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Autore: giulina    19/07/2012    4 recensioni
Leo tirò in aria l'ennesimo biscotto e lo fece finire direttamente nella bocca aperta, sorridendo alla ragazza che continuava a girare lo zucchero nel suo tè ormai freddo. Non resistette più e gli sorrise apertamente. Con quel ragazzo era tutto un mostrare sorrisi storti e denti bianchi, un ridere fino a sentire male allo stomaco.
- Mi piace. -
- Il mio riuscire a centrare la bocca con il biscotto? Lo sai che riesco a mangiarmi anche l'unghia del pollice mentre sono al telefono? -
Agata rise di nuovo e Leo le si avvicinò, toccandole delicatamente con l'indice la fossetta appena accennata sulla guancia sinistra.
- Mi sono innamorato. -
- Di me? -
- Macchè, parlavo di quella fossetta lì. Sì, proprio quella lì. Non è che la puoi regalare? -
Agata continuò a sorridere mentre Leo le percorreva con il dito la pelle del viso e la guardava con quegli occhi dalle ciglia lunghissime, che le facevano sentire la necessità di abbassare lo sguardo. Non meritava che qualcuno la guardasse con quegli occhi.
Genere: Commedia, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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"Io dedico questa canzone 
ad ogni donna pensata come amore 
in un attimo di libertà 
a quella conosciuta appena 
non c'era tempo e valeva la pena 
di perderci un secolo in più..."

-Le passanti, Fabrizio De Andre'-






La seconda volta che Leo vide Agata era ottobre, precisamente il 31 –la sera di Halloween- e lui aveva da qualche ora perso il lavoro alla ferramenta Cristiani per aver quasi tentato di strozzare il proprietario con un pezzo di fil di ferro. Per la seconda volta.
Al ragazzo era preso un improvviso attacco di fame –come gli capitava spesso, d’altronde- intorno alle dieci di sera, mentre era per strada con le mani nelle tasche dei jeans bucati e un fastidioso prurito vicino al polso a cui teneva legato un elastico nero che gli fermava la circolazione del sangue.
Bambini di tutte le età, di tutte le nazionalità, con decine di costumi diversi, correvano per la via urlando a gran voce : “Dolcetto o scherzetto?”

A Leo non piaceva molto Halloween, gli faceva salire una strana malinconia addosso; gli ricordava come sua nonna Paola, quel giorno di tanti anni prima, si fosse rotta due dita della mano e la gamba sinistra travolta sotto casa da un’orda di bambini travestiti da mummie, che necessitavano di zucchero nelle vene e di cioccolato con cui sporcare i loro denti ancora da latte.
(Da quel momento, nonna Paola divenne necrofobica, non riuscendo più a guardare un rotolo di carta igienica senza provare un moto di disgusto e terrore.)
Nonostante non amasse quella festa, quella sera il ragazzo aveva deciso di fare una pazzia, e indossava soddisfatto la maschera rappresentante il volto sorridente di Barack Obama, mentre camminava per le strade affollate e qualche ragazzino gli passava affianco piagnucolando fastidiosamente con il suo cestino vuoto tra le mani.
La crisi, si ripeteva mentalmente Leo.
Fu passando davanti alla pasticceria del pluricornuto Signor Montanelli che Leo vide Agata.
Lei aveva i capelli leggermente più scuri dell’ultima volta che l’aveva vista –ovvero morente vicino ad una saracinesca chiusa- e stava raschiando con una palettina verde fosforescente il fondo di una coppetta di plastica.
La vide sorridere per la prima volta e si innamorò della fossetta che le si era formata sulla guancia sinistra.
Se ne stava sul marciapiede con le gambe incrociate, un paio di calzettoni grigi tirati su fino alle ginocchia e una giacchetta verde militare senza cerniera. Accanto a lei c’era un bambino dai capelli biondi, biondissimi con il moccio al naso e un cappello da strega in testa; aveva la bocca sporca di gelato al cioccolato.
-Toh chi si rivede!- Disse a voce alta quando le si avvicinò. Agata lo guardò con indifferenza, non riuscendo a capire perché quell’idiota con la faccia di Obama le stesse rivolgendo la parola.
Agata non gli rispose e Leo si tolse la maschera. Il ragazzo sorrise.
- Mi riconosci? -
- No. -
- Io penso di sì. Se ti nomino riso alla cantonese? -
- Ti vomito sulle infradito. -
- Giusto! La parola ‘vomito’ è la parola chiave del nostro primo incontro! -
- Avrei detto ‘involtini primavera’ visto che quella sera mi hai parlato per mezz’ora del tuo desiderio di mangiartene una vagonata. -
Leo continuò a sorriderle mentre si passava una mano sulla testa riccioluta. Il bambino accanto alla ragazza era scomparso e lui non se ne era minimamente accorto.
- Li amo, non ci posso fare niente. Che ne dici di fare un salto al ristorante cinese del Corso? -
- Odio il cinese. -
- Allora andiamo al giapponese, così te ti ubriachi con il saké e io posso provare il sushi! -
Agata lo mandò a quel paese –lei non diceva le parolacce, assolutamente no- e poi gli sorrise mostrandogli quella fossetta sulla guancia sinistra.
Alla fine gli rispose un ‘Yes, we can’ –come avrebbe detto Obama- e si incamminarono per il Corso.
Leo avrebbe voluto chiederle chi era quel bambino che era seduto vicino a lei quella sera, ma non riuscì mai a domandarglielo.




Aldo aveva cantato parte della discografia di Mina per esattamente due ore e dodici minuti, dopodichè, minacciato dal Signor Paoletti del civico 30, era tornato a casa con poca voce e gli occhi leggermente lucidi.
Le urla di sua moglie erano risuonate per tutto il palazzo signorile, rimbombando sulle pareti giallo canarino e infiltrandosi tra crepe piuttosto evidenti che un terremoto, qualche anno prima, aveva provocato.
Lui aveva proposto di cantarle ‘Questione di feeling’ per farsi perdonare e lei lo aveva chiuso fuori di casa, lanciandogli sul pianerottolo dalle mattonelle di cotto, un pigiama a righe e lo spazzolino.
Aldo aveva chiesto asilo a Manik, un ragazzo indiano che viveva al civico 34 insieme a Davide, il suo nuovo compagno, e che studiava ingegneria all’università. Gli avevano preparato un pollo al curry che era stata una gioia per il palato dell’uomo.

Leo quella sera era andato a letto con una tazza di latte caldo e miele, per curare il mal di gola in procinto di nascere, e il dvd della quinta stagione di Friends da inserire nel lettore davanti al letto da una piazza e mezzo e dal materasso troppo morbido.
Aveva ricevuto una chiamata proprio mentre Ross era sull’altare insieme a Emily e stava per pronunciare il famoso sì. Odiava quella scena.
Al telefono era Agata che gli annunciava di avergli appena trovato un lavoro.
- Dovresti farle compagnia dalle 7 alle 12.30. È una vecchietta simpatica e pare ci sia tutta con la testa, mi ha detto Luigi. Basta che le fai vincere due o tre partite a briscola e le prepari qualcosa per pranzo. Mi sono inventata che hai lavorato per tre anni nella cucina di Alessandro Borghese. -
- Alessandro Borghese fa schifo come cuoco, potevi sceglierne uno che sa fare delle semplici lasagne come si deve! Comunque, chi è questo Luigi? Ci vai a letto insieme? -
- Sì, certi orgasmi che non ti puoi nemmeno immaginare. -
- Sadomaso? -
- Lavora con me alla Conad, al banco frutta e verdura... -
- Immagino dove te lo ficchi l’ananas. -
- ...e l’altro giorno sentivo che parlava con Gianni del reparto Macelleria di sua madre, che da quando ha avuto un mezzo ictus ha paura a rimanere a casa da sola la mattina quando lui è a lavoro. A quel punto mi sei venuto in mente te. -
- Amore, lo sai quante rumene, ucraine, polacche, russe, hawaiane stiano cercando lavoro come badanti di questi tempi? Se lo vengono a sapere mi fanno fuori in un attimo! -
- Gli ho detto che puoi iniziare domani mattina. Alle sette in Via Paoli 130. Per favore, non mi far fare brutte figure. -
- Io non bisogno di un lavoro! -
- Tua nonna non ti passerà mezza pensione per tutta la vita. -
- Infatti! Quando schiatterà me la passerà tutta! -
Leo aprì il frigorifero e prese il barattolo di maionese scaduto due giorni prima insieme a due fette di pane integrale. Ci aggiunse qualche pezzo di pecorino tagliato male e si sedette sulla sdraio posizionata sul terrazzo, ancora contrariato per quello che gli aveva detto Agata.
- Per favore, domani alle sette. Non mi far sfigurare con Luigi, voglio continuare a fare sesso con lui. -
- Spero ti metta incinta! Ciao carotina, ci sentiamo domani. -




Luciana Grazioli aveva settantadue anni e dei capelli bianchi lunghi fino a metà schiena così lisci e lucenti che Leo li avrebbe voluti accarezzare per tutta la vita.
Si era innamorato, perdutamente innamorato appena l’aveva vista sull’uscio di casa, così simile a lui che si era detto di aver finalmente trovato la sua anima gemella. Un po’ stagionata, certo, ma a lui andava bene lo stesso.
La donna indossava una camicia da notte di lana rosa, con sopra una vestaglia blu notte che doveva essere stata del suo defunto marito visto che, mentre si lavava le mani ossute nel lavandino della minuscola cucina dalle pareti ingiallite, doveva arrotolarsi le maniche fino al gomito, per non bagnarla.
- Come ti chiami? -
- Leo, signora. -
- Leonardo.. -
- No, signora, soltanto Leo. -
- Senti, Nardo, io non ne voglio di ficcanaso in casa mia. Sto benissimo da sola, non ho bisogno di balie, badanti e vari rompimenti di palle. So ancora camminare, ci vedo benissimo, so pulire un cazzo di piatto e sono ancora in grado di capire quando me la sto facendo sotto. Ci siamo intesi? -
La donna lo fissava severa dal suo misero metro e cinquatratre, con la mano destra tremolante e quelle caviglie sottili coperte da un paio di consunti calzini grigi. In quella stanza vissuta, sembrava minuscola.
- So fare un pesce spada con le verdure cotte che è la fine del mondo. -
Luciana l’aveva guardato negli occhi per cinque secondi buoni –tanto per dare un po’ di pathos alla scena- e poi gli aveva voltato le spalle e a brevi passi aveva raggiunto il corridoio buio.
- Le pentole sono nello scomparto a destra vicino al frigorifero. Le carote lesse mi fanno cagare. -

Forse avrebbe dovuto avvertire Agata che adesso aveva una rivale in amore.





   
 
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