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Autore: elenacarax    19/07/2012    0 recensioni
Non era un liceo americano di una commedia da quattro soldi. Lì i ragazzi non mettevano le matricole con la testa nel gabinetto. Alle assemblee parlavano di rispetto e solidarietà. Ma di ragazzi che credevano in quegli ideali, lì dentro, ce n’erano davvero pochi.
Non ti facevano accorgere di essere lo zimbello della combriccola. Era qualcosa di subdolo, di intrinseco, che affondava le sue radici molto più a fondo di qualche stupido rituale da fichi della scuola. Loro ti uccidevano dall’interno.

Questa è la storia di un percorso la cui meta è la completa indipendenza dai giudizi altrui. Forse a volte dovremmo fermarci un secondo, guardarci attorno e domandarci se l'accettazione altrui è davvero la nostra massima aspirazione.
Se non siete pronti a confutare ogni strato di falsità che vi portate addosso, è meglio che non andate avanti.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Hold on to whatever
will get you through






Le gambe strusciavano sotto il lenzuolo, fasciate dai pantaloni della tuta Dimensione Danza che aveva dall’età di dieci anni. Il piumone blu le arrivava fin sotto al collo, a coccolarla teneramente. Correva il mese di marzo ma il piumone lo avrebbe tenuto anche a maggio inoltrato. Si sentiva protetta, da tutte quelle soffici piume ad abbracciarla.

Francesca osservava lo schermo del proprio computer con il cursore intermittente fermo nello stesso punto da tempo ormai. Ogni tanto ci buttava l’occhio, ogni tanto invece lo posava sul soffitto che aveva assunto una tonalità rossastra per via della lampada sulla scrivania. Dopo spostava lo sguardo dietro di sé su quella scrivania piena zeppa di libri e fogli volanti, matite mangiucchiate e penne senza tappo.

Poi magari lo posava sulle piccole frasi scritte a penna sul muro accanto al letto. Piccole, davvero, abbastanza da non essere notate dai genitori un po’ miopi, non abbastanza perché lei non riuscisse a leggerle. Erano leggere, timorose, scritte con mano tremolante. La paura di riversare se stessa su qualcosa di visibile al resto del mondo.

‘Aveva la bellezza di cui solo i vinti sono capaci. E la limpidezza delle cose deboli. E la solitudine, perfetta, di ciò che si è perduto.’

Avrebbe voluto tanto che qualcuno l’avesse osservata negli occhi, o in viso, nascosto da una tendina di capelli, e che avesse pensato a questa frase per lei. Avrebbe amato qualcuno che avesse trovato dell’affascinante nel suo essere sconfitta. L’affascinante era la sua perenne condanna, come quella di ogni lettore e scrittore. Il bello è ovunque, ma non tutti possono vederlo. Il fascino di un’anima abbandonata dal mondo e rifugiata ai piedi del proprio letto probabilmente poteva vederlo soltanto lei. Quel fascino aveva un prezzo, però. Un prezzo bello caro.

Dalla camera da pranzo arrivavano le voci dei telecronisti stranieri alla tv intenti a commentare probabilmente Liverpool - Manchester United. Talvolta si sentiva qualche imprecazione di suo padre e suo fratello. Più li osservava con il sedere sprofondato nel divano bianco e la birra in mano, più pensava che erano l’uno la fotocopia dell’altro. Più sperava che Antonio non sarebbe diventato così limitato come il padre.

Ogni tanto arrivava la madre, a raccattare i rifiuti di marito e figlio e sostituirli con qualcosa preso a caso dalla credenza. Li guardava, rassegnata ma sempre un po’ sdegnata, scuoteva la testa, raccoglieva le carte e i recipienti vuoti e tornava in cucina. Si rifugiava lì con un bicchiere di gassosa davanti e la bottiglia piena accanto. Trascorreva così le sue serate e, per quanto ne sapeva Francesca, anche il resto della giornata.

Capitava che la osservasse sul punto del pianto, e Francesca si specchiava nei suoi occhi. Si riconosceva nella figura di sé che aveva sempre trasmesso al mondo: una ragazzina sola e sul punto del mutismo, rifugiata nei suoi silenzi e nelle sue parole. Ma soprattutto, nella sua stanza.

Erano simili, lei e la madre, sotto quest’aspetto. Entrambe sole, entrambe zitte, entrambe perennemente racchiuse in un piccolo porto sicuro. Entrambe con una vena di disperazione pulsante negli occhi.

‘Portate qualche citazione che vi ha ispirato particolarmente, che vi rispecchia, che vi piace insomma’ aveva detto il professore del laboratorio.

Cosa gli porto? Pensava Francesca. Ho la camera che se ne cade di libri e parole e non so cosa portargli. Come scegliere tra tante citazioni? L’indecisione. La paura di svelare troppo di se stessa.
Non voleva scoperchiarsi a sette otto estranei, quanti erano. Non voleva vomitare la sua essenza dentro quell’aula. Non sapeva cosa ne avrebbero fatto gli altri, in che modo viscido se la sarebbero rigirata tra le mani sporche.
Teneva la pagina di word aperta come un chiodo fisso, una luce sempre accesa a ricordarle il suo intento.
Non aveva trovato una citazione adeguata, aveva sfogliato tutti i suoi libri preferiti ma non ne aveva cavato nulla. Gliela scrivo io, aveva pensato. Sono una scrittrice, gliela scrivo io una citazione.

Non sapeva quale parte di lei rivelare l’indomani. Avrebbe potuto parlare della sua passione per la scrittura, magari per i suoi personaggi. Dio, quanta voglia aveva di chiudere quel foglio bianco e aprire le 405 pagine della sua nuova storia. Aveva voglia di rileggerle una per una, da capo. E di correggere una virgola qua e là, sostituire un termine con un altro e poi rimetterlo dov’era perché ormai si era affezionata a vederlo lì. Aveva voglia di far parlare i suoi personaggi e imbarcarli in conversazioni ai limiti dell’assurdo con la consapevolezza di conoscere alla perfezione cosa avrebbero risposto a qualsiasi domanda.
Pensò che forse però non avrebbe avuto senso parlare della sua passione per la scrittura, perché era qualcosa che riusciva a capirsi solamente leggendo le sue storie e analizzando quelle piccole parti di se stessa disseminate nei suoi personaggi attorno al mondo.
Avrebbe potuto parlare della sua famiglia, ma pensò che era un argomento talmente deprimente e piatto da non riuscirci a scrivere nemmeno sopra. Ed era qualcosa che le succedeva poco spesso. Magari avrebbe potuto parlare di sua madre, unico battito di vita nel resto della casa. Un battito fioco e distrutto, un battito affascinante ma tanto doloroso. Non le andava di portare proprio sua madre in riunione.
Poteva raccontare della distruzione che si portava dentro giorno e notte.

La settimana prima era rimasta tre ore e un quarto con la boccetta di arsenico in mano.
Era un metodo un po’ vecchio avvelenarsi, molto alla Romeo e Giulietta. Forse una lametta avrebbe fatto più scena ma a lei di fare scena non le era mai interessato molto.
Tre ore e un quarto sullo sgabello del bagno a fissare le mattonelle bianche a pois blu sulle pareti, così fredde, distanti. Quella era l’unica scelta di cui sarebbe dovuta essere davvero sicura. Non poteva semplicemente decidere di farlo perché si era annoiata di pensarci su. Perché non ci sarebbe stato più nulla. Non puoi farlo per noia, Franci.
Chiamarsi con quel nomignolo le faceva tanta tenerezza, perché nessuno mai aveva abbreviato il suo nome in maniera così tenera, e allora lo faceva lei.
L’aveva assalita una tale pena per se stessa che si era decisa a posare le labbra sulla boccetta, sentendo l’odore pregnante del veleno raggiungere le proprie narici.
L’era scesa una lacrima sul volto. Stava davvero abbandonando tutto. Sono quindici anni che aspetto che cambi qualcosa.

Alla fine aveva allontanato la boccetta dal viso e l’aveva riposta accanto agli assorbenti.
Anche i suoi personaggi meritavano una fine. Quella morte silenziosa avrebbe aspettato un altro po’.
Non avrebbe potuto scrivere questo nella poesia, nella citazione che fosse. C’era davvero troppa, troppa disperazione in quel ricordo. A distruggerla ogni volta che ci ritornava col pensiero. Le gravava alla base del collo e restava lì come un grosso sasso pesante.
Le scese una lacrima sul viso, per quella sensazione e per quel desiderio di farsi fuori, una volta e per tutte. Di lasciare gli altri giocare a questo gioco a cui lei era completamente negata. Di lasciarli muoversi sul tabellone come meglio preferivano e dichiararsi sconfitta.
Due, tre, sette lacrime. Un pianto. Due mani sul viso. Dei singhiozzi stanchi. Dei lamenti fiochi soffocati dentro ad un cuscino.

Alla fine la disperazione era scemata, ricordata soltanto da qualche singhiozzo recidivo che andava a trovarla ogni tanto. Scemò da sola perché la vita non è un film e non ci sono mentori e amanti che vengono a consolarti mentre ti senti morire. Siamo nella vita reale e Francesca è sola. Quindi si abbandona a se stessa e al peso che sente in corpo e aspetta che passi, per un po’, per darle almeno il tempo di fare un breve respiro, limitato, forzato.
Afferrò la poca forza rimastale in corpo per le corna e la condusse ai suoi polpastrelli bagnati, costringendoli a battere sulla tastiera.
Scrisse una mezza poesia, rivelatrice ma non troppo. Per lei non si trattava più di semplice apparenza. Forse era stato così alle elementari.
Era lacerata e non si trattava solamente delle meraviglie nel suo corpo.

 

 

**

 

 

Come sempre, era la prima ad arrivare. Si faceva pena anche per questo.
Le sarebbe piaciuto avere chiacchiere da scambiare, appuntamenti da organizzare o anche semplicemente cianfrusaglie da raccogliere e sistemare nella borsa. Lei sul banco posava un quaderno e una penna, nel caso il professore dicesse qualcosa di interessante, o forse soltanto per non sembrare pazza completamente. Quella non era casa sua, e non era la sua stanza. Era un tavolino in prestito posizionato fin troppo vicino ad un suo gemello ricoperto da penne colorate e gomme scarabocchiate. Non le importava del disegno o della geometria. Nell’antica Roma c’aveva già ambientato due storie e una one-shot e aveva una cartina della Spagna appesa in camera.
Non le importava del moto circolare uniforme e nemmeno delle disequazioni di primo grado. Voleva soltanto tornare a casa da Laura, Tullio e Guido.

Come sempre, era sola in un’aula vuota perché era l’unica a non avere convenevoli da scambiare e parole da lasciar scivolare dalla propria bocca.

Prima che potesse davvero affondare un po’ di più i piedi nelle sabbie mobili in cui si stava auto-affondando da tempo, la porta dell’aula 13 venne aperta e richiusa 7 volte. Il professore si era accomodato sulla cattedra, aveva estratto una pipa dalla borsa di pelle e l’aveva appoggiata sulle labbra.
-A qualcuno dà fastidio?- aveva domandato.
-No- qualcuno aveva risposto.
Aveva sistemato un po’ di tabacco sulla boccuccia della pipa e l’aveva bruciacchiato con l’accendino.
Affascinante. Eccone un esempio calzante. La giacca grigia con il fazzoletto blu spuntare dal taschino, la fede al dito e il capello brizzolato organizzato in una fila laterale molto anni 60. Lo sguardo tenero e sveglio e un sorriso rassicurante sulle labbra. Fascino, tanto.
-Come state oggi?- aveva detto.
-Tutto bene- aveva risposto Sibilla. Gli altri avevano taciuto.
-tutto okay..- aveva sussurrato Ivy, consapevole che nessuno aspettasse davvero la sua risposta.
-Visto che non vi vedo in vena di chiacchiere, specialmente due o tre di voi.. vogliamo iniziare con le citazioni?- propose, tranquillo, sorridente. – Ivy, ti va di cominciare?- La gentilezza palpabile, nelle sue richieste.
-Certo..- Ivy esitò un secondo, sistemandosi meglio contro al muro. –Lei ci aveva detto di prendere qualsiasi cosa..-
-Sì- il professore sorrise.
-Io ieri mi trovavo su facebook.. e ho trovato questa frase accanto ad una foto.. su una pagina che si chiama ‘this is the trip’ se non sbaglio..- si sistemò una ciocca di capelli nella cipolla raccolta sul capo –e mi è piaciuta molto.. dice così:

“Ci hanno insegnato che gli eroi sono quelli che vanno in paesi lontani e combattono per la patria. Ci hanno detto che gli eroi salvavano la gente e poi sparivano. Io credo invece che gli eroi sono quelli che restano. Quelli che rimangono in silenzio a guardare il sole e ritrovano se stessi. Penso che gli eroi sono quelli che si svegliano la mattina e sorridono, anche se fuori piove. Gli eroi, i veri eroi, sono quelli che prendono a calci le porte per avere un po’ di giustizia”-

La voce le tremava.

Ci muovemmo a disagio in quel silenzio che era calato. Il professore sorrideva, in attesa che qualcuno avesse il coraggio di spezzarlo.
-Mi piaceva insomma.. – Ivy si grattò il capo, imbarazzata.
-è molto bella, Ivy, grazie per aver condiviso con noi questa piccola parte di te.- non si poteva guardare quello sguardo così dolce, non si poteva proprio. Francesca rischiava di sentirsi un verme bisognoso di compassione ed era lei l’unica a poterne provare per se stessa.
-C-mexxx..- prolungò quella consonante finale – è il tuo turno. Deliziaci- gli fece l’occhiolino, divertito. Evidentemente non era l’unica ad aver notato una autostima un po’ troppo elevata, da quelle parti.
-Subito- C sorrise, glaciale – Questo è un passo di Oscar Wilde. Ve lo recito.- prese fiato.

-“Sempre! Che parola tremenda. Mi dà un brivido ogni volta che la ascolto. Le donne hanno la mania di usarla: sciupano tutto ciò che v’è di romanzesco tentando di farlo durare per l’eternità. E, per di più, è una parola senza senso. La sola differenza tra un capriccio e una passione che occupa un’intera vita è questa: che il capriccio dura un poco di più”-

Pronunciò ogni parola in maniera teatrale e assorta, sicuro, di se stesso e della verità del suo discorso.
Qualcuno fece un sottile ghigno divertito, che C fece chiaramente finta di non sentire. Il silenzio era meno denso, sicuro o accusatore o derisorio, a seconda della persona che lo provava sulla propria pelle. Era il silenzio di un’affermazione categorica e smontatrice, era un silenzio deciso.
-Ti ringrazio. Gianni anche tu hai qualcosa da riferirci?- girò la sedia nella direzione del diretto interessato, seduto in prima fila tutto a destra, mezzo disteso sul banco.
-Seh- masticò il chewingum di cui tutti potevamo chiaramente sentire l’essenza alla fragola. – Ho preso il testo de na canzone de J-ax. Se chiama ‘dentro me’, dice:

‘mi piacerebbe restare nel gregge che legge solo gli sms, solo le barzellette, gossip e gazzette. Mi piacerebbe avere certezze di democrazia, lavoro, di giustizia e di legge e non pensare invece a una specie di prigione, ovunque vai la gente vuole un mondo migliore: la pace, l'amore, si, ma solo a parole, solo in una canzone poi è la legge del taglione.’ –

Lesse tutto con la testa appoggiata alla mano e con chiaro accento romano. Faceva pause di troppo e recitava con voce annoiata. Perfetto contrasto con la forza delle sue parole.
Affascinante.

Il professore gli parlò -è molto b-
-Daje, non è finito.

'Mi piacerebbe una via di fuga intellettuale dove c'è solo ideologia e tutta la magia scompare, pensieri dentro scatole ordinate, preconcetti in buste preconfezionate. Sentirsi contro e comportarsi uguale, sentirsi cristiani e poi giudicare, ed è più facile restare nel branco…con l'alibi di eseguire ordini dall'alto.

Mo è finito.-
Il professore rise leggermente –Beh, grazie davvero. Il testo di questa canzone è molto.. intenso. Magari una volta la ascoltiamo insieme, eh?- domandò a nessuno.
–Fin, caro, parlami-
-Certo, professore. Io ho raccolto una citazione da Oceano Mare, di Baricco, uno dei miei scrittori preferiti.- Fin sorrise, circondato da quell’aurea affabile che emanava no stop. Era qualcosa di così assurdo agli occhi di Francesca, di paradossale, inumano, un’aria serena e gentile.

 

– ‘Volevo dire che io la voglio, la vita, farei qualsiasi cosa per poter averla, tutta quella che c'è, tanta da impazzirne, non importa, posso anche impazzire ma la vita quella non voglio perdermela, io la voglio, davvero, dovesse anche fare un male da morire è vivere che voglio. Ce la farò, vero? Vero che ce la farò?’-

Parlò con voce presa e struggente, almeno così arrivò sulla pelle di Francesca. Voglia di vivere come una stilettata diretta precisamente addosso a lei. –Sento questo pensiero dentro come se l’avessi scritto stesso io.. mi rappresenta assolutamente- Fin sorrise, delicato, senza alcuna ombra di imbarazzo.
-Anche a me è piaciuto quel libro e questo è un bellissimo estratto. Grazie, Fin- il professore aspirò dalla sua pipa, con gli occhi distesi e allegri. Si assomigliavano in una maniera devastante, quei due. Francesca non poteva che distogliere lo sguardo da tanta insensata felicità.
Fascino.
-Bao, anche tu ci hai portato qualche citazione che ti ispira?- Bao abbassò il cappuccio della felpa blu scompigliandosi i capelli scuri.
-Sì, professore. Ho portato una strofa di Backstreets, una canzone di Bruce Springsteen. Ve la dico in italiano..

‘Ricorda tutti i film che siamo andati a vedere, Terry, per imparare a camminare come gli eroi che pensavamo di dover diventare. E dopo tutto questo tempo, ci siamo accorti di essere semplicemente come tutti gli altri: prigionieri in un parcheggio e costretti a confessare di nasconderci in strade secondarie.’-

-Sei un musicista?- domandò Ivy, a bruciapelo. Francesca notò visibilmente il rossore improvviso sulle sue guance.
-Più o meno- Bao le rispose rivolto verso di lei. Le sorrise.
-Ti ringrazio, Bao, per aver portato questa bella canzone del mitico Bruce.
Lizzie è il tuo turno. Cosa ci offri?- Il professore si voltò verso Francesca che immediatamente si destò dal suo mare calmo di osservazioni. È il tuo turno. Diamine, è il tuo turno. Parla.
-Sì.. beh.. io.. un po’ di tempo fa, ecco, ho trovato una poesia non ricordo dove.. e mi piaceva così ne ho portato un pezzo..- Ce la puoi fare. Io so che ce la puoi fare.
-Vai pure, tesoro- Forza. Devi leggere. Ti potrebbe aiutare, ce la puoi fare.
Un, due, tre.. oissa!


- Non troverai meraviglie nel mio corpo.. non v’è parte di questo in cui riscoprirai perfezione.-
deglutì. Hai cominciato, è il passo più difficile. Ti mancano solo altre tre frasi. Forza!
-
Mi guarderai e ciò che scorgerai sarà.. l’insieme più confuso di difetti che i tuoi occhi abbiano mai conosciuto. Non troverai meraviglie nel mio corpo, e non v’è un punto di questo.. che non t’ annoierai di osservare. Non ve ne sarà mai parte che ti farà luccicare lo sguardo.-

La voce si piegò, alla fine. Cretina, dovevi proprio cedere all’ultimo? Va bene, adesso ricomponiti.
Francesca rivolse il viso al professore, mantenendo lo sguardo sul banco.

-è molto bella Francesca, complimenti.- le sorrise, fiero e enigmatico.
Alla fine si rivolse verso Sibilla, silenziosa da un po’. Se ne stava con la testa penzoloni all’indietro, a guardare il soffitto, seduta su un banco in terza fila. Sollevò la testa.
-Subito, signore. Ho portato na poesia de Trilussa, l’ho letta ieri sera..- Perché parla in romano? Non era una cosa di Gianni? –Allora..

“Un vecchio Cervo un giorno sfasciò co' du' cornate le staccionate che ciaveva intorno. Giacché me metti la rivoluzione -je disse l'Omo appena se n'accorse ‘te tajerò le corna, e allora forse cambierai d'opinione...’- Sibilla fece una pausa e sorrise -‘No,’ disse er Cervo ‘l'opinione resta perché er pensiero mio rimane quello: me leverai le corna che ciò in testa’’ disse con tono teatralmente scocciato ‘ma no l'idee che tengo ner cervello.”- alla fine sorrise, soddisfatta di se stessa.

Il professore si unì al suo riso compiaciuto e si complimentò per la scelta.
Di certo si addiceva alla perfezione alla sua persona. E anche al dialetto che aveva deciso di adottare.
Affascinante.
-D’accordo piccoli citatori, vi va un altro giro? Ivy dimmi tutto.
-Sì. Ho portato una poesia di Kavafis.. si chiama monotonia.. e diciamo che ora come ora rispecchia perfettamente la mia vita..- sussurrò, si mangiò qualche sillaba. Avevano portato citazioni su citazioni, frasi e poesie che rispecchiavano i loro pensieri e il loro essere, ma nessuno aveva il coraggio di ammettere che peso avessero queste nelle loro vite.

-Il monotono giorno da un monotono
identico giorno è seguito. Cose identiche
si faranno e rifaranno continuamente-
momenti identici incombono e si dileguano.

Il mese passa che porta un altro mese.
Le cose che succedono le possiamo indovinare
senza sforzo; sono le cose di ieri, fastidiose.
Finisce che il domani non sembra più un domani.-

Francesca conosceva quella poesia dall’età di undici anni, quando era finita in una libreria al centro storico ed era inciampata in una delle prime stampe di un libro di Kavafis, che se ne stava lì, dimenticata, in attesa di entrare nella vita del prossimo avventore.

-Io spero tanto che queste riunioni possano spezzare la tua monotonia, Ivy. Ti ringrazio per questa splendida poesia-
-Oh, lo fanno..-
-C, anche tu hai un’altra citazione per noi?-
-Quante ne vuole, professore. Oscar Wilde:

‘Un sentimentale è semplicemente uno che vuole godere il lusso di un’emozione senza pagare. In verità il sentimentalismo è semplicemente la festa legale del cinismo.’

Fin si lasciò scappare un risolino.
-Hai qualche problema?- C si girò nella sua direzione.
-Fin, aspetta il tuo turno. Tocca a Gianni.-
-No, no fate pure io non ce l’ho n’altra citazione-
-D’accordo, allora Fin, esprimi pure la tua opinione-
-No, si figuri niente di che-
-No adesso parli Fin!-

-Penso soltanto che questa corazza cinica che ti sei malamente buttato addosso sfiori il ridicolo-

-Sfioro il ridicolo? Solamente perché non guardo la vita come un mondo fatato pieno di unicorni, fiori e arcobaleni?-
-Se questa è un’allusione alla mia sessualità sei più ridicolo di quanto pensassi.-
-Cavolo, non mi ero accorto di aver creato una così bella visione a doppia chiave di lettura-
-Complimenti davvero-
-Ti ringrazio. E comunque intendevo che il tuo ridicolòmetro dovrebbe puntare il suo ago da qualche altra parte, perché io mi sto limitando a dire le cose per come sono.-
-Quindi il tuo cinismo sarebbe un panno che pulisce il vetro e ci permette di vedere all’interno?-
-Esatto. ‘Il cinismo è semplicemente l’arte di vedere le cose come sono, non quali dovrebbero essere.’-
-Si, dai, visto che ci siamo buttiamoci su Schopenhauer e ‘che cosa ci si può aspettare da un mondo in cui quasi tutti vivono solo perché non hanno ancora trovato il coraggio di spararsi’-
Francesca impallidì a quella frase.
-‘Il cinismo è un modo spiacevole di dire la verità’, Fin-
-Il cinismo, è quello che porta la gente a volersi sparare, C. ‘Il problema dell’umanità è che gli stupidi sono strasicuri mentre gli intelligenti sono pieni di dubbi.’ Fatti qualche domanda-
-D’accordo, d’accordo piccoli letterati, il primo round finisce qui. Adoro sentirvi battibeccare ma dobbiamo dar spazio anche agli altri.
Bao, hai qualcos’altro da leggerci?-
-Sì professore. Ho una poesia di Kavafis. Anch’io.- buttò un occhiata sul viso di Ivy, che ne restò imbarazzata fino alla punta dei capelli scompigliati.
-S’intitola ‘Per quanto sta in te’

E se non puoi la vita che desideri
Cerca almeno questo
Per quanto sta in te: non sciuparla
Nel troppo commercio con la gente
Con troppe parole e in un viavai frenetico.

Non sciuparla portandola in giro
In balia del quotidiano
Gioco balordo degli incontri
e degli inviti
fino a farne una stucchevole estranea.-


Silenzio.
-Direi.. illuminante. Grazie, Bao.-
Silenzio.
-Lizzie tu hai un’altra splendida citazione da condividere?-
-No, professore-
-D’accordo. Allora Sibilla?-
-Io sì professore. L’ho presa da uno dei miei film preferiti, di Tarantino, ‘Pulp fiction’. È la battuta di Mia quando esce a cena con Vince Vega e dice:

‘Non odi tutto questo? I silenzi che mettono a disagio... Perché sentiamo la necessità di chiacchierare di puttanate per sentirci più a nostro agio? È solo allora che sai di aver trovato qualcuno davvero speciale: quando puoi chiudere quella cazzo di bocca per un momento e condividere il silenzio in santa pace.’-

-Capolavoro, eh, Pulp fiction?- -Senza dubbio- -D’accordo grazie mille, tesoro. Qualcun altro ha qualcosa da proporci?-
Silenzio.
-Nulla? D’accordo..
Allora.. vorrei dirvi due parole. Innanzitutto, vorrei che vi sentiste a vostro agio quando ci vediamo. Sentitevi liberi di parlare di quello che volete. Possiamo dedicare il nostro tempo in qualsiasi modo, basta che lo proponete. Ve l’ho detto, questo è un tentativo, per il momento sto cercando solo di conoscervi un po’ meglio. Quindi se avete idee, fate come se foste a casa vostra.
Intanto vorrei che facessimo un giro di ‘cose che amate’. La prenderemo come abitudine alla fine di ogni volta che ci vediamo. Non importa quanto questa sia significante per voi, avrete tempo di dirmi tutto quello che volete, adesso pensate soltanto ad una cosa che amate, nel profondo, in maniera semplice e sincera. Vi do un quarto d’ora.-

 

-Sibilla.. inizi tu?-

-Io amo la finestra di camera mia.-

-Fin?-

-amo il mare-

-Lizzie?-

-Amo.. camera mia-

-D’accordo. C?-

-Io amo nuotare-

-Ivy?-

-Io amo.. i taralli-

Risate.

-Okay, Gianni?-

-io.. amo il volume al massimo-

-Bao?-

-io amo scavare-

 

 

 

 

Note:
Okey guys! Mi scuso per l'incidente con l'editor di qualche giorno fa XD Mi aveva pubblicato mezzo capitolo. Sì, diciamo anche che le mie relazioni con lui sono un po' turbolente.
Questo capitolo è stato un po' un parto perchè tutta la storia delle citazioni non è facile da affrontare.
Al proposito, voglio ringraziare Kekka e Manuela che mi hanno dato una mano <3.
è tornata 'dentro me' di J-ax, che ho linkato qualche capitolo fa. In particolare io adoro le due poesie di Kavafis!
La poesia di Lizzie è integrale qui, l'ho scritta un po' di tempo fa. A Lizzie comunque si addice solamente la prima parte perchè lei non è una che camuffa i suoi atteggiamenti.
Il titolo viene da una canzone del mio amato John:I don't trust myself e significa "Reggiti a tutto ciò che ti fa passare oltre" Scusate l'attesa <3
Fatemi sapere cosa ne pensate perchè mi ci sono dannata parecchio XD
Venite a trovarmi nel mio gruppettino: Suppose I said.
Tanto amore per voi,
e per Francesca/Lizzie, che è una parte fondamentale di me.
Skikki, in onore tuo.

Carax
  
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