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Autore: Backyard Bottomslash    22/07/2012    3 recensioni
Due bambine: la prima entusiasta della vita, felice della sua famiglia e fiera dei suoi sogni; la seconda rinchiusa in una realtà così distante da lei da spingerla a crearsene una nuova… Ma come ci riuscirà?
Sarà una festa in città a cambiare le loro vite.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti | Coppie: Quinn/Rachel
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Note:
Ok, ammetto di avere un mucchio di cose da farmi perdonare, ma c'è una spiegazione a tutto!
Avevo detto che terminato l'esame di Stato mi sarei dedicata anima e corpo alle mie adorate bambine (si, chiamo così le mie ff), ma sono stata presa da un'euforia post-Maturità che mi ha impedito di prendere una penna in mano o di mettere mano sulla tastiera del pc.
Quando poi mi è parso che l'euforia fosse svanita mi sono allegramente sfracellata contro l'asfalto.
Eccoci dunque qua: alle 2.37 della vigilia dell'incontro con Dianna a Giffoni, al quale tra le altre cose parteciperò con le stampelle (non si sa mai che magari si impietosisce e mi permette, che so, di sfiorarle un capello).
Perdonata? Bon… Spero di si!

-BB


Prologo (Seconda Parte)

“Continuano da ormai due settimane le ricerche della piccola Lucy Fabray. Le autorità locali continuano a svolgere il loro compito senza interruzione alcuna, ma nonostante le svariate rassicurazioni, le indagini non sembrano trovare un punto di svolta.

L'ultimo avvistamento della bambina risale alle 20.30 del 2 luglio e da allora ogni traccia di lei è svanita. Le accuse volte ad inchiodare la domestica della famiglia Fabray, Susan Freeman, non sono ancora crollate e gli inquirenti non sembrano voler abbandonare questa pista nonostante la donna si sia più volte dichiarata completamente estranea ai fatti.

Il legale dei Fabray, dei quali non siamo riusciti ad avere dichiarazioni, afferma di essere ostinato ad andare in fondo alla questione: <>...”

 

Hiram ripiegò il giornale sul tavolo senza neanche terminare di leggere l'articolo, si tolse gli occhiali per massaggiarsi gli occhi, volgendo poi uno sguardo a Rachel, che, al suo fianco, aveva quasi terminato la sua colazione.

Guardava Rachel, ma vedeva Lucy. E come se il destino si stesse prendendo gioco di lui, quel volto comparve ancora una volta sul piccolo schermo della TV presente in cucina. Era piuttosto certo che non avessero mai visto la televisione così tanto come in quei giorni.

 

“...Vi ricordiamo, quindi, il numero da comporre nel caso qualcuno dovesse avvistare la piccola Lucy...”

 

“Oh questo è troppo! Ho visto così tante volte la faccia di quella bambina che sto iniziando a sognarla anche di notte!” si intromise Leroy, spegnendo il televisore.

“Benvenuto nel club!” affermò Hiram con un pizzico di sarcasmo, unico superstite della malinconia che attanagliava la sua voce.

Era impossibile evitare che la mente vagasse, andando a scovare le sue paure più grandi come un ago che, incurante di ogni cosa, pungeva un nervo scoperto.

Se fosse successo alla sua piccola principessa?

Se ora ci fosse stata la faccia di Rachel su tutti i rotocalchi piuttosto di quella della piccola Fabray?

Probabilmente la sua vita, come quella di suo marito, non avrebbe più avuto un senso.

“Pensi che la troveranno?” chiese a bruciapelo, con gli occhi che gli brillavano di speranza, come se dalla risposta di Leroy dipendesse davvero il futuro della bambina.

E Leroy se ne avvide. Perchè se c'era stato qualcosa che da sempre li contraddistingueva era la capacità di saper decifrare l'uno i sentimenti dell'altro semplicemente con uno sguardo. Non voleva deluderlo, ma Hiram era un uomo adulto e capiva bene la situazione: “Due settimane non sono poche”.

Non ci fu bisogno di aggiungere altro mentre l'ennesimo sospiro malinconico fuoriusciva dalla bocca dell'uomo con gli occhiali.

Avevano sempre accuratamente evitato quel tipo di discorsi davanti a Rachel, cercando addirittura di limitare la visione del telegiornale per non urtare la sua sensibilità. Fu per questo che, quando tornarono a rivolgere le loro attenzioni verso la figlia rimasero stupiti da quanto insistentemente la bambina guardasse la foto di quella Lucy sulla prima pagina del quotidiano locale.

Sembrava vivere in un mondo a parte e, di sicuro, non aveva ascoltato neanche una parola del breve discorso dei suoi genitori, Quasi come fosse rimasta incantata o, meglio ancora, quasi come se, quegli occhi avessero avuto la facoltà di ipnotizzarla pure essendo stampati su carta.

“Sembrava così triste quella sera...”

Rachel aveva ripetuto quella frase milioni di volte. L'aveva ripetuta anche davanti alla polizia, come se il fatto che quella piccola bambina bionda le fosse sembrata tanto giù di morale potesse cambiare qualcosa, potesse fare qualche differenza.

Hiram e Leroy si erano accollati tutte le responsabilità del caso decidendo di far deporre alla figlioletta quella testimonianza. Si erano resi conto che, nel migliore dei casi, sarebbero passati inosservati. E così era stato: la deposizione era stata valutata come non propedeutica ai fini delle indagini. Un bel modo, insomma, per lavarsene le mani davanti ad una dichiarazione ritenuta poco pertinente e, soprattutto, decisamente infondata.

Gli stessi Berry erano consapevoli di quanto poche fossero le possibilità che quanto detto dalla loro piccola venisse preso in considerazione, ma una delle prime cose che le avevano insegnato era il rispetto verso il prossimo e la sua parola, e non intendevano deluderla dandole un cattivo esempio. Questo, unito all'immensa caparbietà della bambina li aveva spinti ad assecondarla, non senza qualche ripensamento.

“Lo sappiamo, amore... Lo sappiamo”

Il tono di Hiram sembrava particolarmente solenne, mentre lanciava un'occhiata preoccupata a Leroy che, in tutta quella storia, aveva sempre mantenuto con maestria le redini della razionalità.

“Stellina...” iniziò, proprio Leroy, rivolgendosi alla figlia.

“Leroy, cosa stai facendo?” gli chiese il marito con apprensione, ben consapevole di quali fossero le sue intenzioni.

L'uomo però continuò, riservando un semplice sguardo al contrariato Hiram: “Tu sai che io e papà saremo sempre dalla tua parte e ti difenderemo qualunque cosa accada, vero?”

Rachel annuì, non risparmiando ai genitori la vista di un'espressione crucciata.

“Sei davvero sicura di quello che hai detto ai signori della polizia?”

Tentò di porle quella domanda con la maggior delicatezza possibile, ma ciò nonostante non poté fare a meno di stringere gli occhi in un moto d'incertezza.

Si fidava di Rachel, ma quella era una situazione delicata ed era possibile che la piccola mora si fosse lasciata trasportare dalle emozioni, come spesso le accadeva quanto cantava. Era plausibile: era così piccola ed, in quel caso, Rachel non avrebbe avuto nulla da rimproverarsi, non avrebbe avuto nessuna colpa se non quella di essersi eccessivamente preoccupata ed immedesimata nelle vesti di una bambina come lei.

Ma non voleva trarre conclusioni affrettate. Voleva aspettare di sentire, ancora una volta, le parole della figlioletta.

“Sono sicurissima, papi!” dichiarò con un'espressione che lasciava trasparire con esattezza tutta la sua sicurezza e determinazione.

In realtà, dietro quelle parole pronunciate con così tanta spavalderia si nascondeva abilmente una buona quantità di speranza.

Speranza di essere creduta.

Speranza che non si fosse trattato davvero solo di un sogno.

Già, perché a volte lei stessa si chiedeva se davvero avesse visto quella bambina, indotta a dubitare dalle parole incredule di gente malpensante.

Persa in quell'oblio d'incertezza, la consapevolezza giungeva, poi, fugace ed, allo stesso tempo, incombente e prepotente come un pugno allo stomaco: quegli occhi.

Nessuno al mondo sarebbe stato in grado di creare nella propria immaginazione tale scenario, degli occhi così perfetti.

Tanto perfetti quanto malinconici.

E decise di continuare, decise di dire anche questo: “E sono sicura che le era successo qualcosa di davvero brutto perché io non sarei stata così triste neanche se la signorina Seymour avesse deciso di dare la parte di Cappuccetto Rosso a quella spilungona di Sandra Fletcher, invece che a me!”

 

 

***

 

 

Alcune testoline si piegarono contemporaneamente verso destra, come se stessero seguendo ed imitando i movimenti di qualcun altro. Le sopracciglia corrugate a sancire quelli che erano degli sguardi crucciati, per certi versi curiosi e, perchè no, anche un po' sorpresi.

Ma, d'altronde, bisognava ammettere che la scena che si era presentata ai loro occhi era effettivamente singolare, per quanto esilarante.

“Sembra che non abbia mai mangiato un panino al burro d'arachidi...” constatò una di quelle testoline - precisamente bionda - che stavano seguendo la scena tanto appassionatamente.

Lucy ingoiò velocemente un pezzo di quel quantomai delizioso spuntino, affrettandosi il più possibile a dare una risposta a quella che, in fondo, una domanda non era: “E' così! Davvero non ne avevo mai mangiato uno.”

Pronunciò quella frase con una tale innocenza che, se possibile, lo sgomento che già di per sé si era fatto largo tra quei visini, aumentò sostanzialmente.

“E cosa mangiavi prima?” chiese la stessa bambina che aveva dato il via alla discussione.

La piccola sembrò pensarci un po' su: “Tante cose...” si limitò a dire, “Tante verdure...” concluse poi, dopo una più accurata selezione.

“Che schifo!” commentò un bambino che Lucy, durante quei giorni, aveva appurato fosse decisamente troppo alto per la sua età.

“Ma non avevi mai mangiato un panino al burro d'arachidi?”

Cavolo, quella bambina dagli occhi blu sembrava davvero dura di comprendonio.

“Mai.” replicò Lucy, questa volta con un pizzico di preoccupazione nel tono di voce.

“E perchè non sei scappata prima?”

La domanda stavolta provenne da un altro bambino, uno con una strana cresta in testa e che, subito dopo, si meritò uno scappellotto da quella che le sembrava si chiamasse Santana: “Lo sappiamo tutti che sei stupido. Non servono le prove.”

Durante il tempo trascorso a nascondersi, passando da una roulotte all'altra, Lucy aveva imparato a conoscere almeno un po' tutti quei bambini ed aveva capito quasi subito che Santana era la più sveglia del gruppetto. Spesso si era dimostrata un po' sopra le righe, talvolta le era parsa addirittura sgradevole. Le sue uscire erano brusche, certo, ma mai insensate.

“San! Non puoi usare la parola con la «s».” si affrettò a rimproverarla la biondina dagli occhi blu.

Quello era un'altro difetto dell'ispanica: usava decisamente troppe parole “cattive” e la piccola Fabray non aveva potuto fare a meno di pensare che sua madre, Judy, non avrebbe esitato a punirla più e più volte.

Santana alzò gli occhi al cielo: evidentemente non era nuova a quel tipo di rimproveri.

Britt, «stupido» non è una parolaccia.” si difese.

Ma l'altra non sembrava voler demordere: “Ma i grandi non vogliono che tu la usi!”

Ma i grandi ora non sono qui!” si trovò a ribattere con un tono piuttosto duro che fece immediatamente incupire Brittany.

La mora se ne rese conto e sembrò dispiacersi lei stessa di quella risposta così sgarbata che le aveva riservato, ma cercò, in qualche modo, di non darlo troppo a vedere.

Lucy aveva notato anche questo: Brittany era il punto debole di Santana.

Non le riservava mai parole poco gentili e nel caso in cui capitava, come poco prima, sembrava rimanerci più male lei che la stessa biondina.

Abbandonò i suoi pensieri quando Puck le concesse nuovamente attenzione: “Hai ancora fame?”

E la dolce biondina dagli occhi blu - almeno al momento - non riuscì ad evitare di annuire, sorprendendosi nello scoprirsi così sfacciata.

Wow! Mangi più dell'orso Yoghi!” constatò Brittany con tutta l'innocenza di questo mondo.

E Finn mangia davvero tanto!” concluse Santana con un grande sorriso stampato sul viso.

Non poteva proprio lasciarsi sfuggire l'opportunità di prendere per i fondelli il povero bambino.

D'altra parte, mentre i due continuavano a battibeccare abbastanza animatamente, Lucy si perse nel constatare quanto strano fosse effettivamente il suo comportamento. Non era da lei accettare in maniera tanto meccanica un invito. D'altronde Judy le aveva insegnato anche quanto fosse di buon uso declinare gentilmente una prima proposta, accettando poi, con un mascherato e fintissimo sorriso, la seconda. Senza contare che non era suo solito mangiare così tanto e con tanta voracità.

Era come se si stesse nutrendo a dispetto della ferrea dieta che, da un anno a quella parte, era stata costretta a seguire a causa delle smanie di una madre e di un padre troppo legati all'idea di una perfezione che, nel caso fosse esistita, non rispondeva al nome di Lucy Quinn Fabray.

Non che non potesse esserlo, certo.

La verità era che non voleva esserlo.

La verità era che Lucy non si stava nutrendo di quel cibo “proibito”... Almeno non solo.

Seppur del tutto inconsciamente, Lucy si stava nutrendo di un'intera vita “proibita”.

Paradossalmente quelle due settimane trascorse in un angolino buio di una roulotte qualsiasi, in una vecchia seppur alquanto spaziosa cassapanca, in uno sgabuzzino in disuso, ecco, quelle due settimane passate a nascondersi, traslocando da un posto all'altro, erano state due settimane di vita.

Lo stesso non poteva dire degli ultimi sei anni.

In quel momento si sentì bambina, nonostante non lo fosse mai realmente stata, nonostante non fosse mai stata educata a pensare come tale. E percepì chiaramente il suo cuore riempirsi di una felicità che non sarebbe stata passeggera, fugace, bensì comprese che, da quell'esatto momento, quello stato d'animo avrebbe fatto per sempre parte di lei.

Ti porteremo qualcosa più tardi. Ora dobbiamo andare se non vogliamo farci scoprire da qualcuno... Lo spettacolo sta per finire...” le spiegò Santana, stranamente quasi dispiaciuta, mentre usciva dalla roulotte seguita dagli altri bambini.

Ed anche questa volta Lucy non si trovò d'accordo con la bambina ispanica perchè il suo spettacolo era solo all'inizio.

 

 

***

 

 

Non sapeva con precisione quanto tempo fosse passato da quando Brittany, Santana, Finn e Puck erano andati via, ma a giudicare dal fatto che aveva ripetuto nella sua mente tutte le melodie che aveva imparato a suonare al piano, dovevano essere volate via almeno un paio d'ore.

Quando suonare non diventava un obbligo, ma soltanto un piacere suggerito da una vocina interiore, il tempo imparava a scorrere via veloce, come inseguito da una forza strana ed ignota. E a lei piaceva.

Certo, la sua gambina magra non era all'altezza dei tasti del pianoforte, ma la sua immaginazione, durante gli anni, aveva imparato a giostrarsi anche in quelle situazioni, riuscendo a dare il meglio di sé.

Venne distolta dai suoi pensieri quando percepì un rumore provenire dall'esterno e fu ovvio pensare immediatamente a Santana ed agli altri. Ci sperò, probabilmente, più che crederci sul serio: quel languorino di qualche ora prima si era trasformato in una vera e propria fame da lupo.

Quando, però, si rese conto che i passi fuori dalla roulotte si facevano sempre più marcati e ben più pesanti di quelli di qualsiasi bambino, capì che la sua “copertura” era in pericolo.

Si guardò intorno, cercando freneticamente una via di fuga o, per lo meno, un nascondiglio migliore di un armadio colmo di eccentrici e polverosi vestiti.

Sentì i passi avvicinarsi nello stesso istante in cui si stava dando da fare per riuscire a raggiungere una finestra, perfetta per quell'occasione, ma un po' troppo alta.

Quando finalmente riuscì a raggiungerla le fu inevitabile pensare che, in fondo, quel campo di cheerleading al quale era stata costretta a partecipare l'estate precedente le era servito a qualcosa.

Sgattaiolò via giusto in tempo per sentire la porta chiudersi dalla parte opposta della roulotte ed ancora una volta assaporò quel senso di libertà che per troppo tempo le era stato negato. Perchè in fondo anche quella era una vittoria, magari non tanto importante, ma in grado di darle quella giusta dose di autostima, quell'immenso e bellissimo senso di indipendenza che una bambina di sei anni non dovrebbe e, soprattutto, non vorrebbe provare.

A quell'età si dovrebbe vivere alla continua ricerca di una protezione, di qualcuno intento a guardarti le spalle, a rialzarti ed a sorreggerti in seguito ad ogni caduta, durante l'avventurosa ed incerta scoperta del mondo.

Ma lei no.

Era ovvio.

Per forza di cose doveva essere così.

Perchè quelli che dovevano essere i suoi “angeli custodi” si erano trasformati in dei veri e proprio sicari, dei “succhia-anime” avrebbe azzardato, che, piuttosto che guidarla lungo un percorso di vita, l'avevano rinchiusa in una sorta di bolla trasparente. Una vera e propria macchinazione volta ad illuderla, a fare credere come realtà un qualcosa che era del tutto inconsistente.

Infinite volte si era chiesta il perchè di tanta premura.

Mai aveva trovato risposta. Ed in quell'esatto istante decise che non ne avrebbe più cercata una.

Ridestatasi dai suoi pensieri si rese conto che sarebbe stata una buona idea allontanarsi da quel posto tanto compromettente, non arrivando a pensare, paradossalmente, che, all'aria aperta, ogni luogo potesse esserlo.

Si riempì i polmoni d'aria, godendosi la tiepida brezza che le accarezzava la pelle e le scompigliava i capelli, facendo scaturire sul suo visino un timido sorriso.

Ma non poteva cullarsi sugli allori oppure tutti gli sforzi fatti per evitare di essere scoperta sarebbero stati vani. Dunque si guardò intorno con fare circospetto... almeno per avere un'idea approssimativa dello spazio circostante: il tendone era decisamente distante da lei ed, a giudicare dal luccichio delle luci colorate e dall'inconfondibile musica, l'ultimo spettacolo della giornata doveva essere in corso proprio in quel momento.

Probabilmente proprio in seguito allo spettacolo serale i bambini le avrebbero portato la cena e le avrebbero raccontato tutte le vicende più rilevanti. Grazie a quei racconti riusciva, in qualche modo, ad immaginarsi al loro fianco durante tutti gli avvenimenti, riuscendo a provare persino le loro stesse emozioni. Ed in cuor suo sperava che, un giorno, avrebbe partecipato anche lei ad una di quelle avventure.

Solo allora realizzò che, quando sarebbero andati a consegnarle il suo pasto, non l'avrebbero trovata.

Velocemente cercò di farsi venire in mente qualcosa, ma l'unica idea era quelle di avvicinarsi al tendone, evitando, in un modo o nell'altro, di farsi vedere e sperare di riuscire a parlare almeno con uno dei suoi nuovi amici, preferibilmente con Santana.

Lei avrebbe saputo sicuramente cosa fare ed, in men che non si dica, le avrebbe trovato un nuovo nascondiglio. Perchè la cosa peggiore, al momento, non era saltare la cena, ma che non avesse un posto dove stare e l'idea di dormire all'aperto non era per nulla allettante.

Cercò di non farsi scoraggiare da quei pensieri, ma di essere ottimista: presto avrebbe trovato Santana ed insieme avrebbero deciso cosa fare, come se non ci fosse mai stato alcun problema.

Le sue esili gambine si muovevano, diminuendo lentamente la sua distanza da tutto lo sfarzo che poteva comportare uno spettacolo circense. E si muoveva nel buio perchè l'unica luce della quale quella zona disponeva era quella lunare, eccezion fatta per gli sporadici riflessi lunari delle luci colorate che, per altro, lei cercava di evitare in ogni modo.

Con incertezza continuava la sua avanzata, barcollando, di tanto in tanto, dinanzi a qualche piccola depressione nel terreno. Era, infatti, inciampata almeno un paio di volte, ma altrettante volte aveva trovato un giusto sostegno nelle varie strutture poste nella zona in cui si trovava.

Non si era minimamente curata di ciò che quelle strutture potessero contenere: probabilmente l'adrenalina che era in circolo nel suo corpo aveva fatto particolarmente effetto. Ciò che, però, era impossibile ignorare era l'odore decisamente poco gradevole presente nell'aria.

Anche volendo, Lucy non avrebbe saputo distinguere quell'accozzaglia di odori, né tantomeno avrebbe saputo giudicarne la provenienza. Sembravano infestare completamente la zona. Era come se quell'olezzo non fosse causato da una sola e distinta fonte.

Di conseguenza il suo naso, abituato a percepire esclusivamente essenze ben più raffinate, iniziò a pizzicare, infastidito da quell'aria così aspra e pungente.

Più camminava, più andava avanti, tanto più quell'odore nauseante diventava insopportabile, a tal punto che decise di tapparsi le narici e respirare con la bocca, sperando di alleviare quel fastidio.

Aveva sentito una puzza simile solo quando aveva visitato il maneggio degli Sheffield: per mesi aveva insistito affinché suo padre le comprasse un pony e caso volle che il signor Sheffield, uno dei clienti di suo padre, fosse proprietario di un piccolo maneggio; l'uomo, venuto a conoscenza dell'insistenza della bambina, aveva deciso di soddisfare almeno in parte quella richiesta, ospitando l'intera famiglia Fabray per un weekend.

La biondina aveva passato l'intero fine settimana a cavallo di un adorabile, piccolo pony che sembrava ricambiare l'affetto dimostratogli da quella piccola ospite. Per due interi giorni avevano vissuto in simbiosi e Lucy aveva scoperto di amare la natura in tutte le sue sfaccettature.

Il lunedì mattina Russell Fabray lasciò il maneggio con in tasca un contratto firmato da Steven Sheffield e Lucy non andò mai più a cavallo.

Gli odori così forti sentiti in quel weekend, per quanto sgradevoli per certi versi, non potevano neanche essere paragonati a ciò che al momento le impediva persino di respirare con il naso.

Chi va là?!” urlò qualcuno in quella che più che una domanda sembrava una vera e propria minaccia.

La piccola non riuscì a distinguere la figura, ma a giudicare da quanto distintamente avesse sentito quelle parole, l'uomo non doveva essere affatto lontano.

Il fiato le si spezzò in gola, gli occhi si spalancarono, le gambe ed il resto del corpo si rifiutarono di compiere un qualsiasi movimento, a dispetto di ciò che, invece, il cervello le diceva di fare.

Si ritrovò a sperare con tutta se stessa che quella voce non si riferisse a lei, che magari ci fosse qualcun altro nelle vicinanze, ma sapeva che era decisamente improbabile.

Corse.

Corse come non aveva mai fatto prima in vita sua.

Corse come aveva sempre sognato di fare, più veloce che poteva. Le sembrò quasi di volare e per qualche istante dimenticò addirittura che stava scappando da una possibile minaccia alla sua libertà.

A ricordarglielo ci pensò nuovamente quella voce: “Hey! Non puoi stare qui!”

Ma quell'avvertimento volò via e Lucy non diede alcun peso alle parole dell'uomo. Continuava a correre, estraniandosi da tutto il resto, come se si trovasse in una sorta di dimensione parallela nella quale l'unica cosa a cui pensare era il movimento frenetico e scomposto delle sue gambe.

Un correre talmente convulso ed irregolare che era difficile, se non impossibile, rendersi conto del percorso svolto e di quello da svolgere.

L'istinto le suggerì di voltarsi a guardare se avesse seminato o meno l'uomo, ma fu una mossa alquanto azzardata, troppo per una bambina che aveva corso poche volte durante la sua breve esistenza. Era come se, paradossalmente, le mancasse l'esperienza.

E cadde.

Come era ovvio, cadde.

Rimase a terra per alcuni, interminabili istanti, tramortita da quell'esperienza surreale più che dallo stesso impatto contro il suolo terroso.

Respirò lentamente ed il più silenziosamente possibile cercò di verificare i danni di quella caduta. Quando però poté udire, abbastanza chiaramente, dei passi avvicinarsi scattò in piedi, presa dal panico... O almeno credette si trattasse di panico, perchè quello che provò un secondo più tardi era molto più che semplice paura: trovarsi a poco più di 20 cm dalla faccia di un leone non fu panico, fu un vero e proprio trauma.

Mandò al diavolo tutti i suoi propositi di muoversi e spostarsi in relativo silenzio e lanciò un urlo a dir poco agghiacciante.

Presa com'era da quella situazione non badò neanche ai veloci passi che si facevano sempre più vicini. A malapena sentì le mani che la avvolgevano ed allontanavano di qualche metro dalla “gabbia incriminata”. Probabilmente si rese conto di essere stata spostata solo nel momento in cui si ritrovò faccia a faccia con colui dal quale stava scappando.

Lo guardò con attenzione e quei ricci tenuti a bada da una dose eccessiva di gel le suggerirono che non c'era poi molto per cui spaventarsi.

“Non dovresti essere qui!” ripetè quello che, ora, poteva giudicare a tutti gli effetti come un ragazzo. Il tono di voce era piuttosto duro, ma compresa la paura della piccola la sua espressione si addolcì, così come il suo tono: “Hai avuto paura, vero?”

Lucy non se la sentì di parlare e con un pizzico di indecisione si limitò ad annuire.

“Grace è nata poche settimane fa... E' ancora piccola e vuole giocare. Non voleva farti del male.” le spiegò con un amorevole sorriso, nella speranza di tranquillizzarla, “ora, però, mi spieghi come mai sei qui?”

La bambina, però, non sembrava del tutto convinta. Era evidente che, per quanto volesse rispondere, qualcosa glielo impediva. E dunque decise di iniziare da capo, facendole delle semplici domande, per metterla, in un certo senso, più a suo agio: “Eri allo spettacolo con i tuoi genitori?”

Ancora una volta Lucy ebbe timore di parlare, come se anche solo il far ascoltare la sua voce potesse in quale modo comprometterla, ma dopo aver scosso la testa decise di sillabare un flebile: “No...”

“Da quanto tempo sei qui?” chiese sempre più confuso il ragazzo. C'era qualcosa di familiare in quella piccola bambina bionda. Qualcosa gli diceva che aveva già visto quel visino spaurito.

“...Da un po'.” rispose dopo diversi attimi di esitazione, decidendo che sì, poteva fidarsi di quel tizio.

“I tuoi genitori sanno che sei qui?” le porse quella domanda, sorprendendosi lui stesso del suo sesto senso.

E, di fatti, questa volta, la bambina non esitò a rispondere, ma al contrario si affrettò a parlare: “No! Loro non lo devono sapere... E' per questo che sono qui!” tentò si spiegargli le sue motivazioni il più frettolosamente possibile, ma si rese conto che quelle poche informazioni non potevano bastare affinchè non decidesse di riportarla a casa, “Io voglio solo essere una bambina!”

Quelle parole fecero l'effetto desiderato: Will si chiese come potesse, una bambina così piccola, parlare in quel modo e capì quell'implicita e disperata richiesta.

“Dov'è casa tua?” continuò dopo qualche attimo.

“Vengo da Lima, Ohio... Ma quella non è casa mia!” si impose prepotentemente la piccola, alzando un po' il tono della voce, che fino a quel momento aveva mantenuto basso, quasi impercettibile.

Lima. Ohio.

Il giovane uomo scorse velocemente il calendario degli spettacolo e ad un tratto sbarrò gli occhi, improvvisamente consapevole: “Sei qui da due settimane?”

Il tono con il quale aveva posto la domanda aveva, però, spaventato la piccola. Era shockato e Lucy ne ebbe quasi paura, per questo preferì non rispondere, anche se, mai come in quell'occasione, il suo silenzio acconsentiva in maniera quasi imbarazzante.

“Sei quella bambina, giusto?” tentò di chiederle più gentilmente, salvo poi rendersi conto che se effettivamente era lì da due settimane non aveva avuto modo di rendersi conto di quanto la stessero cercando, “Sei Lucy?”

Quella domanda lasciò quantomai interdetta la piccola Fabray. Come faceva quello sconosciuto a conoscere il suo nome? Lo guardò con attenzione e poi annuì piano, tornando al suo stato di silenzio.

Il giovane sentiva chiaramente gli occhi della bambina puntati su di lui e non riuscì a non ricambiare lo sguardo. In quegli occhi, nonostante non riuscì a capirne il colore, poteva scorgere un mare di emozioni: paura, disperazione, sconforto, ma soprattutto speranza.

E Will decise di non tradire quelle aspettative.

“Sono sicuro che tu e Grace diventerete grandi amiche!”

 

 

 

   
 
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