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Autore: SAranel    22/07/2012    6 recensioni
Il piccolo John è costretto a scappare di casa, una notte, rifugiandosi nell'unico posto in cui si è sempre sentito al sicuro. E proprio mentre le cose sembrano prendere una piega tutt'altro che rassicurante, un aiuto particolare arriva in suo soccorso, un aiuto che potrebbe cambiare tutta la sua vita. Che succederà?
"John sapeva benissimo che era sbagliato, che la mamma si sarebbe preoccupata, che non avrebbe dovuto reagire a quel modo.
Era però altrettanto certo, davvero sicuro sicuro sicuro che, se non fosse andato via in quel momento, sarebbe scoppiato a piangere davanti a tutti come un poppante, lui che aveva ormai ben dodici anni, e non avrebbe avuto più il coraggio di uscire da camera sua almeno per i successivi dieci. Aveva dovuto farlo, era stato necessario.
Peccato però che in quel momento se ne stesse pentendo amaramente, al diavolo il coraggio e altre stupidaggini simili."[...]
Genere: Mistero, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Secondo capitolo! Un grazie enorme a chi segue, recensisce o anche soltanto legge! Grazie mille!
*

 

 

 

 

 

 

Una mattina di metà gennaio, John ripensò a lui ancora una volta.

La spalla faceva male, quasi troppo male per poterlo sopportare, e le fitte lancinanti alla gamba non facevano che peggiorare la sua situazione. Si trascinò dal letto fino al tavolo della colazione, cercando di rimuovere le immagini dell’incubo di quella notte, cercando di dimenticare il rumore acuto degli spari, delle urla, delle voci che chiamavano incessantemente il suo nome invocando aiuto.

Aprì il suo portatile ed esitò sui tasti, indeciso su cosa dire, senza realmente alcuna voglia di scrivere effettivamente qualcosa. Senza pensare, batté le dita sui tasti nemmeno osservando lo schermo, buttando giù qualcosa per dovere, per il gusto di farlo, per evitare che Ella lo rimproverasse al loro prossimo incontro.

Quando rialzò gli occhi e lesse quello che sovrappensiero era uscito dalla sua mente, per poco non verso la tazza di tè poggiata accanto al computer su tutto il tavolo.

 

21 gennaio 8.03

 

Mi manca una persona. Una persona che ho visto soltanto due volte in tutta la mia vita.
Voglio rivedere i suoi occhi, voglio sentire di nuovo la sua voce dirmi che sono un idiota a scappare da tutto ciò che non mi va giù. Vorrei dirgli quello che provo adesso, quello che provo ora che ho smesso di scappare. Vorrei dirgli quanto mi piacerebbe che la mia vita fosse un’altra, non questa.
Sono un idiota davvero, perché credo di provare una sorta di…amore, per lui. E non so nemmeno il suo nome, ma so che ha un fratello, è un sociopatico e che non ha amici. Oh, e che ama pensare in luoghi bui, deserti e isolati. Potrebbe essere chiunque, e soprattutto potrebbe essere ovunque, adesso. Potrebbe essere morto.
Qualcuno può aiutare questo povero matto?

 

John cominciò a ridere, dopo lo stupore iniziale, a ridere senza allegria, senza che realmente lo desiderasse. Forse stava davvero impazzendo, in quel vecchio e angusto appartamento, e forse la solitudine lo avrebbe consumato completamente un giorno, e probabilmente sarebbe stato meglio così. Almeno avrebbe smesso di commiserarsi, di continuare a chiedersi perché la sua vita avesse preso quella piega inaspettata.

Scuotendo la testa, chiuse il portatile e si infilò in bagno per una rinfrescata, sperando che l’acqua fredda riuscisse a lavare via quei ricordi, pregando che il rumore scrosciante della doccia permettesse a quegli occhi di lasciare al più presto i suoi pensieri.

 

Passeggiando per il parco, zoppicando sulla sua stampella, non riuscì ad allontanare ancora il flusso dei ricordi da quel ragazzo.
Non l’aveva mai davvero dimenticato, anzi, dopo l’ultimo incontro aveva pensato a lui quasi ogni giorno. Era arrabbiato, infuriato con se stesso per non aver mai chiesto il suo nome, o una qualunque cosa che potesse permettergli di rintracciarlo. Ogni tanto sentiva la sua mancanza così tanto da sentirsi quasi male, da costringersi ad affondare la testa nel cuscino per non lasciarsi andare. E la cosa peggiore è che non si spiegava il perché. Non erano amici, non c’era stato il tempo di costruire un vero e proprio rapporto, avevano passato insieme meno di due ore in tutto, non sapevano quasi nulla delle loro rispettive vite, eppure John era rimasto indelebilmente segnato da quel ragazzo.

Era stato il primo, la prima persona a mettere davvero in discussione le sue idee, il suo comportamento, il suo atteggiamento nei confronti di Harry e i suoi. La prima persona che non si era limitata ad un ‘sì, hai perfettamente ragione’ detto solo per far piacere e senza un reale interesse, il primo che pur non conoscendolo gli aveva detto quello che realmente pensava. Aveva aperto davanti a John un mondo che lui non conosceva.

Se solo fosse stato possibile poterlo rivedere, ancora una volta.

Se solo la sua vita fosse stata come una favola, dove sarebbe bastato uno schioccare di dita o lo sfregamento di una lampada per avverare un suo desiderio, sarebbe stato tutto più facile, per John. Si ritrovò a pensare che gli sarebbe bastato quel desiderio, soltanto quello. Non soldi, non fama, non ville lussuose o cose del genere. Il solo pensiero di quel ragazzo, di quel meraviglioso sconosciuto cui sentiva di dovere così tanto di nuovo accanto a lui, lo avrebbe reso un uomo migliore. Gli sarebbe bastato anche solo il suo nome. Soltanto quello.

“John! John Watson” una voce lo distolse dal suo viaggio mentale.

John si voltò verso la voce e riconobbe quasi immediatamente un suo vecchio collega del Barts, anche se al momento il nome non faceva che sfuggirgli dalla mente, satura di altri pensieri.

“Mike! Mike Stamford! Eravamo insieme al Barts” disse l’altro con voce entusiasta, come se fosse sinceramente felice di aver rincontrato il vecchio amico. John gli sorrise, lieto che quell’uomo gli avesse concesso anche una sola minima distrazione.

Mike gli offrì un caffè e parlarono del più e del meno, dei vecchi anni all’Università, il tirocinio, e ovviamente dell’Afghanistan. Mike gli fece una valanga di domande trite e ritrite, tra cui una memorabile affermazione su come si fosse fatto sparare, come se l’avesse voluto lui, a cui John cercò di rispondere il più gentilmente possibile, nonostante non fosse decisamente in vena. Quando poi la conversazione arrivò ai soldi, al suo appartamento, e alle possibilità che John continuasse a vivere a Londra, John desiderò non aver lasciato il suo letto, quella mattina. Stare sdraiato a compatirsi fino a mezzogiorno inoltrato sarebbe stato meglio che continuare su quell’argomento, girando il coltello in una piaga ancora aperta.

Disse a Mike che non lo sapeva, che la pensione dell’esercito non sarebbe più bastata per permettersi di vivere in città e ascoltò il suo vecchio amico chiedergli che fine avesse fatto il vecchio John Watson, se Harry potesse aiutarlo, ipotesi utopica quanto il genio della lampada di poco prima, e se avesse mai pensato alla possibilità di cercare un coinquilino.

John sorrise, a quell’affermazione. Chi avrebbe mai voluto un ex soldato tormentato, depresso e vittima di incubi notturni come coinquilino?

John guardò Mike e sorrise, con un cipiglio sarcastico.

“Andiamo, chi mi vorrebbe come coinquilino?” disse, sicuro. Quello che non si sarebbe mai aspettato però, fu la risatina divertita di Mike che seguì la sua affermazione.

“Cosa c’è?” domandò, sorpreso.
“Sei la seconda persona che me lo dice, oggi.”

John era davvero, davvero curioso di conoscere il primo. Qualcosa, nell’immediatezza, gli disse che qualcosa sarebbe successo, quella mattina.

Fecero una passeggiata fino al St. Bartholomew e Mike lo fece entrare a dare un’occhiata al luogo dove aveva passato praticamente metà della sua giovinezza, che adesso era completamente diverso, più moderno e inevitabilmente più freddo rispetto ai suoi tempi.

Passarono davanti alla biblioteca e John sorrise ai ricordi dei mille pomeriggi passati a quel tavolo, sotto la luce calda della lampada che lo faceva sudare anche in agosto, nascosto dal resto degli studenti da pile altissime di libri e appunti.

Arrivarono alla vecchia mensa, alla grande sala d’aspetto, attraversarono le aule e le fila numerate degli ambulatori, fino ad arrivare all’ultima tappa, il laboratorio.

E quando Mike aprì quella porta, la giacca sul braccio e un sorriso compiaciuto sul viso, John entrò nell’ampio ambiente illuminato da luci al neon bluastre, e incrociò lo sguardo con l’unico uomo presente nella stanza.
E per poco, John non si accasciò sul freddo e asettico pavimento come un peso morto.

Strinse il bastone con tanta forza che credette di poter far esplodere il legno in mille piccole schegge e strinse la mano libera in un pugno tanto saldo da riuscire a sentire le unghie corte penetrargli nella carne del palmo. John, però, non sentì alcun dolore.
Perché lui era lì, davanti a sé.

Era davanti ad un microscopio, e John vide le sue pupille dilatarsi nell’istante preciso in cui i loro occhi s’incontrarono, le labbra leggermente dischiuse in un’espressione di sorpresa e stupore.

“Mike, mi presti il cellulare, per favore? Il mio non prende” fu, inaspettatamente, la prima cosa che uscì dalla sua bocca. E non era rivolta a lui. John lo guardò a bocca aperta, stringendo ancora più forte il bastone, nervosamente.

“Perché non usi un fisso?” rispose Mike, infastidito.

“Preferisco gli SMS.”

Mike gettò gli occhi al cielo, e sbuffò.

“Mi dispiace, è nel mio giubbotto” replicò, svogliato. John ebbe l’impressione che non fosse la verità, ma colse la palla al balzo, con quella risposta. Desiderava disperatamente rompere il ghiaccio, parlare con lui, infrangere quella barriera di silenzio e indifferenza che sembrava essersi creata, e quella era la giusta occasione.
“Ecco, tenga” provò così a dire, ma la voce uscì dalle sue labbra incerta, tremolante. “Usi il mio.”

L’uomo tornò a guardarlo, una ciocca di capelli a oscurargli lo sguardo, identico a tanti anni prima. Allungò una mano e accettò il cellulare di John.

“Lui è un mio vecchio amico, John Watson” lo presentò Mike, senza troppe cerimonie.
L’uomo piegò le labbra in un ghigno.

“Qualcosa mi diceva che il suo nome fosse John” disse, con ancora quel sorrisetto in viso.
“Afghanistan o Iraq?” fu la domanda che gli rivolse, poi.

Mike rise, cercando di mascherarlo coprendosi con una mano.
“Vi lascio a fare un po’ di…conoscenza, allora” disse l’uomo, rinfilandosi la giacca. “Non spaventarti troppo John. A volte fa quest’effetto”.

“Non lo farò” disse John, sicuro. Ormai lo conosceva. Sentiva di conoscerlo.

L’uomo chiuse la porta dietro di sé e l’attenzione di John tornò all’altro uomo.

“Non dirmelo. E’ qualcosa nei miei capelli, vero? O nella gamba, o qualcosa di simile?” domandò John, poggiandosi sulla sua stampella, senza staccare un secondo gli occhi di dosso all’uomo più alto. Questi lo guardò con uno strano bagliore a illuminargli il volto, come se John gli avesse detto qualcosa di assolutamente straordinario.
“Mio Dio, John, spero non comincerai ad esternare questa tua abilità deduttiva in giro” scherzò l’uomo, con un sorrisetto ironico. “O rischierei di perdere il lavoro.”

John rise, scuotendo la testa davanti all’assurdità di quella situazione. Stavano di nuovo parlando del più e del meno come se niente fosse, come se quello fosse un’incontro casuale al bar di due vecchi amici.

“Dovremmo smetterla di incontrarci così” disse poi, passandosi una mano in viso.“Insomma, ho più una decina d’anni di argomenti arretrati di cui aggiornarti.”

L’altro sorrise, armeggiando col cellulare di John ma lanciandogli occhiate furtive sempre più frequenti, come se non volesse dargli l’impressione che non lo ascoltasse.

“Dieci anni di litigi con tua sorella da sorbirmi” l’uomo dai capelli scuri chiuse gli occhi, come se stesse pregustando qualcosa di infinitamente dolce. “Oh, cosa mi sono perso.”

John mise le mani sui fianchi, come a volerlo rimproverare.

“Fai poco lo spiritoso. Sei sempre stato tu a chiedermi di raccontare”.

“Oh ma io ero serio, John” l’uomo lo guardò con sguardo palesemente beffardo. “Cosa ti fa credere che fossi sarcastico?”

John rise di nuovo, con il cuore che batteva all’impazzata, sentendosi totalmente a suo agio per la prima volta dopo quelli che sembravano secoli, ai suoi occhi.

“Noto con piacere che sei ancora un insopportabile sotuttoio” esclamò, fingendo indifferenza. “Avevo quasi temuto che tu fossi diventato un rispettabile cittadino con, uh, l’hobby del giardinaggio.”

L’uomo accanto a lui rabbrividì a quella prospettiva.
“No John. Grazie per la pittoresca visione” lo schernì. “Comunque, se sono qui è perché ho seguito il tuo consiglio.”

John osservò il set di provette, vetrini e strani liquidi davanti a lui e cercò di ricordare a quale consiglio si riferisse. Non ci mise molto a riportare alla mente l’immagine di quel giorno e le parole precise.

“Oh” disse, sinceramente stupito. “Sei diventato una specie di… chimico-investigatore?”

L’altro arricciò il naso e scosse la testa, contrariato dalla definizione poco fantasiosa attribuitagli da John.
Consulente Investigativo” spiegò, con una certa fierezza nella voce. “L’unico al mondo. Quando la polizia brancola nel buio, cioè sempre, si appoggia a me”.

John fischiettò, in tono d’approvazione.

“Però. Hai fatto strada” si complimentò, sinceramente. “E…tuo fratello?” gli domandò, chiedendosi nemmeno due secondi dopo perché diavolo l’avesse messo in mezzo.
La bocca dell’uomo assunse una piega disgustata, come se avesse gli avessero appena fatto ingollare un cucchiaio di sale.

“Mio fratello continua ancora ad atteggiarsi a Dio Onnipotente, grazie per l’interessamento” liquidò lì l’argomento. Poi alzò gli occhi a John, con una visibile frase sospesa sulle labbra.
“Mi dispiace per il divorzio di tua sorella, comunque” disse, alla fine.

John aprì la bocca senza che ne uscisse alcun suono. Come aveva fatto a sapere di Harry?

“Come…” boccheggiò. “Come fai a sapere…?”

L’altro si rigirò il cellulare di John tra le dita, giocherellandoci come fosse una specie di buffa pallina e facendolo passare da una mano all’altra.
“Il cellulare. Gli oggetti parlano, John, e il tuo cellulare è un gran chiacchierone”.

John si accigliò.

“Spiegami come il cellulare ha fatto a parlarti di Harriet e Clara” disse John, categorico.

L’uomo più giovane assunse un’espressione confusa.

“Harriet?”

“Certo, Harriet, mia sorella.”

“Pensavo fosse ‘Harry’”

“Pensavi che il nome di mia sorella fosse Harry?” rise John, assolutamente divertito da quella faccenda. L’uomo sembrò non prendere bene l’allegria di John.

“Pensavo che i tuoi fossero di quelli fissati con i nomi maschili, come Ashley, o Sasha o cose del genere.”

John rise ancora più forte, poggiando una mano sul tavolo del laboratorio e dimenticandosi completamente del bastone e della gamba dolorante.
“Oh mio Dio, esiste qualcosa che non sai!” gli puntò contro il dito, con fare teatrale.“Che soddisfazione.”

L’uomo lo trafisse con uno sguardo tagliente, assassino.

“Ora sei tu quello antipatico.”

“Oh, non m’importa. E’ talmente soddisfacente…” lo stuzzicò il medico.

“Ti basta poco per entusiasmarti” sbuffò il moro, senza guardarlo.

“Non è poco per me” puntualizzò John. “E non cambiare argomento. Forza, dimmelo.”

L’altro non rispose ma si alzò dalla sedia e andò a riporre tutto il materiale sparso che aveva davanti, nel mobile dietro di lui. John tossì per attirare la sua attenzione e l’uomo si voltò a guardarlo con aria innocente.
“Cosa c’è?” gli domandò, come se non lo sapesse.

John strinse gli occhi, riducendoli a due fessure.

“Hai ancora una risposta in sospeso” gli ricordò il medico, tamburellando con le dita sul tavolo.

L’altro sbuffò.

“Non ti ho pedinato per tutti questi anni, nel caso te lo stessi chiedendo. Non ti sto rispondendo soltanto per evitare una penuria di argomenti durante il nostro primo giorno di convivenza” annunciò, semplicemente.

John non comprese e gli si avvicinò, in cerca di spiegazioni.

Convivenza?” ripeté John, confuso. Chi aveva mai parlato di convivenza?

“Stamattina ho detto a Mike che sarebbe stato difficile trovare un coinquilino, e dopo pranzo eccolo di ritorno con un suo vecchio amico, chiaramente congedato dall’Afghanistan” spiegò, come se fosse la cosa più ovvia del mondo, come sempre. “Non era così difficile da capire. Ho adocchiato un appartamento in centro che insieme potremmo permetterci”.

John si bloccò, ammutolito e sconvolto da quell’affermazione. Fino a quella mattina aveva sperato in un miracolo come quello con tutte le sue forze, dandosi dello sciocco e dell’idiota per credere ancora in quelle favole, in quello stupido e fantascientifico affetto per un’ombra del suo passato, e adesso eccolo lì a parlare con lui di una possibile e futura vita insieme. John si morse la lingua fino a farla sanguinare, cercando un segno tangibile che quella fosse davvero la realtà e non un sogno bellissimo e fin troppo realistico che lo avrebbe distrutto al risveglio. Il sapore metallico del sangue nella sua bocca gli sembrò dolce come miele.

“E chi ti fa credere che io voglia condividere un appartamento con te, uomo del mistero?”

L’altro afferrò il cappotto dalla sedia vicina e lo infilò, sistemandosi i guanti e il bavero, senza distogliere gli occhi da John. Si avvicinò al medico e gli sorrise, vicino, fin troppo vicino, con i loro nasi prossimi a sfiorarsi. Il respiro di John divenne irregolare mentre seguiva con lo sguardo la curva insolita delle labbra di lui.

“Io lo so” fu la sua risposta, enigmatica come sempre.

“Tu…lo sai?” disse John incredulo, cercando di non ridere. “Davvero?”

“Certo.”

“E come fai a saperlo, di grazia?”

Il viso dell’uomo si spostò, fino a chinarsi di più verso John, appoggiandosi al tavolo, così da portare i loro visi alla stessa altezza. Il suo respirò accarezzò le guance di John fino al suo orecchio, prima che l’uomo parlasse, in un sussurro, come se avesse paura che qualcuno potesse sentirli.

“Perché non sei più un ragazzino spaventato, John. Perché hai compreso che saltare uno stupido esame non è nulla in confronto alla perdita di un commilitone, di un amico. Perché hai capito che una vacanza andata a monte non è un vero problema, non è doloroso, non fa male come un proiettile in una spalla” bisbigliò. John non fiatò, rimanendo ad ascoltare, come rapito dalla voce profonda e piena di verità di quell’uomo.

“Perché sei cresciuto John, e la guerra è stata la tua ultima fuga” esclamò ancora e stavolta il suo tono di voce crebbe. “Perché adesso non scapperai più, tu resterai. E mi piacerebbe che tu restassi con me.

Lasciando un completamente sbigottito John Watson appoggiato al tavolo di marmo, con le mani che stringevano la superficie fino a farsi sbiancare le nocche, l’uomo si avviò verso la porta. John non voleva che le loro strade si separassero ancora, John non voleva lasciarlo andare, ma ancora una volta non riusciva a parlare, a esprimere al meglio quello che aveva nel cuore.

Quando lo vide afferrare la maniglia della porta però, qualcosa scattò dentro di lui. Doveva farlo, questa volta. Doveva chiederlo. Sapere.

“Non so dove dovremo incontrarci” gridò, bloccando l’uomo sul posto. “E soprattutto, io non conosco il tuo nome” concluse, e quella frase sembrò alleviare il petto di John di un peso gigantesco, opprimente.

L’uomo chiuse gli occhi, come se John gli avesse finalmente dato la soddisfazione che cercava, e poggiò la fronte allo stipite della porta prima di rivolgere nuovamente lo sguardo al medico.

“Domani sera. L’indirizzo è il 221B di Baker Street” disse, con voce tranquilla ma smossa da una profonda e tacita eccitazione. “E il mio nome è Sherlock Holmes” aggiunse, prima di sparire lungo il corridoio.
Dopo un iniziale silenzio, John scoppiò a ridere, tenendosi la testa tra le mani come una ragazzina eccitata al suo primo appuntamento. Scivolò lungo la parete del laboratorio ancora ridendo, sentendosi euforico, soddisfatto, pervaso da una scarica d’adrenalina pura che lo faceva sentire in grado di affrontare qualsiasi cosa.

“Oh mio Dio” sussurrò a se stesso, incredulo. “Tutto questo è assurdo.”
Si risollevò, quasi completamente dimentico della gamba, della spalla e di qualunque altro malanno o preoccupazione lo avesse tormentato prima di quel giorno. Uscì anche lui nella fresca aria di quel mattino, il mattino del suo miracolo, il mattino in cui John aveva finalmente smesso di fuggire, gettando la sua ancora in un porto sicuro che adesso aveva un nome.
Sarebbe andato tutto bene d’ora in avanti. John lo sentiva. John ne era sicuro.

 

Continua…

  
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