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Autore: Donixmadness    30/07/2012    4 recensioni
Ciao a tutti! Questa è la mia prima fic su Death Note, anime stupendo!! E dato che sono un'appassionata sostenitrice di L (Ryuzaki, appunto) ho voluto dedicare una storia riguardo al suo passato.
La storia di una ragazzina che intreccia i destini di L e Watari .... e che in un certo senso darà un'importante lezione di vita all'impassibile e freddo L. Anche se con ad un prezzo molto alto ...
Perciò recensite, e siate clementi per questa povera pazza!!!
Genere: Introspettivo, Malinconico, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: L, Nuovo personaggio, Watari
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Trascorsero due giorni da quando incontrai la ragazzina, e inizia ad indagare su di lei, ma senza alcun successo. A chiunque chiedessi in giro, nessuno sapeva niente o non voleva dire niente. Le risposte erano sempre evasive, ma più o meno facevano ricorso alla storia raccontata dall’autista.
A qualsiasi persona chiedessi, la reazione era la medesima: si guardavano intorno circospetti e cominciavano a sudare freddo, ma ogni volta rimanevo sempre più sconcertato. Questi uomini in “nero” erano così potenti? Tanto potenti da incutere terrore ad un intero villaggio? Pensai subito alla mafia.
Era un’ipotesi accettabile, ma che cosa avrebbe voluto mai la mafia dal dottor Meynell? E soprattutto chi era in realtà la ragazzina?                                                                                                                                                    
Tutti quei pensieri mi ronzavano di continuo, ma non mi portavano da nessuna parte. Effettivamente non avevo nulla di concreto per le mani, mi mancavano le informazioni.                                                
–Insomma, amico. Mi dici che ti prende??- Micheal interruppe l’arrovellarsi dei mio cervello. Eravamo seduti al bar dell’hotel e da allora non avevo spiccicato parola, perché troppo concentrato a pensare. In realtà, era da quando incontrai la ragazzina che avevo iniziato a rimuginare sulla faccenda, ed era più che normale che Micheal cominciasse ad insospettirsi.                                           
–Allora? – mi intimò a rispondere.                                                                                                                                   
–No, nulla ero solo sovrappensiero … - risposi accennando un mezzo sorriso. Non volevo dirgli ancora nulla, non dopo aver scoperto qualcosa.                                                                     
–Ho visto … - rispose, inarcando il sopracciglio biondo.                                                                                            
–Scusa Micheal, ma ora devo andare … - annunciai alzandomi dallo sgabello.                                               
–Come? Così all’improvviso? E dove te ne vai? – tempestò domande, basito. Effettivamente era comprensibile visto che lo stavo letteralmente piantando in asso.                                                                  
–Scusami ,ma te lo racconterò un’altra volta! – così dicendo presi il cappotto e la valigetta e mi diressi all’uscita. Pensai che trattandosi di un omicidio doveva pur esserci qualche documentazione, magari su un giornale oppure negli archivi della polizia. Dato che dubitavo che la polizia mi desse accesso agli archivi, mi diressi in biblioteca per documentarmi su alcuni giornali del passato.                                                                                                                   
Giunsi lì e mi trovai di fronte ad un modesto edificio, non molto grande ma accogliente per una cittadina come quella. Entrai e chiesi informazioni riguardo alla sezione dei giornali: era l’ultimo scaffale a destra, l’unico ed il solo aggiungerei. Vicino vi era un tavolo con delle sedie per la lettura. Adagiai la valigetta sul legno e cominciai a consultare il dorso di ogni volume. Quella bambina poteva avere all’incirca nove o dieci anni semmai, quindi cominciai a sfogliare dai volumi dell’anno scorso in poi.                                                                                           
All’interno di quei grossi raccoglitori le pagine di giornale erano ingiallite, ma non così tanto da impedirne la lettura. Presi il volume dell’anno precedente, ma non trovai nulla di rilevante. Quelle notizie facevano eco al paese vicino che era poco più grande di Willand, ma riguardo al villaggio nulla se non notizie di sagre e fiere di paese.
Si poteva essere così insensibili e omertosi?                                                                                                                                          
Tuttavia non mi persi d’animo e ricercai nel volume di due anni fa , quello del 1989. Le pagine dei giornali erano disposte in base ai mesi e in ordine rigorosamente cronologico.                                         
Sfogliai le pagine con foga e portando l’occhio su ogni trafiletto possibile, ma ecco che voltando la pagina su un’edizione di settembre trovai ciò che cercavo. La notizia non era in prima pagina, ma sacrificata in un misero trafiletto a destra dove, per lo meno, qualcuno aveva avuto criterio di porre la foto di un uomo. Il titolo era :” Il Dottor Meynell muore improvvisamente con tutta la sua famiglia”.
Quel “muore improvvisamente” non mi sembrava adatto alla situazione. L’articolo diceva che dopo aver ricevuto visita dalle autorità governative il dottor Meynell  uccise sua moglie e suo figlio e poi si tolse la vita. Dopo quanto letto rimasi sconcertato: avevano pubblicato una notizia falsa.
E non corrispondeva al racconto fatto dall’autista, e ciò mi portò a pensare che anche la redazione fosse stata in qualche modo  influenzata da quelle che il giornale definisce “autorità governative”.                                                                
Portai di nuovo gli occhi sull’articolo per leggere il resto. Testualmente c’era scritto: “ Uccide moglie  e figlio e poi si toglie la vita, ma l’unico sopravvissuto è la figlia maggiore. L’unica purtroppo ad aver subito pesantemente gli errori di un genitore“.                                                                                                          
Il volume mi scivolò dalle dita e ricadde sul tavolo con un tonfo sordo. Era vero che non sapevo se la notizia fosse falsa o meno, ma per istinto preferii aver fede al racconto dell’autista. Non potevo credere che avessero avuto una simile faccia tosta  a pubblicare una roba del genere, per lo più di un caso di omicidio accantonato in un articolo di fondo. L’età della bambina non era specificata, ma era palese che quella che viveva nella casa abbandonata fosse proprio quella bambina. Provai a sfogliare altri volumi degli anni precedenti per cercare una qualche notizia sul dottor Meynell, ma niente da fare.
L’unico sbocco era stato quel misero articolo di fondo, nulla più.                                                           
Provai anche a chiedere alla bibliotecaria ma niente informazioni sul dottor Meynell, non avevano alcun dato su quel dottore. Eppure era stato un abitante di quella cittadina, dovevano pur sapere qualcosa! Uscii di corsa da quel posto e ormai l’unico ufficio che mi veniva in mente era l’anagrafe del comune. Arrivai lì col fiatone e per fortuna l’ufficio era deserto.  Mi avvicinai al bancone e quando chiesi del dottor Johan Meynell, l’impiegato increspò un’ espressione a dir poco stranita: tra il sorpreso e lo sconcertato.                                                        
–Perché fa quella faccia?? Cosa c’è non può rispondermi?? Si tratta di una cosa seria!! – per un attimo stavo perdendo le staffe, e battei le mani sul banco di marmo bianco.                                        
L’impiegato abbassò un attimo lo sguardo colpevole, ma alla fine si convinse:                                           
-Se le mostro il fascicolo del dottor Meynell, la prego di non farne parola con nessuno.                     
E dato che lei mi sembra un uomo di fiducia non le chiederò di lasciare il nominativo.                                                              
–La ringrazio … - risposi ansioso di prendere tra le mani la verità. L’impiegato lasciò un attimo la sua postazione per poi ritornare con il fascicolo in mano.                                                                                                                       
Quando lo ebbi tra le mani, sentii come un brivido percorrermi la schiena, ma poi lo aprii con decisione. Dentro c’erano tutti i dati personali del dottore: le sue qualifiche, la data del suo trasferimento a Willand con la moglie, e lì anche i dati dei due figli. La figlia maggiore si chiamava Sarah Meynell. Sarah .
Questo nome  risuonò nella mia mente come il rimbombo di una campana. Subito il lampeggiare abbagliante di due occhi verdi fece luce nel buio dei miei dubbi.
Il figlio più piccolo ,invece, si chiamava Edward Meynell ed era due anni più piccolo della sorella maggiore. A parte i dati personali, e le qualifiche del dottore non c’era nulla di rilevante sull’uccisione.                                                                                                             
–Ma come tutto qui?? – domandai deluso. Tante precauzioni solo per dirmi i nome dei componenti della famiglia! No che non fosse importante ma …                                                                                    
-Mi dispiace signore, anche se in questo ufficio sono contenuti gli archivi della polizia, non mi è concesso far vedere nulla senza l’autorizzazione di un ufficiale di polizia.- rispose stringendosi nelle spalle, con una faccia annichilita. Era la prima volta che mi capitava di trovare persone tanto superficiali e omertose.                                                                                                                                  
Mi arresi all’idea di ricavare altre informazioni e quasi sbattei il fascicolo sul bancone, spazientito.                                                                                                                                                                                       
–Mi dispiace, ma non posso farle accedere senza autorizzazione perché è un ordine che viene dall’alto.                                                                                                                                                        
–Ah, capisco … - risposi noncurante voltandomi. Stavo per andarmene, ma poi all’improvviso mi bloccai di colpo. “Ordini che venivano dall’alto” ripetei nella mia mente.      
A quel punto rivolsi nuovamente lo sguardo a quel ometto dietro al bancone, e lui mi fissava da sotto le lenti ovali. Era come se attendesse qualcosa, oppure come se volesse dirmi qualcosa. Io mi avvicinai di soppiatto e lui fece altrettanto contro il vetro del bancone.                           
–Non conoscevo personalmente il dottor Meynell, ma era un dottore davvero molto stimato un tempo. Ma un giorno, a quel che si dice, ricevette delle minacce.                                               
–Minacce?                                                                                                                                                   
-Sì, non c’è altro temine per descriverle. E da quel giorno stranamente, cominciarono a girare certe voci sul conto del dottore, tanto da perdere la stima degli abitanti del villaggio.                                           
Quegli “uomini in nero”, loro furono a creare tale scompiglio. Tuttavia qualunque cosa fosse il dottore non cedette, e così due anni fa quello che dovevano prendersi, se lo presero con la forza … purtroppo.                                                                                                                                
–Quindi è così che sono andate le cose. E sono stati quegli stessi uomini a … - cercai di concludere, ma l’ometto mi interruppe con un tacito cenno del capo.                                                                                       
–Si sa che cosa volessero? – domandai per approfondire la faccenda.                                                                         
–Magari lo sapessi! La polizia ha insabbiato la questione e hanno archiviato il caso come pluriomicidio e suicidio … - rispose l’impiegato facendo spallucce.                                                                                       
– E della bambina si sa nulla?- domandai con foga, nella speranza di estrapolare qualche informazione in più.                                                                                                                                                                 
–Scomparsa .                                                                                                                                                                                                    
–Come scomparsa?                                                                                                                                 
-In giro si diceva che si fosse trasferita con la famiglia di un amico del dottore, ma di lei non si è saputo più nulla.                                                                                                                                                                         
–Trasferita … - sibilai e l’uomo confermò con l’ennesimo cenno del capo.                                                     
Dopo quell’affermazione rimasi stuccato. Se la storia era vera, allora chi era la ragazzina della casa abbandonata? Dovevo vederci chiaro e due erano le possibilità: o la ragazzina era una ladruncola orfana senza nido, oppure quella era la figlia del dottor Meynell.                               
Ringrazia l’impiegato per le preziose informazioni, e mi catapultai fuori dall’edificio.                                  
Stavo letteralmente correndo, dovevo raggiungere al più presto la casa sulla collina. Mentre mi affrettavo nella mia mente, come la pellicola di un film, si proiettarono le immagini di quella casa, i progetti del dottor Meynell, l’apparizione improvvisa di quella ragazzina che brandiva un arma. Il suo sguardo carico di odio e dolore, sconvolto e minaccioso allo stesso tempo. Possibile che avessero liquidato la questione così, come niente fosse? Possibile che a nessuno importasse la tutela di una bambina di appena 9 anni?? Perché? Cosa aveva fatto di male? Assolutamente niente, eppure nessuno si curava di lei. “Trasferita”, ma a chi credevano di darla a bere?? Ricordai ancora le sue parole : “Siete venuti di nuovo qui!! Che casa volete?’” e  anche “Sei uno di loro!?”. Loro.                                                                                                        
Il quadro era chiaro. Quella bambina non poteva essere Sarah Meynell , lei era Sarah Meynell.
E oltretutto era sola.                                                                                                                          
Stavo correndo a perdifiato, ma non ce la facevo. Sostai vicino ad una fontana arrancando sulle ginocchia. Ero proprio fuori forma!!! Non appena stavo per riprendere quella corsa sfiancante, sentii il rumore di un motore avvicinarsi. Un taxi nero si accostò accanto a me e l’autista abbassò il finestrino.
Quando lo guardai non ci potevo credere: era lo stesso autista della volta scorta.                                                                                                                                                    
–Le serve un passaggio?? – domandò già aprendo la portiera.                                                                       
–Magari – risposi salendo a bordo. Non ci fu bisogno di aggiungere altro, che lui mi disse:                                       
-La collina, vero? – io non dissi nulla, mi limitai ad un cenno accompagnato da un lieve sorriso.                                                                                                                                                                               
Giunsi all’incrocio delle due stradine. L’autista si rifiutò di farmi pagare la corsa e mi disse che lo faceva per una buona causa. La vista di quell’uomo mi fece dubitare del grave giudizio che avevo sentenziato per gli abitanti di quel villaggio. Lo ringraziai e mi avviai a passo spedito in cima alla collina.                                                                                                                                             
Era pomeriggio, potevano essere le quattro e mezza le cinque, e alla fine arrivai. Contai i passi per non far rumore ed evitare che si spaventasse, e peggio ancora brandisse un’altra volta il fucile. Cauto mi avvinai alla porta. Udii dei rumori metallici provenienti dall’interno. Mi avvinai di soppiatto alla piccola finestra impolverata e ad un tratto la vidi. Era seduta alla scrivania, circondata da tutte le scartoffie che vidi l’ultima volta. Aveva il capo chino ed era intenta a  trafficare con qualcosa ,ma non capivo bene cosa fosse. Fatto sta che intravidi la punta di un cacciavite. Pulii il vetro con il palmo della mano per vedere meglio. Era come pensavo: quei disegni così precisi e dettagliati non potevano risalire a due anni fa. I fogli erano troppo puliti e nuovi, ed il tratto poteva decisamente essere sfumato con un semplice dito, perché fresco. Era stata lei a disegnare quei progetti, lei sfogliava quei libri aperti presenti nella stanza. Ed era proprio lei che in quel momento stava costruendo una protesi meccanica. Rimasi a dir poco scioccato, ma tutto quello che avevo visto sino a quel momento cominciava ad avere un senso. La osservai in tutti i suoi movimenti, non persi un passaggio. Il suo era il tocco di un professionista: ogni tanto si fermava a consultare il disegno, mentre alcune volte scriveva delle note accanto alle varie parti. Poi riprendeva di nuovo in mano il cacciavite e assemblava pezzi di metallo  e piccoli bulloni. Era chiaro che quello che stava facendo era solo una brutta copia, come dire. Ad ogni passaggio collaudava i vari movimenti e inseriva dei cavi , gli stessi che costituiscono i freni di una bicicletta. Da quell’angolazione non riuscivo ad avere una visione chiara del progetto, ma era qualcosa al limite dell’incredibile. Non c’era ombra di dubbio: se quella ragazzina era Sarah Meynell, vuol dire che era un genio.                                                                                                              Continuai ad osservarla per tutto il pomeriggio dallo spiraglio di finestra, e la ragazzina continuava interrottamente a costruire e a collaudare senza la minima pausa. Continuò così per tutto il pomeriggio fino alle sei, e alla fine si addormentò sul tavolo con il cacciavite in mano. A quel punto colsi l’occasione per entrare senza far rumore, altrimenti mi avrebbe puntato un altro fucile addosso. Aprii piano la porta illuminando appena la stanza con la luce tiepida di un tramonto d’autunno, e richiusi lentamente maledicendo i cardini cigolanti. La guardai: per fortuna non si era svegliata. Guradingo mi avvicinai alla scrivania: aveva le braccia incrociate sul tavolo, e la testa appoggiata su queste. Il suo respiro era impercettibile e l’espressione assopita dipinta sul viso, mi fece intenerire. Ad un tratto si strinse nelle braccia, come percossa da un brivido di freddo. Già, lì non c’era il riscaldamento e il calorifero non era accesso, chissà come aveva fatto a sopravvivere il precedente inverno, in quella casa … tutta sola … per fortuna all’angolo del muro c’era una coperta di flanella, la colsi e la posai sulle sue spalle. Subito la sua espressione si distese,  e mi parve di scorgere un lieve sorriso da quel viso d’angelo. Approfittando  del fatto che stesse dormendo diedi un’occhiata al suo prototipo. Lo presi tra le mani osservando ogni minimo particolare e tastandolo: era qualcosa di assolutamente incredibile. Una tecnica mai vista prima d’ora. C’erano delle microscopiche pompe d’aria a cui erano attaccati i cavi. Queste erano poste agli angoli di piegatura dell’avambraccio, e  lei ne stava montando altri all’altezza di quello che doveva essere il polso. Era incredibile, nessun inventore era mai riuscito a pensare ad una cosa simile: usare l’aria per i movimenti, o forse i cavi dovevano essere riempiti con dell’olio per motori o con un’altra sostanza viscosa. Era straordinario, sul mio viso era  dipinto puro sgomento. Quella era veramente idraulica applicata al corpo umano. Diedi anche un’occhiata agli altri progetti sulla scrivania: il disegno della mano era semplicemente meraviglioso. Delineato nei minimi particolari, ed ero oltretutto sicuro che fosse opera sua. Il foglio era teso e candido.                                                                                             
Per mia fortuna continuò a dormire per un bel po’, così ne approfittai per sfogliare qualche libro. Era eccezionale che una bambina di appena nove anni leggesse testi tanto complicati e dettagliati. In quella marea di volumi  ne trovai persino alcuni che leggevo io all’inizio della mia carriera.
Mi sedei sul pavimento poggiando la schiena sul muro adiacente, e cominciai a leggere un libro contenente le opere del maestro Da Vinci, con le spiegazioni dell’autore riguardo invenzioni del maestro. Sfogliando le varie pagine notai alcune note scritte a penna sui margini. C’erano alcuni passi cancellati con una netta riga d’inchiostro nero e una freccia che indicava il commento corretto. Non mi sembrava la grafia di un uomo adulto, ma quella piccola e ingombrante di un bambino. Alcune lettere erano, come dire, leggermente tremolanti.
La netta calligrafia di un infante. Andando avanti con le pagine i commenti si moltiplicavano, e la grafia era più evoluta e netta. Il  tratto nervoso di un bambino scrivano, poco più grande. Aveva superato tutte le mie aspettative, e pensare che in un primo momento alcuni passaggi avevano messo in difficoltà persino me. Quella ragazzina era un genio della meccanica. E dato che il padre era specializzato in questo ramo, mi sembrò logico che avesse avuto i primi istinti in tenera età. Finii di sfogliare il libro scrollando velocemente le pagine, quando ad un tratto il vento prodotto da quel movimento fece cadere sul pavimento un pezzo di carta bianco. Lo colsi e ne tastai la rigidità: era una fotografia. La girai e rimasi semplicemente a bocca aperta.
Era allibito, stuccato e soprattutto, mi pervase un senso di tristezza e di angoscia. Era una sensazione viscerale che alla fine mi trafisse il cuore come un pugnale.                                                                                     
Una bambina e un bambino. Sorridenti, spensierati,vivaci. La bambina poggiava le mani sulle spalle del fratello. Il bambino ,invece, sollevava il braccio, come per gridare un “Urrà!”.                                                   
Ma solo quel braccio. L’altro non c’era.                                                                                                               
Ed ecco che risolsi, a malincuore, il mistero della protesi meccanica. Non era un eventuale progetto da presentare a una qualche commissione internazionale, era semplicemente per quel bambino. Edward Meynell monco del braccio sinistro.                                                                                      
Un mugolio riscosse il vorticare dei miei pensieri: la bambina si stava svegliando. Subito riposi la foto tra le pagine del libro, che chiusi frettoloso con due dita.                                                          
Mugugnò ancora qualcosa finché non aprì gli occhi. Erano così cristalline le sue iridi verdi.                                                           
Quando si svegliò del tutto, quasi non le venne un colpo nel trovarmi lì:                                                                            
-E tu che diavolo ci fai qui!!?? – urlò cadendo dalla sedia, e muovendo il braccio a tentoni in cerca di qualcosa.                                                                                                                                                                             
–Il fucile è dall’altra parte – la informai, e a quel puntò credo che si maledì per aver lasciato la sua sicurezza dall’altra parte della stanza.
Una bambina non dovrebbe sentirsi sicura con un fucile in mano, per quanto possa essere intelligente ed esperta.                                                               
–Si può sapere che ci fa lei qui? – domandò rialzandosi e riprendendo la sua compostezza.                                      
–Dimmi una cosa – proruppi ignorando la sua domanda – perché hai usato delle piccole pompe, invece che delle valvole o dei bulloni?                                                                                                        
-Bè, perché le valvole e i bulloni sono materiali troppo pesanti e impediscono i movimenti, invece le pompe d’aria captano i segnali nervosi e li trasmettono lungo i cavi. Così è più facile, no? – rispose in automatico, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Ma poi si accorse della sua loquacità e avvampò di colpo.                                                                                                         
–Ma … ma  un momento!! Come fa a sapere tutte queste cose??!!! … Si è permesso di prendere tra le mani il mio progetto??  Come si è permesso?? – farfugliò parandosi davanti alla scrivania e impedire che guardassi oltre.
Io sospirai, quella ragazzina era davvero testarda!!                                                                                                                                                     
-Si può sapere chi le dà il diritto di entrare qui? Guardi che anche se si è presentato noi non ci conosciamo affatto!! – sbraitò, presa dal nervosismo.                                                                                                                         
–Io ho il diritto di entrare qui, perché non credo alle chiacchiere di paese.                                                                           
–Che cosa vuole dire?? Che ha fatto ricerche sul mio conto? – domandò sospettosa, e ci aveva azzeccato in pieno.                                                                                                                                                       
–Sì, mi dispiace ma io non me la bevo la storia del suicidio.- dissi serio.                                                                                                
Lei abbassò il capo e strinse i pugni infervorata.                                                                                                                        
–Perché insiste tanto?? – domandò con un filo di voce – CHE COSA VUOLE DA ME???                               
-Solo aiutarti.                                                                                                                                                                                      
–Aiutarmi ..- ripeté con una punta di  ironia – Che sciocchezze!!! Nessuno può aiutarmi … Per questo preferisco rimanere qui, almeno la mia esistenza non sarà un peso per gli altri! Non voglio commettere lo stesso errore che ho fatto con i miei genitori e mio fratello!!! – urlò infine, sollevando il viso rigato da lacrime di rimorso.                                                                                      
–Che vuoi dire ?? Come “errore” ? – domandai stupito, c’era qualcosa che non sapevo ancora.                                                                                                                                                                                                                              
–Allora, visto che è tanto curioso glielo spiego io, si sieda e ascolti questa bella storiella. Oramai, dato che è giunto sin qui avrà capito che io sono la figlia del dottor Meynell.                                                         
–Bene, raccontami la tua storia – la esortai mestamente.                                                                                                
–D’accordo, ma apra bene le orecchie, perché non intendo ripetere tutto una seconda volta– mi intimò rude passando la manica della felpa sul viso, per asciugare rapidamente le lacrime trasparenti che non voleva mostrare.                                                                                                                                              
–E’ successo tutto due anni fa. Eravamo una famiglia che viveva felice  e serena in questa casa, che ormai oggi cade a pezzi. E’ stato quel maledetto giorno di due anni fa, a cambiare la mia via vita per sempre! Mio padre, il dottor Meynell era un uomo molto stimato e rispettato dal villaggio, sia per le sue competenze che per la sua affabilità. Aveva una grande passione per il suo lavoro e vivevamo dei soldi ricavati dai suoi progetti. Facevamo la classica vita delle famiglie degli inventori. Già da prima che nascesse mio fratello si dedicava anima e corpo alla costruzione di arti artificiali, ma quando nacque mio fratello portare a termine il suo progetto diventò la missione della sua vita. Infatti,  a  causa di una malformazione genetica, mio fratello nacque con un braccio solo. Nonostante fosse un bimbo molto piccolo, notava differenze rispetto agli altri bambini. Anche semplicemente guardando noi, capiva subito dove stava la diversità: noi due braccia, lui uno solo.                                                       
Tuttavia, riuscii comunque ad adattarsi alla sua situazione e giocava come un bambino normale, e io lo proteggevo dai dispettosi che si permettevano di prenderlo in giro e da tutte le male lingue. Sì perché in questo paese la gente è ignorante e meschina, e soprattutto è repellente.
Comunque finché papà lavorava al suo progetto, nulla era impossibile.
Ce l’avrebbe fatta a costruire un braccio nuovo a mio fratello. Perfino io ne ero convinta, tanto che mi dilettai a leggere i suoi libri comprendendoli senza alcuna difficoltà. Decisi di aiutare mio padre e lui notando il mio impegno, con sua sorpresa, mi accolse come aiutante dicendo che ero un piccolo “genio”.
Non mi sentivo un genio, ma stranamente si sparse la voce del progetto di mio padre il quale aveva chiesto aiuti ad una commissione per finanziare la sua opera. E alla fine a metà del lavoro, due anni fa arrivarono loro. Io captai solo alcune frasi della conversazione, ma non riuscii a capire bene cosa volessero.
Da quel giorno mio padre divenne nevrotico, e soprattutto mi proibì di aiutarlo ancora, liquidandomi con la scusa che ero una bambina e che era preferibile che giocassi all’aperto, invece che stare rinchiusa nel suo studio con lui. Passava giornate intere nel suo studio, a volte saltava i pasti e rimaneva sveglio tutta la notte. Ma la sua foga di finire quella maledetta protesi lo portò a diventare più isterico di quanto non lo fosse già.                                                           
Anche la mamma era più taciturna, e anche se non contestava l’operato di mio padre aveva sempre un’espressione malinconica quando guardava me e mio fratello. L’aria in casa era diventata insopportabile, ma alla fine quello stesso anno ritornarono di nuovo. In realtà io non ero in casa, perché io ed Edward eravamo andati a giocare in paese con qualche bambino del villaggio.                                                                                                                               
Edward  li  vide, ma non mi disse niente quello stupido marmocchio! E senza che io me ne accorgessi, perché intenta a capire cosa stesse succedendo in casa mia, lui lì seguì fino a casa. Quella fu l’ultima … l’ultima volta che lo vidi ancora in vita … perché … poi … - la sua voce tremava, non riusciva a trattenere i singhiozzi. Da quegli occhi cristallini scesero copiose lacrime a rigarle il viso. A come tirava su col naso sembrava che le bruciassero violentemente le gote. Io le porsi un fazzoletto, ma lei sviò lo sguardo e si asciugò ancora con la manica sporca della felpa.                                                                                                                                                       
–E’ bastato solo un attimo che le vite dei miei cari mi sono scivolate dalle dita, così come nulla fosse … Come un dannato sapone … Quando mi accorsi  che mio fratello era andato via chiesi agli altri bambini, e loro mi dissero che era ritornato a casa perché aveva dimenticato una cosa. Stava per piovere e corsi immediatamente a casa, ma nella strada in gruppo, sorpassai quei dannati uomini in nero. Portavano delle sacche con loro, forse erano le custodie per le armi ma in quel momento non capii nulla. Dovevo solo tornare a casa. Corsi su per la collina e quando entrai: buio. Li chiamai ma non rispondevano. Non c’era nessuno. Provai ad accendere l’interruttore, ma non funzionava.                                                                                                 
Io la guardavo con un’ansia mozzafiato, e la cosa più terrificante e che mentre raccontava i suoi occhi limpidi si oscuravano di rancore puro.                                                                                     
–Si chiederà che fine avessero fatto, eh? – sorride mesta – Le basti sapere che appena feci un passo qualcosa di denso e bagnato mi cadde sul viso.
Con l’oscurità non vedevo nulla, ma ci pensò un fulmine ad illuminare la stanza. Appesi al soffitto penzolanti e coperti di sangue c’’erano i miei genitori.
Mi accorsi che tutta la stanza aveva spruzzi di sangue dappertutto e segni di tagli  nei muri. Non lo so che … che arma avessero usato , però … gli hanno mutilati!!! Urlai tra le lacrime come non avevo mai fatto prima. Mi ricordo ogni minimo dettaglio … vomitai persino e speranzosa corsi a cercare mio fratello. Trovai la porta del ripostiglio crivellata, l’aprii e trovai mio fratello esanime seduto per terra come un pupazzetto. Lo scossi ma senza successo non si svegliò mai più … il resto lo può immaginare. La richiesta di aiuto in paese e la polizia . Sono stati quegli uomini … QUEI BASTARDI CON LA GIACCA NERA!!!!!! – urlò infine con il viso completamente bagnato, mentre alcune ciocche si attaccavano sulla pelle umida, a causa dello scuotere imperioso del capo. Io ero allibito da un racconto simile.
La trama di un film dell’horror.                                                                                        
Delicatamente allungai la mano per asciugarle il viso con il fazzoletto di stoffa. Lei si ritrasse un attimo, ma poi si ammansì al mio gesto. Le porsi il fazzoletto e lei lo prese in mano:                                          
-Grazie – fu la prima volta che vidi quegli occhioni arrossati esprimere gratitudine.                                                                      
– E così sei rimasta qui per tutto questo tempo? – domandai abbastanza stranito.                                                                  
–In realtà, per un periodo di tempo ho vissuto con un compaesano amico di mio padre e la sua famiglia. Tuttavia l’anno scorso si trasferirono, ma io non li seguii. Il signor Veteran insistette ma io, non andai con la sua famiglia.                                                                                                                               
–Perché?                                                                                                                                                             
-Se avessero saputo che ero con loro, probabilmente avrebbero fatto la stessa fine della mia famiglia. Ci avrebbero uccisi tutti, e poi sarei stata di troppo visto che sia moglie che figli erano abbastanza scettici nei miei confronti, e si tenevano a distanza. Tuttavia l’intero villaggio sa che io mi sono trasferita con loro, quindi il ladruncolo che va in giro a derubare è un’altra persona. Una canaglia, come dicono loro- concluse a capo chino, mentre i capelli le nascondevano il volto.                                                                                                                                                        
–Non hai mai pensato che se rimanessi qui, potrebbero anche venire a prenderti? Se conoscevano tuo padre significa che conoscevano anche tutti i membri della sua famiglia.
Se davvero gli hai incontrati per strada quel giorno, allora perché non ti hanno uccisa? – le mie domande retoriche avevano il preciso scopo di farle arrivare alla mia stessa conclusione. Lei prendendo coscienza di ciò che intendevo dire, spalancò gli occhi allibita.                                       
–Non … può essere … - sibilò rauca, mentre le cornee divenivano lucide.                                                                 
–Probabilmente, era te che cercavano – conclusi amaro. Sarah ricadde sulle ginocchia, come priva di forze. Si guardò le mani tremanti angosciata, come se fosse inorridita da se stessa. E alla fine, come era prevedibile, scoppiò in un pianto dirotto coprendosi il viso con le mani. Per quella povera anima,  io non potei far altro che inginocchiarmi e metterle una mano sulla spalla. Alla fine riuscì a farsi abbracciare, ma in modo tenue e distaccato. Doveva superare tutto da sola, io non potevo fare niente.                                                                                                 
Passò qualche minuto e alla fine, rassegnata, smise di piangere.                                                                             
– Perché? – proruppe ad un certo punto, seduta sul pavimento con le ginocchia alte –Perché lei è qui? Perché vuole aiutarmi?                                                                                                                               
- Perché non sopporto le ingiustizie –le risposi semplicemente. A quel punto mi lasciò di stucco: sorrise. Per la prima volta mi sorrise, in modo sincero e spensierato.
Il sorriso luminoso e bellissimo di una bambina.                                                                                                                                          
–E pensare che le avevo quasi sparato!!! – concluse, direi divertita.                                                                               
–Bé, mi hai messo davvero paura!! – risposi scherzosamente, sorridendo di rimando.                                                                    
–E nonostante questo … lei vuole davvero aiutarmi?                                                                                            
-Sì – confermai convinto, mettendo a disposizione tutta la mia fiducia. Lei timidamente allungò la mano aperta ad attendere la mia:                                                                                                                   
-Allora meglio che ricominciamo da capo – disse flebilmente, con una punta di imbarazzo.                
- Ciao io mi chiamo Sarah. Sarah  Meynell. Ma forse lei sa già il mio nome- quella bambina era più acuta di quanto pensassi. Tesi la mia mano e strinsi amichevolmente la sua.                                    
–Io sono Quilish Wammy, piacere di conoscerti – a quel punto ci scrutammo e sorridemmo entrambi.                                                                                                                                                                                                                          
Trascorse una settimana e per tutto quel tempo io le feci visita ogni giorno portandole da mangiare, così  avrebbe evitato di rubare. Alla fine dissi tutto a Micheal, poiché continuava a punzecchiarmi con la sua insistenza.
Ma gli feci promettere di non farne parola con nessuno. Nonostante fosse un po’ scocciata all’idea di vedermi tutti i giorni, Sarah mi apriva ugualmente e mi accoglieva nello studio del padre. Lei mangiava e viveva lì, perché diceva che se fosse entrata nella casa si sarebbe ricordata del sangue.
Dopotutto era pur sempre una bambina.                                                                                                                                              
Le mostrai alcuni miei progetti di cui lei ne rimase entusiasta. Ed era davvero interessante per me ascoltare le sue opinioni. Sembrava davvero di parlare con un mio pari e anche la descrizione del suo progetto, suscitava l’emozione dell’inventiva che mi pervadeva da giovane. Anche a lei brillavano gli occhi quando parlava.                                                                              
Decisi che dovevo portarla con me alla Wammy’ s House : era l’unico modo per toglierla dalla strada e coltivare il suo talento.
Nel profondo del suo cuore voleva scoprire chi fossero quegli uomini e rovinarli di conseguenza. Un atto come quello era imperdonabile, comprendevo appieno il suo risentimento.
Ma rimanendo lì non avrebbe concluso nulla, così alla fine le proposi di venire con me. All’iniziò fu  un po’ spaventata all’idea, doveva affrontare l’ostacolo più grande di tutti: lasciare il nido, il suo passato ed andare avanti.                                                            
Le parlai dell’orfanotrofio speciale che avevo fondato, le assicurai che lì sarebbe stata al sicuro e che avrebbe approfondito tante nuove materie.
Per una mente come la sua sarebbe stato il paradiso, per come era avida di sapere.                                                                                                                         
All’inizio non era convinta ma poi le lasciai un po’ di tempo per riflettere. Sapevo che era forte e che avrebbe preso la decisione giusta.                                                                             
Quando ritornai il giorno dopo, senza neanche che lo domandassi di nuovo lei aveva già deciso:                                                                                                                                                                          
-Wammy … - disse folgorandomi con le sue pozze verdi, sature di determinazione – Ho deciso!! Verrò con te!! – e poi sorrise soddisfatta.                                                                                                                 
–D’accordo , allora domani partirai con me.                                                                                                                                
Il giorno della partenza arrivai alla collina in taxi, e diedi un ultimo sguardo alla casa ma per mio grande stupore stava divampando.
Fiamme alte si ergevano in cima alla collina.
L’autista fermò di colpo l'auto, io scesi in preda alla disperazione percorrendo a falcate la salita, ma quando giunsi lì tirai un sospiro di sollievo.
Sarah era lì davanti a guardare la sua casa trasformarsi in cenere. Io mi accostai a lei, ma non le dissi niente.                                                          
–E’ giusto così Wammy – proruppe leggendomi nel pensiero. Mentre nei suoi occhi si rifletteva il danzare delle fiamme espandersi in ogni angolo dell’edificio. Aveva soltanto un bagaglio con sé ed aveva indossato i vestiti che le avevo portato. Sembrava un’altra persona, nessuno l’avrebbe mai riconosciuta.
Rimanemmo lì in silenzio ad attendere la pioggia ormai imminente, intanto vapori solfurei si ergevano verso l’alto intingendo le nubi temporalesche di rosso.
Parevano striature demoniache, rosse come il sangue.                                                                                       
Sarah tirò fuori dalla tasca la fotografia che avevo trovato nel libro, la guardò un attimo velata dalla tristezza.  Ma poi la gettò tra le fiamme, le quali l’accolsero in un abbraccio scarlatto.                                                                                                                                                       
–Ma , sei sicura? – replicai.                                                                                                                                               
–Sì. Io non dovrò più tornare qui, se devo ricominciare devo farlo come si deve. E poi , puoi stare tranquillo, io non mi dimenticherò mai di mio fratello e dei miei genitori. Sarà un nuovo inizio.                                                                                                                                                                 
Attendemmo della pioggia, che non tardò a cadere e ad estinguere pian piano le fiamme. Quando arrivammo alla stazione stava poco a poco spiovendo e il nostro treno era in dirittura di arrivo.                                                                                                                                                                                            
–Però non è giusto Quilish! – protestò Micheal –Tu te ne vai in dolce compagnia mentre io resterò da solo a prendere il prossimo treno.                                                                                      
–Non ti preoccupare!! Ci rincontreremo presto e poi sai che lei ormai è la mia assistente!!                                            
Stranamente in quel momento notai il poliziotto dell’altra volta aggirarsi con il fruttivendolo e il panettiere.                                                                                                                                                                                          
–Come agente! Ancora in pattuglia?? – domandò Micheal.                                                                                                                                                                                                                                              
-In realtà, stavamo perlustrando la zona nel caso trovassimo il ladruncolo. Anche se è un po’ di tempo che non si fa vedere!!                                                                                                                                                 
-Certo che siete proprio ossessionati da questo ragazzino!!- proruppe Sarah, catturando l’attenzione dei presenti. Era irriconoscibile però …                                                                          
-Signor Wammy, chi è questa ragazzina? La conosce?? – mi interrogò il panettiere, squadrandola dall’alto in basso.                                                                                                                         
–Lei è  la mia assistente – risposi in maniera naturale. Tuttavia quel terzo grado non durò a lungo perché la sirena del treno aveva annunciato il suo arrivo. Salutammo i presenti, e salimmo sul vagone. Sarah però continuava a fissare fuori dal finestrino assorta, poi sussegui un altro fischio del treno che ne annunciava la partenza. Immediatamente la ragazzina aprì il finestrino sporgendo il capo fuori.                                                                                                                                                      
–Ehi!!! Signor panettiere!! Signor fruttivendolo!!!! Ed anche lei poliziotto!! – urlò ad un certo punto e quelli lì si voltarono – E’ inutile che mi cercate!!!  Tanto non mi prenderete mai!!! BLEAHHHH!!!!! – concluse facendo le boccacce. I tre rimasero di sasso e intanto il treno partì, lasciando i bracconieri con un pugno di mosche in mano. Mi parve anche di sentire dei latrati e delle urla da lontano, e intanto Sarah era ritornata a sedersi nella sua postazione. Incrociò le braccia soddisfatta, mentre io rimasi con un “ma” sulla punta della lingua.                                  
–Adesso ho un motivo in più per non ritornare più in questo villaggio!!                                                                
Io con la mano mi tappai la bocca trattenendo le risa.                                                                                                          
–Piuttosto Wammy, dimmi. Hai detto che tutti i bambini dell’orfanotrofio usano dei soprannomi con lei iniziali dei loro nomi. Hai idea di quale sarà il mio?                                                                                    
- Bé, in realtà si deciderà al momento,ma non penso di saranno problemi ad ammetterti con le doti che ti ritrovi e poi … ho già pensato al soprannome da darti.                                                  
–Ah , sì?? E qual è?? – domandò con gli occhi che le brillavano.

 

-Shiro – sibila Watari immerso nei ricordi dischiusi dalla fotografia. Sorride quasi divertito ripensando a come l‘aveva fatta pagare a quegli uomini tanto stupidi ed ottusi. Sospira, per ritornare alla realtà:  deve portare i dolci a Ryuzaki. Prende il vassoio e va via.
La porta blindata si richiude alle sue spalle.




                                                                                                     
  
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