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Autore: Dernier Orage    30/07/2012    1 recensioni
Seguito di No Human Can Drown.
Michelle richiedeva le coccole del padre quanto Louise tendeva ad esasperarlo. Forse era genetico oppure una questione di abitudini; Annik Alunir, la nonna delle bambine, trovava come spiegazione la massima “non si sa quale forma possa prendere un desiderio, può manifestarsi in un figlio concepito pensando involontariamente ad un’altra persona” – Stéphane era certo che la madre se la fosse inventata. Quando andava a prendere a scuola la figlia minore tendeva ad accontentare ogni sua richiesta di soste lungo i giardini, tazze di cioccolata calda alla ricerca di un café che le accompagnasse con un piattino di caldi churros.
Genere: Generale, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'No Human Can Drown '
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Your Smile and the Other Lies





Canale di musica classica, lirica e sinfonica, canale di musica pop, commerciale ed elettronica, canale di musica rock e canale news; Louise adorava lasciarsi incantare dalle voci dei presentatori, dei giornalisti, uomini senza volto che delicatamente e appassionatamente introducevano le canzoni, voci ammalianti, sconosciute, ironiche, infuriate, veloci e sbiascicate, a volte, altre monocorde. O le musicassette jazz, rock psichedelico, registrazioni da concerti, new wave, sperimentale. “Il sole è una stella, le stelle sono cieche” recitava una voce affranta, Louise l’aveva trovata in una cassetta nascosta tra dei libri, non riusciva a riconoscerla, non riusciva a vedere ma percepiva ogni sensazione.
Mollare gli ormeggi, naufragare, allontanarsi dal tutto dichiarandolo. Il cielo, la terra, gli animali, i sentimenti, alla fine dell’inventario non trovare nulla, trovare il nulla. E rimanerne turbati.
Louise spostò l’archetto delle cuffie da sopra la nuca fino a nascondere gli occhi, per coprire i bagliori della lucina notturna della sorella e i chiarori che filtravano dalle persiane, divisa su due piani di luce, dal pavimento al soffitto.
Scese dalle scalette del letto a castello, il walkman nella tasca della vestaglia lilla. Aveva provato imbarazzo a chiederlo in regalo come tutte le compagne di classe e si era sentita un po’ speciale a non aver ricevuto un lettore portatile di CD, come le altre, ma un walkman, così avrebbe potuto tenerlo in cartella o in tasca e ribaltandolo o scuotendolo avrebbe continuato a sentire la musica, non c’era il rischio che il disco perdesse l’asse interrompendo l’ascolto o rovinandosi.
Il corridoio nella calda penombra; l’illuminazione azzurrina del bagno, due barchette di carta nel lavabo.
Un giro di ricognizione alla ricerca di passatempi, la porta della cucina chiusa, i soliti disegni dell’asilo e delle elementari in corridoio, la luce soffusa dietro la tenda della sala. Il padre che sorseggiava the e fissava lo schermo del computer, le pupille scorrevano da destra a sinistra, ogni tanto batteva qualche tasto, un ticchettio rumoroso e discontinuo.
- Sei sveglia?- Le disse a bassa voce Stéphane, il riflesso azzurro del computer contro le lenti spesse degli occhiali.
- Evidentemente.- Sbiascicò Louise sedendosi sul divano. La lampada di carta di riso traballò sullo stelo d’ottone, come un fiore sgraziato, un papavero albino, nero e rosso, nero e bianco.
- Non riesci a dormire? Ho registrato un documentario sulla Seconda Guerra Mondiale, può interessarti?- Il padre alzò lo sguardo stanco, il conforto della bevanda calda nella mano sinistra.
- Prima dell’interrogazione, sì.- Louise recuperò il telecomando per guardare la durata della videocassetta. C’era stato un periodo in cui aveva preferito rimarcare di essere nata a Londra e il non considerarsi completamente tedesca ma meno della metà. Una vergogna insita, spontanea, avvilente, catastroficamente accentuata alle spiegazioni del padre sul collaborazionismo francese. Col tempo aveva capito il continuo cadere in discorsi politici degli adulti e l’accettazione di visioni ripetute di documentari simili con nozioni identiche, era un modo come un altro per convincersi di non c’entrare niente con il passato ma non essere indifferenti.- Volevo parlare di nonno Jean.-
- Non avresti molto da dire; è nato a Vientiane, Laos, all’epoca Indocina.- Le rispose sorpreso Stéphane, aveva dato per ovvio che la figlia lo sapesse, continuò:- Non so che lavoro facesse suo padre, se ufficiale od ufficioso… comunque ha frequentato le scuole internazioni tra figli di diplomatici e di aristocratici laotiani. Non ebbero particolari problemi con l’occupazione giapponese. Louise, io i particolari non li conosco ma sicuramente Ismaël sarà contento di raccontarteli.-
Stéphane temette che la figlia volesse svegliare Ismaël perché Louise apparve curiosa e delusa di non poter sapere tutto subito, ma lei domandò con un’aria solenne: - Stai lavorando?-
- Evidentemente.- La canzonò il padre reprimendo un sospiro di sollievo.

Michelle adorava gli elefanti e il color verde menta. Amava il the aromatizzato ai frutti di bosco, le compagne della squadra di basket della sorella, il ricordo di un bambino italiano che si chiamava Tobia ed aveva incontrato l’estate prima, al campeggio con la nonna – aveva anche una sorella di nome Camilla, ma lei aveva appena quattro anni e mordeva tutti. Michelle indossava un costumino color ciliegia e la nonna le faceva una treccia disordinata legata con un fiocco di raso, una maglietta del padre come vestito, gli occhi a riempirsi di immagini da raccontare al telefono con i genitori. Divideva le vacanze nei finesettimana fuori città, ad Annecy, in Haute-Savoie; le vacanze estese, l’estate passata a Brest con la nonna seguendo i suoi ritmi e orari lavorativi o un paio di volte un campeggio sul Mediterraneo e le vacanze propriamente dette, San Pietroburgo, Berlino, Ulan Bator, Amsterdam, alla ricerca di qualcosa di indefinibile, una percentuale di vita indigena e le tracce dei grandi viaggiatori del passato, fotografi di buona famiglia, avventurieri, pittori o scrittori. I viaggi si concretizzavano nella preparazione dei bagagli ma cominciavano nelle discussioni letterarie e nelle necessità del padre di vedere ciò che avrebbe descritto, conoscere e scoprire luoghi, modi di vivere, cucine straniere, piccoli particolari. Parole dai significati dolci, virgole o punti di domanda che papa leggeva mormorando piano e fingeva che non derivassero da lui e non tornassero a lui come i raggi di una poesia, la rifrazione o la pioggia.
- E’ l’inquadratura sbagliata, è totalmente sbagliata!- Si lamentava Stéphane guardando le sedie sparse per la sala e la sciarpa allungata e composta sul tappeto come una chiazza di sangue. Le luci del pomeriggio combattute con le tende tirate e i soli bagliori delle lampade a riflettersi in ombre sul muro.
- Potresti cominciare da sotto il cadavere. Parlare del sangue che si raffredda e secca?- Provò a suggerirgli Ismaël per poi scuotere la testa, per niente convinto e quasi deluso.
- Ma se mi corico così sembro morta?- Esclamò Michelle con la bocca spalancata, gli occhi chiusi, le gambe e le braccia asimmetricamente disposte sul pavimento, i capelli mischiati alle frange della sciarpa rossa.
- Sì, quindi non coricarti così.- La gelò il padre preso dalla furia lavorativa. Erano due mesi che tentava di scrivere qualcosa ma non vi riusciva. Parole, parole, nessun senso compiuto. Eccessivi arzigogoli da limare, concetti e la totale assenza d’azioni.
- Volevo solo aiutare.- Borbottò la bambina cercando di scappare in cameretta; Ismaël la trattenne afferrandole una mano e facendola sedere sul divano.
- Shell, grazie. Grazie, sul serio, ma sono nel difficile.- Provò a spiegarsi Stéphane inginocchiandosi davanti a Michelle, guardandola dal basso, specchiandosi in degli occhi dello stesso castano liquido ed un’espressione corrucciata.
- Resta qua.- Mormorò Ismaël accarezzandole i capelli. Adorava quella bambina, il modo acuto in cui rideva o come stringeva i pugni e piegava le labbra da arrabbiata. I lineamenti simili a Stephane, le stesse movenze. I disegni che voleva fossero appesi in corridoio, la valigia sempre pronta, la richiesta di sapere quando si sarebbe partiti ogni volta che sentiva nominare una città nuova.- Lascialo parlare; raccontami… cosa hai fatto a scuola?-
- Sono caduta e mi sono fatta male!- Spalancò gli occhi la bambina; l’intero pomeriggio a giocare, ballare sulle canzoni ascoltate dalla sorella che parlavano di gelosia e di guerra, di danze che sollevavano la sabbia del deserto o l’acqua nera del mare del Nord; si era dimenticata. Sollevò la manica della felpa e una gamba dei pantaloni per mostrargli un gomito ed un ginocchio dove il rosso scuro del sangue rappreso e il rosso brillante e chiaro del mercurocromo si mischiavano e macchiavano a vicenda.- E poi abbiamo parlato di geologia ed io sapevo già tutto sui sedimenti.-
- La vaschetta di gelato con la ghiaia e la sabbia dunque è servita.- Commentò Ismaël pensieroso volgendo inconsciamente lo sguardo al davanzale del camino, dove fino ad un mese prima erano allineate le scatole con i piccoli esperimenti, i germogli dei fagioli e delle lenticchie impigliati nel cotone umido, le bacchette di legno con gli accenni di cristalli di zucchero ed un leggero alone azzurrino dovuto al colorante alimentare.
- Sì! Ho raccontato tutto alla maestra e lei ha promesso che presto lo rifaremo in classe.- Sorrise Michelle ondeggiando i capelli da un lato all’altro, tra le mani nuovamente una trottola di carta colorata come la luce nella risata.

- Intendo, non sono vecchio sul serio.- Accennò Ismaël dal volto imbronciato, gli occhi stanchi e lo sguardo fisso. Aveva disegnato dei cerchi nell’acqua per farla defluire dalla vasca; il rumore era stato un leggero sciabordio frammentato ed un suono sordo creato dal vuoto. La sua schiena riflessa nello specchio era lattea e costellata di nevi color caffelatte.- Insomma, non sono vecchio e basta. Ho quasi trentanove anni, non sono vecchio, cedermi il posto sulla metro è un affronto.-
- Maël, amore, non hai mai avuto problemi simili, no? Non è un problema. Insomma, non riuscire a scrivere è una questione seria, non qualcuno che fa un gesto gentile.- Ismaël non rispose e lo guardò a lungo con un’espressione indecifrabile. Stéphane sentì un leggero disagio e la voglia di esplodere ed esternare tutto, la guerra e la gelosia, l’atrocità dei secondi, il battito degli orologi come di animali vivi, dai titoli alla pagina degli interni, dalla cronaca nazionale allo sport nel telegiornale. Non sarebbe durato a lungo, era rabbia e consolazione passeggera, mancavano le parole per ferire e altre volte ci sarebbero state e avrebbero fatto male. Provò a tendere una mano ed accarezzalo sull’avambraccio, dal gomito al polso, la pelle ancora umida.- Ismaël, io ti venero, ti adoro. Così ti adoro. Sono innamorato di te.-
- E’ così falso, però non è un problema. Solo… non dirlo.- E fuori pioveva e sembrava non finire mai, l’asfalto pregno d’acqua non riusciva ad assorbirne altra e nei canali ai bordi delle strade scorrevano dei ruscelli veloci e gelidi; la luce delle lampadine tremava sotto il chiarore dei fulmini ed il fragore dei tuoni. La voce di Ismaël era apatica e monocorde, gli occhi nel vuoto, l’espressione decisa a non mostrare niente e a non farsi catturare da nulla, sdegnosa; somigliava ad una statua di marmo levigato che contro luce mostrava le trasparenze e le imperfezioni.
Per Stéphane il suo volto e i suoi movimenti erano d’una particolarità bizzarra, un ventaglio di estremi, l’aria divertita e le maniche arrotolate a scoprire le spalle punteggiate di nevi o lentiggini estive, l’alterità e l’impenetrabilità in presenza di sconosciuti e i guanti ripiegati infilati a caso nella tasca del cappotto di panno o tessuto spigato, la connotazione canzonatoria utilizzata nei confronti del padre o dei clienti in negozio, dall’ex presidente, a cui chiedeva consigli riguardo ai permessi comunali per mettere una rastrelliera per le biciclette fuori dalla libreria, all’anziana signora che cercava di ordinare i libri scolastici per il nipote, il ragazzo che canticchiava sulle note di una canzone di Alain Bashung alla radio. Il tono sofferente con cui cercava di spiegare a Louise la contraddizione della vita, parlandole della pena di morte e di quanto fosse sbagliata, eppure se qualcuno avesse fatto del male a lei o a sua sorella, lui, lui l’avrebbe ammazzato e poi sarebbe andato a costituirsi.
Stéphane amava il mezzo sorrisetto sulla bocca di Ismaël, amava i suoi occhi feriti e bisognosi od immensi ed autarchici; lo sguardo straziato e sublime.
- Io non sono così.- Bisbigliò Stéphane cercando di infondere nelle parole la stessa dolcezza che gli ricopriva le pupille nel guardarlo. L’attenzione, la mollezza e il timore di ferirlo del sesso, quando Ismaël gli prendeva le mani tra le sue e le stringeva sul petto, sulle spalle, alla ricerca di graffi e di segni indelebili; Stéphane portava sempre le unghie corte per limitare l’entità delle sottili e rosse ferite.
- Io neanche. Non dovrebbe importarmi così tanto.- Confessò Ismaël sfuggendo alla vista sotto il cotone di una maglietta grigia.- Eppure fa male.-
- Potremmo… ballare!- Stéphane cercò di distoglierlo tenendolo per i gomiti e stringendoselo contro, barcollando sulle piastrelle del bagno come, nel ricordo, sul ponte di una nave in una tratta nel mar Nero, davanti alle coste della Crimea, assecondando le onde immaginarie e dense nel movimento oscillatorio dell’imbarcazione.










   
 
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