Secondo capitolo! Un
grazie enorme a chi segue, recensisce o anche soltanto legge! Grazie
mille!
*
Una mattina di metà
gennaio, John ripensò a lui ancora una volta.
La spalla faceva male,
quasi troppo male per poterlo sopportare, e le fitte lancinanti alla
gamba non
facevano che peggiorare la sua situazione. Si trascinò dal
letto fino al tavolo
della colazione, cercando di rimuovere le immagini
dell’incubo di quella notte,
cercando di dimenticare il rumore acuto degli spari, delle urla, delle
voci che
chiamavano incessantemente il suo nome invocando aiuto.
Aprì il suo
portatile ed
esitò sui tasti, indeciso su cosa dire, senza realmente
alcuna voglia di
scrivere effettivamente qualcosa. Senza pensare, batté le
dita sui tasti
nemmeno osservando lo schermo, buttando giù qualcosa per
dovere, per il gusto
di farlo, per evitare che Ella lo rimproverasse al loro prossimo
incontro.
Quando rialzò gli
occhi e
lesse quello che sovrappensiero era uscito dalla sua mente, per poco
non verso
la tazza di tè poggiata accanto al computer su tutto il
tavolo.
21 gennaio 8.03
Mi manca una persona. Una
persona che ho visto
soltanto due volte in tutta la mia vita.
Voglio rivedere i suoi occhi, voglio sentire di
nuovo la sua voce dirmi che sono un idiota a scappare da tutto
ciò che non mi
va giù. Vorrei dirgli quello che provo adesso, quello che
provo ora che ho
smesso di scappare. Vorrei dirgli quanto mi piacerebbe che la mia vita
fosse
un’altra, non questa.
Sono un idiota davvero, perché credo di provare una
sorta di…amore, per lui. E non so nemmeno il suo nome, ma so
che ha un
fratello, è un sociopatico e che non ha amici. Oh, e che ama
pensare in luoghi
bui, deserti e isolati. Potrebbe essere chiunque, e soprattutto
potrebbe essere
ovunque, adesso. Potrebbe essere morto.
Qualcuno può aiutare questo povero matto?
John cominciò a
ridere,
dopo lo stupore iniziale, a ridere senza allegria, senza che realmente
lo
desiderasse. Forse stava davvero impazzendo, in quel vecchio e angusto
appartamento, e forse la solitudine lo avrebbe consumato completamente
un
giorno, e probabilmente sarebbe stato meglio così. Almeno
avrebbe smesso di
commiserarsi, di continuare a chiedersi perché
la sua vita avesse preso quella piega inaspettata.
Scuotendo la testa, chiuse
il portatile e si infilò in bagno per una rinfrescata,
sperando che l’acqua
fredda riuscisse a lavare via quei ricordi, pregando
che il rumore scrosciante della doccia permettesse a quegli
occhi di lasciare al più presto i suoi pensieri.
Passeggiando per il parco,
zoppicando sulla sua stampella, non riuscì ad allontanare
ancora il flusso dei
ricordi da quel ragazzo.
Non l’aveva mai davvero dimenticato, anzi, dopo
l’ultimo incontro aveva pensato
a lui quasi ogni giorno. Era arrabbiato, infuriato con se stesso per
non aver
mai chiesto il suo nome, o una qualunque cosa che potesse permettergli
di
rintracciarlo. Ogni tanto sentiva la sua mancanza così tanto
da sentirsi quasi
male, da costringersi ad affondare la testa nel cuscino per non
lasciarsi
andare. E la cosa peggiore è che non si spiegava il perché. Non erano amici, non
c’era stato il tempo di costruire un
vero e proprio rapporto, avevano passato insieme meno di due ore in
tutto, non
sapevano quasi nulla delle loro rispettive vite, eppure John era
rimasto
indelebilmente segnato da quel
ragazzo.
Era stato il primo, la prima
persona a mettere davvero in discussione le sue idee, il suo
comportamento, il
suo atteggiamento nei confronti di Harry e i suoi. La prima persona che
non si
era limitata ad un ‘sì,
hai perfettamente
ragione’ detto solo per far piacere e senza un
reale interesse, il primo
che pur non conoscendolo gli aveva detto quello che realmente pensava.
Aveva
aperto davanti a John un mondo che lui non conosceva.
Se solo fosse stato
possibile poterlo rivedere, ancora una volta.
Se solo la sua vita fosse
stata come una favola, dove sarebbe bastato uno schioccare di dita o lo
sfregamento di una lampada per avverare un suo desiderio, sarebbe stato
tutto
più facile, per John. Si ritrovò a pensare che
gli sarebbe bastato quel
desiderio, soltanto quello. Non soldi, non fama, non ville lussuose o
cose del
genere. Il solo pensiero di quel ragazzo, di quel meraviglioso
sconosciuto cui
sentiva di dovere così tanto di nuovo accanto a lui, lo
avrebbe reso un uomo
migliore. Gli sarebbe bastato anche solo il suo nome. Soltanto quello.
“John! John
Watson” una
voce lo distolse dal suo viaggio mentale.
John si voltò verso
la
voce e riconobbe quasi immediatamente un suo vecchio collega del Barts,
anche
se al momento il nome non faceva che sfuggirgli dalla mente, satura di
altri
pensieri.
“Mike! Mike
Stamford!
Eravamo insieme al Barts” disse l’altro con voce
entusiasta, come se fosse
sinceramente felice di aver rincontrato il vecchio amico. John gli
sorrise,
lieto che quell’uomo gli avesse concesso anche una sola
minima distrazione.
Mike gli offrì un
caffè e
parlarono del più e del meno, dei vecchi anni
all’Università, il tirocinio, e
ovviamente dell’Afghanistan. Mike gli fece una valanga di
domande trite e
ritrite, tra cui una memorabile affermazione su come si
fosse fatto sparare, come se l’avesse voluto lui, a
cui John
cercò di rispondere il più gentilmente possibile,
nonostante non fosse
decisamente in vena. Quando poi la conversazione arrivò ai
soldi, al suo
appartamento, e alle possibilità che John continuasse a
vivere a Londra, John
desiderò non aver lasciato il suo letto, quella mattina.
Stare sdraiato a
compatirsi fino a mezzogiorno inoltrato sarebbe stato meglio che
continuare su
quell’argomento, girando il coltello in una piaga ancora
aperta.
Disse a Mike che non lo
sapeva, che la pensione dell’esercito non sarebbe
più bastata per permettersi
di vivere in città e ascoltò il suo vecchio amico
chiedergli che fine avesse
fatto il vecchio John Watson, se Harry potesse aiutarlo, ipotesi
utopica quanto
il genio della lampada di poco prima, e se avesse mai pensato alla
possibilità
di cercare un coinquilino.
John sorrise, a
quell’affermazione. Chi avrebbe mai voluto un ex soldato
tormentato, depresso e
vittima di incubi notturni come coinquilino?
John guardò Mike e
sorrise, con un cipiglio sarcastico.
“Andiamo, chi mi
vorrebbe
come coinquilino?” disse, sicuro. Quello che non si sarebbe
mai aspettato però,
fu la risatina divertita di Mike che seguì la sua
affermazione.
“Cosa
c’è?” domandò,
sorpreso.
“Sei la seconda persona che me lo dice, oggi.”
John era davvero, davvero
curioso di conoscere il primo. Qualcosa, nell’immediatezza,
gli disse che
qualcosa sarebbe successo, quella mattina.
Fecero una passeggiata
fino al St. Bartholomew e Mike lo fece entrare a dare
un’occhiata al luogo dove
aveva passato praticamente metà della sua giovinezza, che
adesso era
completamente diverso, più moderno e inevitabilmente
più freddo rispetto ai
suoi tempi.
Passarono davanti alla
biblioteca e John sorrise ai ricordi dei mille pomeriggi passati a quel
tavolo,
sotto la luce calda della lampada che lo faceva sudare anche in agosto,
nascosto dal resto degli studenti da pile altissime di libri e appunti.
Arrivarono alla vecchia
mensa, alla grande sala d’aspetto, attraversarono le aule e
le fila numerate
degli ambulatori, fino ad arrivare all’ultima tappa, il
laboratorio.
E quando Mike aprì
quella
porta, la giacca sul braccio e un sorriso compiaciuto sul viso, John
entrò
nell’ampio ambiente illuminato da luci al neon bluastre, e
incrociò lo sguardo
con l’unico uomo presente nella stanza.
E per poco, John non si accasciò sul freddo e asettico
pavimento come un peso
morto.
Strinse il bastone con
tanta forza che credette di poter far esplodere il legno in mille
piccole
schegge e strinse la mano libera in un pugno tanto saldo da riuscire a
sentire le
unghie corte penetrargli nella carne del palmo. John, però,
non sentì alcun
dolore.
Perché lui era
lì, davanti a sé.
Era davanti ad un
microscopio, e John vide le sue pupille dilatarsi
nell’istante preciso in cui i
loro occhi s’incontrarono, le labbra leggermente dischiuse in
un’espressione di
sorpresa e stupore.
“Mike, mi presti il
cellulare, per favore? Il mio non prende” fu,
inaspettatamente, la prima cosa
che uscì dalla sua bocca. E non era rivolta a lui. John lo
guardò a bocca
aperta, stringendo ancora più forte il bastone, nervosamente.
“Perché
non usi un fisso?”
rispose Mike, infastidito.
“Preferisco gli
SMS.”
Mike gettò gli
occhi al
cielo, e sbuffò.
“Mi dispiace,
è nel mio
giubbotto” replicò, svogliato. John ebbe
l’impressione che non fosse la verità,
ma colse la palla al balzo, con quella risposta. Desiderava
disperatamente
rompere il ghiaccio, parlare con lui, infrangere quella barriera di
silenzio e
indifferenza che sembrava essersi creata, e quella era la giusta
occasione.
“Ecco, tenga” provò così a
dire, ma la voce uscì dalle sue labbra incerta,
tremolante. “Usi il mio.”
L’uomo
tornò a guardarlo,
una ciocca di capelli a oscurargli lo sguardo, identico a tanti anni
prima. Allungò
una mano e accettò il cellulare di John.
“Lui è un
mio vecchio
amico, John Watson” lo presentò Mike, senza troppe
cerimonie.
L’uomo piegò le labbra in un ghigno.
“Qualcosa mi diceva
che il
suo nome fosse John” disse, con ancora quel sorrisetto in
viso.
“Afghanistan o Iraq?” fu la domanda che gli
rivolse, poi.
Mike rise, cercando di
mascherarlo coprendosi con una mano.
“Vi lascio a fare un po’ di…conoscenza,
allora” disse l’uomo, rinfilandosi la
giacca. “Non spaventarti troppo John. A volte fa
quest’effetto”.
“Non lo
farò” disse John,
sicuro. Ormai lo conosceva. Sentiva
di conoscerlo.
L’uomo chiuse la
porta
dietro di sé e l’attenzione di John
tornò all’altro uomo.
“Non dirmelo.
E’ qualcosa
nei miei capelli, vero? O nella gamba, o qualcosa di simile?”
domandò John,
poggiandosi sulla sua stampella, senza staccare un secondo gli occhi di
dosso
all’uomo più alto. Questi lo guardò con
uno strano bagliore a illuminargli il
volto, come se John gli avesse detto qualcosa di assolutamente
straordinario.
“Mio Dio, John, spero non comincerai ad esternare questa tua
abilità deduttiva
in giro” scherzò l’uomo, con un
sorrisetto ironico. “O rischierei di perdere il
lavoro.”
John rise, scuotendo la
testa davanti all’assurdità di quella situazione.
Stavano di nuovo parlando del
più e del meno come se niente fosse, come se quello fosse
un’incontro casuale
al bar di due vecchi amici.
“Dovremmo smetterla
di
incontrarci così” disse poi, passandosi una mano
in viso.“Insomma, ho più una
decina d’anni di argomenti arretrati di cui
aggiornarti.”
L’altro sorrise,
armeggiando col cellulare di John ma lanciandogli occhiate furtive
sempre più
frequenti, come se non volesse dargli l’impressione che non
lo ascoltasse.
“Dieci anni di
litigi con
tua sorella da sorbirmi” l’uomo dai capelli scuri
chiuse gli occhi, come se
stesse pregustando qualcosa di infinitamente dolce. “Oh, cosa
mi sono perso.”
John mise le mani sui
fianchi, come a volerlo rimproverare.
“Fai poco lo
spiritoso. Sei
sempre stato tu a chiedermi di raccontare”.
“Oh ma io ero serio,
John”
l’uomo lo guardò con sguardo palesemente beffardo.
“Cosa ti fa credere che
fossi sarcastico?”
John rise di nuovo, con il
cuore che batteva all’impazzata, sentendosi totalmente a suo
agio per la prima
volta dopo quelli che sembravano secoli, ai suoi occhi.
“Noto con piacere
che sei
ancora un insopportabile sotuttoio”
esclamò, fingendo indifferenza. “Avevo quasi
temuto che tu fossi diventato un
rispettabile cittadino con, uh, l’hobby del
giardinaggio.”
L’uomo accanto a lui
rabbrividì a quella prospettiva.
“No John. Grazie per la pittoresca visione” lo
schernì. “Comunque, se sono qui
è perché ho seguito il tuo consiglio.”
John osservò il set
di
provette, vetrini e strani liquidi davanti a lui e cercò di
ricordare a quale
consiglio si riferisse. Non ci mise molto a riportare alla mente
l’immagine di
quel giorno e le parole precise.
“Oh”
disse, sinceramente
stupito. “Sei diventato una specie di…
chimico-investigatore?”
L’altro
arricciò il naso e
scosse la testa, contrariato dalla definizione poco fantasiosa
attribuitagli da
John.
“Consulente Investigativo”
spiegò,
con una certa fierezza nella voce. “L’unico al
mondo. Quando la polizia
brancola nel buio, cioè sempre, si appoggia a
me”.
John fischiettò, in
tono
d’approvazione.
“Però.
Hai fatto strada”
si complimentò, sinceramente. “E…tuo
fratello?” gli domandò, chiedendosi
nemmeno due secondi dopo perché diavolo l’avesse
messo in mezzo.
La bocca dell’uomo assunse una piega disgustata, come se
avesse gli avessero
appena fatto ingollare un cucchiaio di sale.
“Mio fratello
continua
ancora ad atteggiarsi a Dio Onnipotente,
grazie per l’interessamento” liquidò
lì l’argomento. Poi alzò gli occhi a
John,
con una visibile frase sospesa sulle labbra.
“Mi dispiace per il divorzio di tua sorella,
comunque” disse, alla fine.
John aprì la bocca
senza
che ne uscisse alcun suono. Come aveva fatto a sapere di Harry?
“Come…”
boccheggiò. “Come
fai a sapere…?”
L’altro si
rigirò il
cellulare di John tra le dita, giocherellandoci come fosse una specie
di buffa
pallina e facendolo passare da una mano all’altra.
“Il cellulare. Gli oggetti parlano,
John, e il tuo cellulare è un gran chiacchierone”.
John si accigliò.
“Spiegami come il
cellulare ha fatto a parlarti di
Harriet e Clara” disse John, categorico.
L’uomo
più giovane assunse
un’espressione confusa.
“Harriet?”
“Certo, Harriet, mia
sorella.”
“Pensavo fosse
‘Harry’”
“Pensavi che il nome
di
mia sorella fosse Harry?”
rise John,
assolutamente divertito da quella faccenda. L’uomo
sembrò non prendere bene
l’allegria di John.
“Pensavo che i tuoi
fossero di quelli fissati con i nomi maschili, come Ashley,
o Sasha o cose
del genere.”
John rise ancora
più
forte, poggiando una mano sul tavolo del laboratorio e dimenticandosi
completamente del bastone e della gamba dolorante.
“Oh mio Dio, esiste qualcosa che non sai!” gli
puntò contro il dito, con fare
teatrale.“Che soddisfazione.”
L’uomo lo trafisse
con uno
sguardo tagliente, assassino.
“Ora sei tu quello
antipatico.”
“Oh, non
m’importa. E’
talmente soddisfacente…” lo stuzzicò il
medico.
“Ti basta poco per
entusiasmarti” sbuffò il moro, senza guardarlo.
“Non è
poco per me”
puntualizzò John. “E non cambiare argomento.
Forza, dimmelo.”
L’altro non rispose
ma si
alzò dalla sedia e andò a riporre tutto il
materiale sparso che aveva davanti, nel
mobile dietro di lui. John tossì per attirare la sua
attenzione e l’uomo si
voltò a guardarlo con aria innocente.
“Cosa c’è?” gli
domandò, come se non lo sapesse.
John strinse gli occhi,
riducendoli a due fessure.
“Hai ancora una
risposta
in sospeso” gli ricordò il medico, tamburellando
con le dita sul tavolo.
L’altro
sbuffò.
“Non ti ho pedinato
per
tutti questi anni, nel caso te lo stessi chiedendo. Non ti sto
rispondendo
soltanto per evitare una penuria di argomenti durante il nostro primo
giorno di
convivenza” annunciò, semplicemente.
John non comprese e gli si
avvicinò, in cerca di spiegazioni.
“Convivenza?”
ripeté John, confuso. Chi aveva mai parlato di
convivenza?
“Stamattina ho detto
a
Mike che sarebbe stato difficile trovare un coinquilino, e dopo pranzo
eccolo
di ritorno con un suo vecchio amico, chiaramente congedato
dall’Afghanistan”
spiegò, come se fosse la cosa più ovvia del
mondo, come sempre. “Non era così
difficile da capire. Ho adocchiato un appartamento in centro che
insieme
potremmo permetterci”.
John si bloccò,
ammutolito
e sconvolto da quell’affermazione. Fino a quella mattina
aveva sperato in un
miracolo come quello con tutte le sue forze, dandosi dello sciocco e
dell’idiota per credere ancora in quelle favole,
in quello stupido e fantascientifico affetto
per un’ombra del suo passato, e adesso eccolo lì a
parlare con lui di una
possibile e futura vita insieme. John si morse la lingua fino a farla
sanguinare, cercando un segno tangibile che quella fosse davvero la
realtà e
non un sogno bellissimo e fin troppo realistico
che lo avrebbe distrutto al risveglio. Il sapore metallico del sangue
nella sua
bocca gli sembrò dolce come miele.
“E chi ti fa credere
che
io voglia condividere un appartamento con te, uomo del
mistero?”
L’altro
afferrò il
cappotto dalla sedia vicina e lo infilò, sistemandosi i
guanti e il bavero,
senza distogliere gli occhi da John. Si avvicinò al medico e
gli sorrise,
vicino, fin troppo vicino, con i loro nasi prossimi a sfiorarsi. Il
respiro di
John divenne irregolare mentre seguiva con lo sguardo la curva insolita
delle
labbra di lui.
“Io lo so”
fu la sua
risposta, enigmatica come sempre.
“Tu…lo
sai?” disse John
incredulo, cercando di non ridere. “Davvero?”
“Certo.”
“E come fai a
saperlo, di
grazia?”
Il viso dell’uomo si
spostò, fino a chinarsi di più verso John,
appoggiandosi al tavolo, così da
portare i loro visi alla stessa altezza. Il suo respirò
accarezzò le guance di
John fino al suo orecchio, prima che l’uomo parlasse, in un
sussurro, come se
avesse paura che qualcuno potesse sentirli.
“Perché
non sei più un ragazzino
spaventato, John. Perché hai compreso che saltare uno
stupido esame non è nulla
in confronto alla perdita di un commilitone, di un
amico. Perché hai capito che una vacanza andata a
monte non è un
vero problema, non è doloroso, non fa male come un
proiettile in una spalla”
bisbigliò. John non fiatò, rimanendo ad
ascoltare, come rapito dalla voce
profonda e piena di verità di quell’uomo.
“Perché
sei cresciuto
John, e la guerra è stata la tua ultima fuga”
esclamò ancora e stavolta il suo
tono di voce crebbe. “Perché adesso non scapperai
più, tu resterai. E mi
piacerebbe che tu restassi con me.”
Lasciando un completamente
sbigottito John Watson appoggiato al tavolo di marmo, con le mani che
stringevano la superficie fino a farsi sbiancare le nocche,
l’uomo si avviò
verso la porta. John non voleva che le loro strade si separassero
ancora, John
non voleva lasciarlo andare, ma ancora una volta non riusciva a
parlare, a
esprimere al meglio quello che aveva nel cuore.
Quando lo vide afferrare
la maniglia della porta però, qualcosa scattò
dentro di lui. Doveva farlo,
questa volta. Doveva chiederlo. Sapere.
“Non so dove dovremo
incontrarci” gridò, bloccando l’uomo sul
posto. “E soprattutto, io non conosco
il tuo nome” concluse, e quella frase sembrò
alleviare il petto di John di un
peso gigantesco, opprimente.
L’uomo chiuse gli
occhi,
come se John gli avesse finalmente dato la soddisfazione che cercava, e
poggiò
la fronte allo stipite della porta prima di rivolgere nuovamente lo
sguardo al
medico.
“Domani sera.
L’indirizzo
è il 221B di Baker Street” disse, con voce
tranquilla ma smossa da una profonda
e tacita eccitazione. “E
il mio nome
è Sherlock Holmes” aggiunse, prima di sparire
lungo il corridoio.
Dopo un iniziale silenzio, John scoppiò a ridere, tenendosi
la testa tra le
mani come una ragazzina eccitata al suo primo appuntamento.
Scivolò lungo la
parete del laboratorio ancora ridendo, sentendosi euforico,
soddisfatto,
pervaso da una scarica d’adrenalina pura che lo faceva
sentire in grado di
affrontare qualsiasi cosa.
“Oh mio
Dio” sussurrò a se
stesso, incredulo. “Tutto questo è
assurdo.”
Si risollevò, quasi
completamente dimentico della gamba, della spalla e di qualunque altro
malanno
o preoccupazione lo avesse tormentato prima di quel giorno.
Uscì anche lui
nella fresca aria di quel mattino, il mattino del suo miracolo,
il mattino in cui John aveva finalmente smesso di
fuggire, gettando la sua ancora in un porto sicuro che adesso aveva un nome.
Sarebbe andato tutto bene
d’ora in avanti. John lo sentiva. John ne era sicuro.
Continua…