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Autore: Balestra    24/07/2012    0 recensioni
James Fellow è un carcerato imprigionato per motivi che nemmeno lui ricorda nella Howling Prison, la prigione della città di Agrova, un luogo crudele dove vengono applicate orride torture psicologiche e fisiche. Eppure, scopre una verità nascosta che lui stesso non ricorda... in una città divisa tra potere politico e potere religioso, dove le tensioni sono sempre alte, si snoderà l'avventura del nostro protagonista, il suo Volo. IL Volo del Corvo.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il volo del Corvo

 

1

 

Pensavo di conoscere la disperazione; le celle fetide, oscure, senza luce. Giorni passati senza poter fare nulla, senza poter mangiare né bere. Senza poter sperare. Nella Howling Prison ti portano via tutto: i ricordi te li strappano via a forza, brutalmente; il corpo lo piegano a forza di lavori forzati e torture; la mente la consumano con sottili stratagemmi. Molti sono stati piegati senza problemi, anche i più duri: chiunque, alla fine, perde la voglia di vivere. Si diventa come marionette senza vita, senza scopo, che fanno tutto ciò che viene loro imposto in modo meccanico, passivo. Anche io, un tempo, ero come loro: ero sull'orlo del precipizio. La morte, in confronto a quella orrida vita, mi pareva una prospettiva allettante, quasi come un caldo abbraccio, una promessa di un lungo riposo che mi avrebbe sollevato da quell'impossibile esistenza di lungo dolore. Non ricordo nemmeno come ci sono arrivato, nella Howling Prison. So solo che, appena giunto lì, fui pervaso dal più grande terrore che potessi mai provare. Per giorni rimasi incatenato ad una parete, senza potermi muovere, inerme, nel buio più totale, lo stomaco corroso dai crampi della fame, la bocca pastosa per la mancanza d'acqua. Quando un carceriere si avvicinava, vicino alla mia porta, invocavo con forza la morte, supplicando. Ma nessuno mi rispondeva... ed era ancora peggio. Nessuno ti parlava, lì. Un altro tipo di tortura. Chiunque provasse a muovere anche solo la bocca, sarebbe stato punito... mai con la morte, ma con lunghe e dolorose torture. Non un sussurro, non un bisbiglio. Si rimaneva a pensare, da soli; ma prima o poi anche la mente crolla. C'era chi, impazzendo, e tentando di tenere vanamente lontano il dolore, si rinchiudeva in un mondo di completa fantasia, spesso bisbigliando tra sé e sé cose strane. Ogni tanto, però, le celle si facevano troppo piene, nella Howling Prison. Perciò, venivano ripulite periodicamente: ogni tanto, qualcuno veniva preso e portato via, verso una morte atroce, che consisteva in qualcosa di inumano: Rinchiudere un uomo in una gabbia piena di topi e, lentamente, scaldarla... le bestioline, tentando di scappare, lentamente, rosicchiano la carne finché non si arriva ad una morte talmente straziante da lasciare poco spazio all'immaginazione. A quel punto, neanche venire uccisi era più un sollievo, era solo la tortura finale, una delle meno sadiche, anche. Ricordo benissimo quando giunsi lì, in quell'inferno. Il battello a vapore era stracarico; corpi ammassati, sudici, tutti compressi in un unico, angusto spazio; fuori, in mare, si era scatenata una tempesta che faceva rollare continuamente la barca, in balia delle onde che la sbatacchiavano qua e là, rendendo la traversata una specie di preludio alle VERE torture. C'è chi vomitò, chi, invece, tentò malamente di suicidarsi e chi, invece, ci riuscì. Ricordo che uno, con grande inventiva, ingoiò una biglia di vetro, soffocando lì davanti a noi: il suo viso divenne, lentamente, blu, finché il suo petto smise di alzarsi e la sua bocca non mandò più gemiti strozzati; crollò a terra, semplicemente, come una marionetta a cui vengono tagliati i fili. Naturalmente nessuno si prese la briga di rimuovere il cadavere, lasciandolo lì, freddo ed inerte. Quando, infine, il battello attraccò i soldati ci spinsero fuori a suon di calci nel sedere, pungolandoci con le spade e sputandoci addosso insulti di ogni genere. Quando la vidi, incombeva su di noi: la prigione era costruita su un enorme spunzone di roccia a picco sul mare ed era qualcosa di DAVVERO mastodontico: una costruzione in freddi pietroni squadrati, dal quale si staccavano, come strane costole ricurve, dei torrioni, neri, appuntiti, che sembravano voler perforare il cielo notturno, coperto da giganteschi nuvoloni. Ci trascinarono, completamente fradici e disperati lungo una stretta stradina scavata nella roccia, una pista di capre, a strapiombo sugli scogli. E qui, almeno tre o quattro si lanciarono di sotto, gridando come disperati, lanciando urla inumane; quando incrociai lo sguardo di uno di loro, lo vidi colmo di terrore. Terrore cieco. Continuai a fissarlo, come in trance, finché non si perse nell'oscurità più totale. Continuammo la lenta ascesa senza ulteriori intoppi, ma sempre con il terrore che ci pervadeva; camminavamo meccanicamente, senza pensare, un passo dopo l'altro, tentando di non inciampare. Uno di noi scivolò su un sasso, cadendo sulla scarpata sottostante; aveva il braccio chiaramente spezzato, in una posizione innaturale. Gridava di dolore, implorava aiuto; una guardia, semplicemente, gli sparò. Lo prese in mezzo alla fronte, mentre lui invocava ancora aiuto, stringendosi disperatamente il braccio. Nessuno protestò, si indignò o parlò... nessuno ebbe alcuna reazione. Il mio cuore, ricordo, stava per scoppiare: avevo troppa paura. Un terrore cieco. Avrei voluto anche io suicidarmi, se solo ne avessi avuto le palle. Continuammo a salire, ancora ed ancora, senza che si vedesse la fine di quel sentiero; gemiti, parole sussurrate, scalpiccio, sassi che rotolavano. Infine, giungemmo alla base di quello che, da lì a poco, sarebbe stato il nostro personalissimo inferno, un luogo a cui eravamo condannati, dove la nostra vita sarebbe stata lentamente consumata, la speranza schiacciata, la nostra voglia di vivere spazzata via. “Moriremo tutti” era la sola cosa a cui riuscivo a pensare “Lentamente, dolorosamente, dopo una vita di torture. Ma moriremo”. L'enorme portale d'accesso era composto da un portone in freddo metallo che quando venne alzato, con un gran fracasso di catene arrugginite tese allo spasmo, rivelò una grossa grata; tirata su anche questa, fummo spinti in avanti, lungo il terreno fangoso, ad entrare in quella struttura costruita col sangue. Arrivati nel cortile, sempre sotto la pioggia, venimmo separati in vari gruppi; io finii con uno dei più nutriti che fu trascinato lungo una rampa di scale che sprofondava nelle viscere della terra. Faceva sempre più freddo, lì sotto, ed era sempre più umido. Infine, ci sbatterono in quelle celle, da soli. E lì, persi la cognizione nel tempo, stando nel buio. Svenni a più riprese. Invocai la morte. La mia mente, spesso, vacillò, dandomi illusioni che non volevo vedere. Quando la porta di ferro si aprì, cigolando, non sapevo quanto tempo era passato; pensavo solo che, finalmente, era giunta anche la mia ora. Ero contento, in un certo senso, di poterla finire lì. Mi trascinarono su per le scale, debole come ero. Tenevo gli occhi perennemente serrati, ogni sorta di luce era per me come dei piccoli aghi che mi penetravano nei bulbi. Non sapevo dove mi stavano portando, mi lasciavo semplicemente trascinare da loro verso una meta sconosciuta. Non mi accorsi che, lentamente, l'arredamento cambiava, passando dalle mura opprimenti e male illuminate ad un lusso inadeguato all'orrido lavoro che si svolgeva in quel luogo. Ricordo solo che aprirono una porta, sbattendomi malamente dentro, per poi richiudersela alle spalle; caddi in ginocchio, gli occhi che bruciavano come se vi avessero conficcato dentro tizzoni ardenti, a causa della forte luce gettata da un lampadario. Li tenevo socchiusi ma, nonostante questo, da essi sgorgavano lacrime che tentavano di alleviare il dolore alla pupilla, sicché ebbi una specie di immagine distorta del direttore di quel posto. Un uomo magro, pallido, con gli occhi grigi e privi di espressione, spenti; i capelli rossi come fiamme, pettinati ordinatamente all'indietro, a lasciare la fronte completamente scoperta. Teneva le punte delle dita incrociate, guardandomi con freddezza, quasi volesse congelarmi sul posto con quell'aria distaccata. Non sapevo cosa fare: perché ero lì? I ricordi, qui, si fanno confusi... ma, da un certo punto, ricordo quella situazione come fosse ieri: una situazione che mi cambiò la vita. Ero seduto, ancora terrorizzato, ipnotizzato dal grigiore delle sue iridi, un grigio che ben si adattava ad un uomo come lui. -James Fellow.- ricordo ancora quella voce, pungente e quasi gelata, come schegge di ghiaccio -Lei sa perché è stato arrestato?-. Ebbi la forza di scuotere la testa: non ricordavo nulla, del mio passato. La Howling Prison me l'aveva portato via, strappandomelo con le sue torture disumane. L'uomo annuì e, nel farlo, ricordo perfettamente una scintilla di malata soddisfazione nei suoi occhi: quel bastardo godeva nel vedere quanto fosse brutalmente efficiente la macchina di tortura che aveva creato. Per qualche secondo mi fissò ed ebbi la pelle d'oca: pensavo che la mia ora fosse giunta. Anche io sarei stato mangiato vivo dai topi... la mia mente, come era ovvio, non mi ricordò che ero lì da quelle che, teoricamente, erano appena due settimane e che quindi non potevo già essere gettato via. Ero paralizzato dal terrore, divorato dall'ansia... avevo ancora paura della morte. O almeno, di quella morte che, ancora, mi era sconosciuta: se mi avessero sgozzato, gettando il mio cadavere della scogliera, allora sì, sarei stato felice, avrei accolto la morte a braccia aperte, come il più prezioso dei doni. Ma così... -James Fellow. Conosciuto nell'ambiente come Il Corvo, perché non lascia mai tracce e, spesso, utilizza dei tramiti. Un killer dei migliori... assoldato dalla gente sbagliata.- ricordo che lasciò passare qualche attimo, tra quella frase e la successiva, facendomi consumare nell'ansia di una fine che credevo sempre più vicina; potevo sentire la sottile e liscia lama della falce del Mietitore che, lentamente, mi lambiva la gola. Deglutii. Lo ricordo, come deglutii... mi fece male. Avevo la gola talmente riarsa che qualsiasi cosa mi passasse dentro, faceva male. Un dolore appropriato. -James Fellow. Sarebbe inutile sprecare un prezioso elemento come te. Un assassino metodico, freddo... una specie di ombra. Perciò, ecco la mia offerta: lavorerai per il Governatorato e servirai la Sua causa. Sarai un uomo libero.- A quelle parole, qualcosa si riaccese in me. Come una piccola scintilla di speranza: potevo andarmene da quel luogo, quindi? Potevo continuare a vivere? E, per farlo, avrei solo dovuto ammazzare qualche sconosciuto su richiesta... era come proporre ad un affamato di partecipare ad un banchetto; come gettare un salvagente ad un uomo che sta affogando. Non esitai ad annuire, a dare il mio più totale consenso: avrei fatto qualsiasi cosa mi avessero chiesto in cambio della libertà. Quello sorrise, annuendo, come se si aspettasse quella risposta -Molto bene. Allora, signor Fellow... Il Corvo... credo che, per qualche giorno, lei sarà un mio onorato ospite. Poi, la prossima settimana, potrà incontrare il suo datore di lavoro.- detto questo, premette un pulsante e una guardia entrò di scatto -Ti guiderà fino ai tuoi alloggi. Spero che il soggiorno qui le sia più gradito rispetto a quello che ha dovuto subire nelle prigioni. Non si preoccupi: qui avrà tutto quello che vuole, cibo, acqua per bere e lavarsi, vestiti... ma se prova a scappare, dovrò ammazzarla. Il che sarebbe un vero peccato.- pronunciò la frase senza che la sua voce perdesse quel timbro gelido, quasi stesse parlando del tempo, o del prezzo del pane invece che di uccidere un uomo. Da allora, ebbi sempre paura di quell'inquietante individuo: Edmund Meryn, il Re Diavolo della Prigione, come lo chiamavano. Non ricordo nulla, poi, di quella notte, solo un gran sollievo. Una specie di senso di liberazione. Passai sei giorni a rimettere insieme la mia personalità, non ancora del tutto piegata; sei giorni in cui Edmund mise alla prova le mie doti di assassino. E scoprii che, forse, quelle che mi aveva raccontato non erano stronzate. All'inizio, non ci credevo... continuavo ad annuire solo per salvarmi la pelle. Ma poi, mi resi conto che DAVVERO ero in grado di uccidere come una macchina, silenzioso; mi ritrovai a muovermi tra le ombre della prigione, non visto da nessuno, scivolando silenzioso di angolo in angolo, a spiare le “vittime” senza che sospettassero nulla, a spegnere la loro vita facendolo passare per un incidente, o utilizzando altre persone che agivano per mio conto. Uccisi in totale sette guardie beccate a sgarrare nei loro compiti e sedici prigionieri. E, proprio con quei sedici, mi resi conto quanto fosse facile manipolare gli uomini: bastava dare a loro un qualche appiglio, promettendo la salvezza e loro si sarebbero anche troncati un braccio; erano così facilmente raggirabili... in soli sei giorni, cambiai. Non ero più lo spaventato uomo, distrutto nel corpo e nell'anima, che arrivò sull'isola. Ero tornato ad essere una macchina di morte, un freddo pezzo di metallo. Tutti si accorsero di quelle morti, spesso scambiandole per incidenti; ma alcuni omicidi li avevo compiuti in modo troppo metodico, accendendo il sospetto che vi fosse un qualcuno che, lentamente, mirava a massacrare tutti in quella dannata prigione. Ma solo il Diavolo sapeva la verità. Stranamente, non vidi più in giro le guardie che quella notte mi avevano portato dal direttore. Venne, infine, il momento in cui uscii da quell'Inferno. Ricordo bene la sensazione di libertà, di sollievo che provai allontanandomi, sul battello a vapore, da quel luogo di cupa disperazione e morte che, anche in un giorno pieno di sole come quello, appariva cupo, tetro, stridente con l'aria frizzante e la bella giornata. Staccai gli occhi da quel luogo, non sopportandone più la vista, rivolgendo lo sguardo altrove, verso la città. Agrova. I suoi palazzi della zona ricca, splendenti e decorati con ogni possibile ornamento, spiccano sopratutto per il contrasto con il decadimento e le rovine dei Quartieri Bassi; è sempre stato così, dopotutto: i ricchi sono tutti parte del Governatorato e, quindi, possono permettersi di costruire qualsiasi cosa, nel lusso più sfrenato; eppure, anche fra tutti quei palazzi sontuosi ed opulenti, è impossibile non notare un'altra costruzione, più imponente, luccicante d'oro: la sede del Magus. A sovrastare la enorme cupola aurea vi è una enorme statua in marmo, avvolta in un mantello che la ricopre del tutto, il cappuccio calato sul volto ed una lancia ben stretta, avvolta dalle fiamme. Il loro Dio: il Sacro. Infine, il battello attraccò al porto; Una macchina ci aspettava già, pronta per partire. Il Diavolo portava un completo bianco, con una cravatta color cremisi: era vestito come se fosse dovuto andare ad una cena di gala. Per me, invece... beh, mi aveva procurato un vestito da assassino-ombra, nero come la pece, con un mantello a coprire la cintura piena di armi di ogni sorta e il cappuccio tirato in testa, a coprire metà del viso. Il viaggio fu lungo, dato che l'autista evitò deliberatamente i quartieri bassi e quelli controllati dal Magus, passando per le ampie e sfarzose vie del Governatorato, dirigendosi verso quell'edificio. La sede centrale del governo della città; una grossa costruzione classicheggiante in marmo, la cui entrata era composta da una imponente scalinata sorvegliata da due grifoni accucciati; il portico antistante alla porta era sorretto da colonne in finto stile dorico... ricordo perfettamente tutto, di quel giorno. Non ci fecero nemmeno aspettare: appena videro il Diavolo, si fecero tutti da parte, conducendolo su per le scale. Ovviamente senza smettere di fare complimenti falsi da puro leccapiedi, che lui non sembrava nemmeno ascoltare: procedeva a velocità sostenuta, salendo un gradino dopo l'altro, finché non arrivammo al terzo piano. Qui, davanti all'entrata del corridoio, sostavano due soldati armati con lunghe spade da combattimento e pistole; se ne stavano ben dritti, pronti ad intervenire in caso di bisogno. Ed effettivamente scattarono appena mi videro, le mani sulle impugnature delle lame; quando, però, giunse subito dietro il signor Meryn, si rimisero sull'attenti. Non parlarono, né si mossero... forse non respiravano neanche. Preferivano rimanere in quel modo, come imbalsamati. Non ci perquisirono nemmeno. Il corridoio era ampio e ben illuminato, con statue in bronzo e oro, vasi antichi e spade esposti in teche locate dentro delle nicchie. Uno sfarzo forse esagerato, certo, ma adatto a quel luogo, il centro del potere della città. Anzi, uno dei centri di poteri: effettivamente ve ne erano due. Il Palazzo del Governatorato e la Cupola del Magus; il problema è che spesso gli interessi dei due si scontravano e raramente si arrivava ad accordi pacifici, perciò l'area ad Agrova era sempre carica di una certa tensione. Il Diavolo si fermò davanti alla porta in fondo al corridoio, l'unica, e bussò. In un secondo venne aperta da un ometto basso e untuoso, probabilmente uno degli impiegati. -Buongiorno, signor Meryn, i miei ossequi; come sta, signor Meryn? Vuole per caso parlare con il signor Fang, signor Meryn? Sarò contento di soddisfare ogni suo desiderio, se è possibile, signor Meryn-. E il Diavolo, senza smettere quell'aria fredda e distaccata, chiese di vedere proprio questo tipo, Justin Fang. Lui annuì, servizievole, e sparì dietro un'altra porta. Il mio accompagnatore si sedette, invitandomi a fare lo stesso con un cenno del capo. Esitante, lo imitai. -Justin Fang è il segretario personale dell'Alto Governatore. È uno degli uomini più potenti della città, secondo forse solo allo stesso Governatore, all'ArciMagus e... a me.- si lasciò andare ad un sorriso compiaciuto -Avrai il privilegio di discutere con lui dei tuoi futuri incarichi-. Annuii. Ma non parlai. Mi sentivo strano, lì dentro: fino ad appena una settimana fa ero un poveraccio senza identità poi, puff, di botto, ero diventato un assassino famosissimo al servizio di un uomo potentissimo. E il bello è che non credevo ancora del tutto di essere davvero Il Corvo. Ma l'incarico che mi avrebbero affibbiato quel giorno mi avrebbe fatto cambiare idea.

  
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