare un periodo incredibilmente lungo quando sei costretto a viverlo da solo… quando ti sei costretto, senza nemmeno ricordarne più il motivo. Prima era stata la paura, il desiderio di proteggerla, poi era stata la testardaggine su quella decisione già presa, e infine quella notizia che un po’ di Voldemort viveva e sarebbe sempre vissuto dentro di lui… cosa gli aveva fatto credere che quel frammento di passato malvagio che si portava appresso avrebbe finito per farle del male? Tutti questi motivi insieme erano valsi la rinuncia a quel poco di tempo che avrebbero potuto passare insieme, a quel conforto che avrebbe potuto ricavare dall’averla accanto?

Harry sbattè la fronte contro le piastrelle, questa volta, gli occhi chiusi impastati di lacrime salate che non voleva far scendere…
“Più forte”, mormorò una voce dietro di lui, celando una risata amara nella pausa tra le due parole.
Harry si voltò e si trovò davanti il sorriso disincantato di Dorian, appoggiato accanto alla finestra, le caviglie incrociate e le braccia conserte, l’immagine stessa della bella vita, scarmigliata dagli amori di infinite donne di cui non ricordava mai nemmeno il viso, rovinata dalla consapevolezza che niente è reale, tutto è una recita, una commedia in cui l’attore principale lascia la scena prima dell’ultimo atto.
“Non ti ho sentito materializzarti.”
Draco scrollò le spalle e iniziò a rovistare nel frigo e negli sportelli della cucina, alla ricerca di qualcosa. Harry lo seguì con lo sguardo; mentre voltava la testa la vide, come sempre, là dietro alla sua sinistra, i capelli rossi mossi da un vento che non esisteva.
“è lei che non se ne vuole andare” sussurrò, quasi senza accorgersene, lo sguardo fisso sulla collezione di CD di Rachel. La copertina di un disco degli AC/DC giaceva aperta sullo stereo ed Harry ricordò che Rachel lo stava ascoltando proprio quel pomeriggio, quando era rientrato, mentre preparava la cena. Le note iniziali e lugubri di “Hell’s Bells” gli risuonarono nella testa, attutite dalla nodo di ricordi che sembrava legargli stretto il cervello.
“Lei non voleva lasciarmi. È rimasta a guardarmi combattere la mia battaglia finchè non le è costato la vita. Si sta vendicando. È lei che non vuole lasciarmi in pace. Mi sta aspettando all’inferno…”
La testa di Draco uscì dal frigorifero e lo osservò attentamente. Non disse nulla, anche perché in fondo non c’era niente da dire… lui c’era, osservatore silenzioso delle magagne di persone che non gli erano mai state amiche ma nelle quali si era trovato, suo malgrado, invischiato. Mentre Weasley e Miss Granger dispensavano consigli, occhiate di ammirata compassione per quel sacrificio idiota e amichevoli pacche sulle spalle, Draco Malfoy si limitava ad osservare, fregarsene, stravaccarsi sul divano accanto a Potter, e combattere i fantasmi di un’altra vita passata con le labbra attaccate al collo della stessa bottiglia.
“Dove cazzo hai infilato lo scotch, si può sapere?!”

“In qualità di tuo avvocato ti consiglio di dirmi dove hai messo quella cazzo di mescalina.”
Hunter S. Thompson
“Fear and Loathing in Las Vegas”

********

NdA
(*) Alice Cooper, “School’s out for summer”
(**) J.K.Rowling, estratti da “Harry Potter e il Principe Mezzosangue”, cap. 30
(***) Frank sinatra, “More (Theme from Mondo Cane)”

Grazie per le recensioni incoraggianti!
Le mie tre “brede” in primis: quella che ama Ron e non se ne vergogna (l’importante è credere nei propri ideali, tesoro, non preoccuparti non te ne faremo una colpa. Sei una beta stratosferica!), quella che esulta perché una volta tanto Ron non è cadavere già dal prologo (è bello veder apprezzati gli sforzi per guarire da una turba psicologica come la mia… grazie per aver appoggiato la Dichiarazione di Indipendenza) e ovviamente Savannah, che è un mito anche quando recensisce: grazie, darling!
Grazie anche a Ramona55 e Saty, che mi seguivano già in Trapped (oddio, Saty in realtà mi sopporta ormai già da tempo immemore), immuni al mio pericolosissimo effetto-gastrite. Spero davvero che questa storia vi coinvolga un po’ come l’altra, anche se, come vedrete è molto diversa.
In ultimo, ma non per importanza, grazie a WithoutEstel, che non conoscevo da prima ma è sempre bello vedere nuovi nomi: spero di non deluderti. Tralasciando il fatto che Risalita dall’Inferno, in mia opinione, è scritta coi piedi, comunque si, hai ragione, il clima è più simile a quello, piuttosto che a quel delirio dark di Trapped. Ciao e grazie!
Alla prossima settimana!!!

   
 
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