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Autore: Beatrix Bonnie    02/08/2012    4 recensioni
-Seguito de Il torneo Trecolonie-
Edmund, ormai figlio adottivo del Presidente della Repubblica Magica d'Irlanda, si lascia alle spalle il suo passato, per diventare Edmund McPride, un giovane ambizioso, bello e pieno di talento. Ma presto dovrà fare i conti con la realtà: l'uomo in cui ha riposto la sua fiducia si rivelerà essere un meschino arrivista, mentre il suo passato verrà a bussargli alla porta nel giorno del suo diciassettesimo compleanno. Un misterioso orologio d'oro con le lancette ferme, una setta di folli scienziati, un codice impossibile da decifrare...
Ma quando, tra il clima di terrore e le sconvolgenti rivelazioni sul suo passato, Edmund non riuscirà più a vedere la luce, nel suo orizzonte si staglierà l'unica cosa certa: l'amicizia di Mairead e Laughlin.
Genere: Avventura, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Il Trinity College per Giovani Maghi e Streghe'
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CAPITOLO 13
La magia del Natale






Edmund atterrò in malo modo su un terreno duro e umido. Gli venne da vomitare e non sapeva se era colpa della Materializzazione a cui non era ancora del tutto abituato o per il fatto che aveva appena scoperto di essere stato ingannato dall'uomo in cui aveva riposto tutta la sua fiducia.
Pioveva in quella zona dell'Irlanda, una pioggia fitta e senza pietà che lo ridusse in poco tempo in un fagotto di abiti bagnati. I contorni del paesaggio erano resi sfuocati dallo scrosciare dell'acqua, per cui Edmund non riusciva a distinguere bene dove fosse arrivato, ma fu immediatamente certo che quello non era il pittoresco paesino di Boyle: l'oscurità avvolgeva quella che sembrava la costa frastagliata di un lago, mentre alle sue spalle gli alberi longilinei di una foresta di conifere tendevano i loro rami spogli al cielo plumbeo.
Poteva ipotizzare di essersi materializzato nei pressi di Lough Key, il lago vicino a Boyle, che aveva visitato qualche volta quando aveva passato l'estate a casa di Mairead, però non ne aveva l'assoluta certezza. Un conto era materializzarsi dentro la Sala Mor, un altro era attraversare tutta l'Irlanda per raggiungere la casa della sua amica.
Che poi, quanto era stato stupido a pensare che Mairead l'avrebbe accolto a braccia aperte! Era appena scappato da un uomo che aveva chiamato padre per tutti quei mesi, mentre lui tramava alle sue spalle per lasciare l'Irlanda nelle mani di un gruppo di fanatici assassini; e Mairead aveva sempre avuto ragione su tutto.
Come avrebbe potuto presentarsi a casa sua come se niente fosse? E la Vigilia di Natale, per di più.
Magari lei nemmeno c'era: avrebbe potuto essere a festeggiare dai nonni oppure, semplicemente, poteva voler passare il Natale con suo padre, senza intrusi. Tanto meno se si trattava di un traditore come lui, che si era schierato con McPride e, implicitamente, con i maghi che avevano fatto uccidere sua madre. E che l'anno scorso avevano tentato di uccidere lei.
Per la prima volta in vita sua, Edmund ebbe una gran voglia di piangere. Seduto sul suo baule, bagnato fradicio, senza sapere dove fosse né dove andare, tradito dall'uomo in cui aveva riposto la sua fiducia e a sua volta traditore dei suoi amici, si sentiva come se tutta la sua vita fosse appena andata in pezzi. Si prese la testa tra le mani e pensò che piangere fino a morire di stenti poteva essere un buon modo per espiare le sue colpe, quando una voce alle sue spalle lo fece trasalire.
«Ehi, giovanotto, che succede?»
Edmund si voltò, la mano che schizzava veloce verso la tasca del mantello dove teneva la bacchetta. Alle sue spalle era comparsa una donna con una allegra faccia tonda cosparsa di efelidi, un grembiule a fiori e un abito lungo; aveva una massa di capelli rossi che, in un qualche modo, terminavano in una treccia. Era l'incarnazione di tutti i cliché a proposito delle donne irlandesi.
A pelle, Edmund credeva di potersi fidare di quella sconosciuta, per cui rilassò la presa intorno alla bacchetta. «Io... nulla» mormorò sconsolato.
«Che ci fai qui sotto l'acqua tutto solo?» chiese ancora la donna, premurosa come solo una madre poteva essere.
«Sono scappato di casa» cedette alla fine Edmund. Era stato un gesto davvero stupido, a pensarci. Ora la donna l'avrebbe tempestato di domande e avrebbe fatto in modo di riportarlo da McPride.
«Be', non si può stare soli la Vigilia di Natale» se ne uscì invece quella, con un gran sorriso. «Vieni, entra» lo invitò poi, indicando alle sue spalle un carro chiuso a forma di botte, che prima non c'era.
Edmund rimase immobile per secondo: il buon senso gli diceva che non era una brillante idea fidarsi del primo sconosciuto che ti invita da qualche parte ma, in fondo, era solo e disperato, per cui pensò che peggio di così non potesse andare. Così seguì la donna dentro il carro. La prima cosa che percepì fu la luce: troppa e troppo forte; e poi il chiacchiericcio diffuso, il pianto di un neonato e rumori di stoviglie. Quando i suoi occhi si abituarono alla luminosità, si accorse di essere entrato in un salotto decisamente più ampio di quanto ci si sarebbe aspettati osservando il carro da fuori: le pareti gialle erano conche, per seguire l'andamento del carrozzone; in un angolo, era stato piazzato un enorme albero di Natale, che sembrava sul punto di far esplodere la stanza, ai piedi del quale, oltre a mille pacchetti regalo di tutte le dimensioni, si trovava un tavolino con un presepio in cui le statuine si muovevano come se fossero state vive. Al centro del salotto, reso soffocante dalla quantità di mobili che vi si trovavano, c'era una enorme tavolo rotondo, attorno al quale era seduta una famiglia allargata.
«Ecco, gente, questo è...» cominciò la donna, ma si interruppe, perché non sapeva il suo nome.
«Edmund» completò il ragazzo, sentendosi totalmente fuori posto.
La signora, invece, sorrise come se fosse la cosa più naturale del mondo invitare alla cena della Vigilia un perfetto sconosciuto. «Io sono Rosemary» si presentò, poi si voltò verso la tavolata. «Questo è mio marito Gearoid, mio figlio Joshua con sua moglie Juliette e il figlioletto...» cominciò a dire, indicando di volta in volta le persone di cui diceva il nome.
Accennando con il capo ad un signore dall'aria arcigna, che fumava la pipa come se da quel gesto dipendesse la sua sessa vita, Rosemary disse: «Quello è mio fratello Archie, il cugino Erbert -e questa volta presentò un giovanotto pallido e allampanato, con due profonde occhiaie violacee e l'aria smorta- la nonna, la mia piccola Yaiveinee e mio figlio Rohiall».
Nel momento stesso in cui Rosemary citava i familiari, Edmund aveva già dimenticato i loro nomi. Oltre ad essere fortemente in imbarazzo per la situazione in cui si era cacciato, si sentì scombussolato dalla caotica presenza della strana famiglia: gli parve di essere appena stato buttato in una vasca per i piranha senza alcuna protezione.
Non solo Rosemary, ma anche tutti i presenti sembravano la rappresentazione folcloristica di ogni cliché sugli Irlandesi, fatta per compiacere qualche turista: capelli rossi, lentiggini, bonaria allegria, abiti decisamente fuori moda e tanto whisky.
Molto whisky.
Almeno sei bottiglie; e il ragazzino di nome Rohiall se n'era appena versato un po' nel bicchiere.
«Siediti pure con noi, Edmund» lo invitò quello che doveva essere il padrone di casa, di cui ovviamente non ricordava il nome. Garrot? Gary? Mah...
L'uomo, comunque, fece comparire una sedia con un veloce movimento della bacchetta e la posizionò a tavola con perfetta tranquillità. «Io... ehm...» borbottò il ragazzo, contemplando i suoi abiti fradici e poi tornando a guardare la tavolata con un certo imbarazzo. «Ma sei tutto bagnato!» esclamò allora la bambina dal lunghissimo nome impronunciabile, indicando con il suo dito paffuto i vestiti di Edmund.
«Ehm...» fu l'unica cosa che riuscì a dire il ragazzo.
«Oh, giustocielo!» se ne venne fuori Rosemary, battendo le mani come se avesse appena avuto una grande rivelazione. «Rohiall, aiuta Edmund a portare di là il baule e dagli degli abiti asciutti» ordinò poi, rivolta al figlio.
Quello, un ragazzino con i capelli rossicci e l'aria allegra, si alzò da tavola con un gran sorriso e lo condusse attraverso un minuscolo corridoio in un'altra stanza piccola e soffocante, dove ci entravano per miracolo tre letti. «Vieni» lo invitò, aprendo una cassapanca ed estraendone una camicia di lino e un paio di pantaloncini irlandesi.
«Ehm... grazie» borbottò Edmund, accettando gli abiti con un certo imbarazzo. Si sfilò i suoi con estrema lentezza, sentendosi un idiota per il disagio che gli causava spogliarsi di fronte ad un altra persona, per di più totalmente sconosciuta: l'aveva sempre odiato anche quando stava all'orfanotrofio.
Per fortuna Rohiall era tutto intento a cercare chissà cosa nella cassapanca. «Comunque, non ti devi spaventare per il caos che c'è di là» borbottò, la testa infilata sotto il coperchio. «Ti ci abituerai presto: io è quindici anni che ci convivo!»
Edmund, che poco si preoccupava del blando tentativo di offrire conforto, fu invece colpito dall'informazione finale. «Scusa, ma quanti anni hai?» gli chiese, per conferma.
«Quindici» rispose Rohiall, rivolgendogli un sorriso da sotto il coperchio della cassapanca.
«Ma non frequenti il Trinity?» domandò ancora: non che Edmund pretendesse di ricordarsi tutte le facce della scuola, ma l'altro avrebbe dovuto sapere almeno vagamente chi era lui. Insomma, il nome Edmund McPride era sulle labbra di tutti, un giorno sì e l'altro pure. Rohiall scosse la testa. «Oh, no. Io vengo istruito a casa».
Edmund registrò l'ultima informazione e mise in moto il suo cervello: tratti folcloristici esasperati, famiglia allargata, vivevano in un carro e educavano i figli a casa. «Siete Lucht Siuil!» realizzò soddisfatto.
Rohiall sí interruppe, lo guardò e poi scoppiò a ridere.
Per i primi secondi, Edmund si chiese se avesse detto una grossa cavolata, o se avesse appena fatto una qualche figura barbina. Eppure la sua analisi gli pareva corretta. Per quel poco che avevano studiato a Magicologia Irlandese, i Lucht Siuil erano nomadi irlandesi di cui esistevano sia comunità Babbane sia magiche; queste ultime si rifecevano ancora alle antiche tradizioni druidiche, tanto che i ragazzini non ricevevano la bacchetta magica fino alla maggiore età, quando loro stessi se la costruivano.
Non appena Rohiall si riprese dalla risata, lo guardò come se avesse appena visto un ufo. «Sì, siamo Lucht Siuil» confermò con un cenno del capo. «Ora vorrai squagliartela, immagino».
«Oh, no affatto!» si affrettò a rispondere Edmund. «Mi è sempre piaciuto imparare nuove tradizioni».
Rohaill gli rivolse un gran sorriso. Era buffo come riuscisse a sorridere e mostrare tutti i trentasei denti con una totale naturalezza; gli si mettevano in risalto le guance cosparse di efelidi, mentre gli occhi si trasformavano in gioiose falci di luna. Era l'incarnazione dell'allegria.
«Comunque, sul marasma che c'è di là, ti posso dare qualche dritta» commentò il ragazzino, in tono risaputo.
Edmund fece un cenno d'assenso con il capo, allora Rohiall cominciò a spiegare: «Non contraddire mai zio Archie, perché è convinto di essere l'unico possessore di una verità rivelata, per cui lui ha sempre ragione. E non ti preoccupare se ti guarda con sospetto: lui guarda così chiunque. Stai lontano dalla nonna, perché con gli anni si è un po' rimbecillita ed è convinta che il mattarello sia la sua bacchetta, perciò quando vede che non funziona per fare magie si arrabbia; ma non è grave finché stai fuori dalla portata del suo braccio» e con quelle parole mimò il gesto di qualcuno che dà un bastone in testa ad un altro.
«Non assecondare la mia sorellina Yaiveinee nei suoi giochi, perché altrimenti non ti molla più, e non dare troppa confidenza neanche al cugino Erbert» riprese a dire; poi si fermò meditabondo e aggiunse: «Che poi non è davvero mio cugino e sospetto che sia un vampiro... Comunque! Mamma ha un po' troppo la mania del comandare, mentre papà è a posto. Il figlio di mio fratello Joshua piange tutto il giorno, ma per il resto lui e sua moglie sono tipi tranquilli. Questo è quanto».
A quella serie infinita di istruzioni, Edmund non poté evitare di ridacchiare.
Anche Rohiall sorrise divertito, poi tornò improvvisamente serio e riprese a frugare nella cassapanca alla ricerca di chissà cosa. «Eccoli!» esclamò quando riuscì nell'impresa. «Sono puliti, eh!» confermò, lanciando due calzini appallottolati a Edmund.
Il ragazzo li osservò con occhio critico, poi commentò: «Ma... sono corti».
Rohiall rimase un attimo perplesso, poi notò la lunghezza dei calzettoni bianchi dell'altro e le sue raffinate scarpine nere disegnate su misura, e scoppiò a ridere. Quando si fu ripreso, spiegò: «Noi Lucht Siuil non indossiamo quella roba. Noi portiamo gli stivali» e con quella tirò su il piede sinistro per mostrare quanto aveva detto. Per poco non cadde a terra, a causa di quella complicata operazione, ma quando si rimise in piedi sfoderò uno dei suoi sorrisi stellari. Dopodiché lanciò a Edmund un paio di stivali perché li indossasse. «Questi erano di mio fratello Josha: dovrebbero andarti bene» stimò, valutando a grandi linee la sua altezza.
Edmund si infilò le calzature che gli aveva prestato Rohiall e gettò una veloce occhiata al suo riflesso sullo specchio: si trovò di fronte un bel ragazzo alto, con una camicia di lino, un paio di pantaloncini marroni e degli stivali vagamente pirateschi. Quello non era più Edmund McPride: era Edmund e basta, Edmund il Lucht Siuil, pronto a festeggiare il Natale con la famiglia più caotica che avesse mai conosciuto.
Il cenone della Vigilia fu totalmente assurdo per gli standard di Edmund: tutti parlavano, raccontavano qualcosa, mangiavano i piatti succulenti preparati da Rosemay, bevenao whisky e intonavano canti di Natale. Era impossibile aveva una conversazione normale con uno dei commensali, perché qualcuno interveniva sempre per dire la sua, oppure si veniva interrotti da un vassoio di stinchi che ti volava davanti al naso, o ancora una delle fatine vive che erano state messe a decorazione dell'albero di Natale ti piombava nel piatto.
Edmund non aveva mai passato una cena come quella: all'orfanotrofio era tutto un pianto e urla di marmocchi, al Trinity o chiacchierava con Mairead oppure si ingozzava alla svelta per andare in biblioteca e quelle con suo padre... con McPride, si corresse mentalmente, assomigliavano più a cene di lavoro tra due dirigenti d'azienda. Mentre sulla piccola roulotte gialla sembrava di essere catapultati in una nuova dimensione in cui ogni gesto era una festa, ogni parola gioiosa, ogni sorriso un raggio di sole. Edmund si ritrovò a pensare che, se mai avesse avuto una famiglia propria, avrebbe voluto fosse come quella di Rosemary: allegra e caotica.
Al termine della cena, quando ormai mancava poco a mezzanotte, la padrona di casa fece alzare tutti da tavola e li fece riunire davanti al presepio. Poi, con un sorriso materno, mise in mano alla figlia la statuetta di un neonato. «Il più piccolo della casa è ancora troppo piccolo, quindi tocca a te far nascere Gesù bambino» mormorò, indicando con un cenno del capo la capanna del presepe.
La piccola Yaiveinee sgranò gli occhi e osservò la statuetta con un sospiro reverenziale. Poi, tutta emozionata per il compito che le era stato affidato, depositò il Gesù nella mangiatoia e si mise a mani giunte per una preghierina. Sembrava tanto uno di quegli angioletti che si vedono disegnati sulle cartoline di auguri di Natale.
«Caro Gesù bambino, proteggi tutta la mia famiglia, perché gli voglio tanto bene» recitò la bambina. Poi lanciò un'occhiata fugace alle sue spalle e aggiunse: «E proteggi anche Eddy, che voglio bene anche a lui».
Edmund si sentì avvampare come se fosse stato buttato nel fuoco, senza un incantesimo Freddafiamma a proteggerlo. L'innocenza di Yaiveinee l'aveva messo in imbarazzo: sebbene sapesse che era solo una bambina, e di solito i bambini non si fanno molti scrupoli a dire quello che pensano, era la prima volta che si sentiva accettato senza che qualcuno gli facesse domande sulla sua origine familiare, sui suoi voti a scuola o su qualsiasi altra cosa. Semplicemente, l'avevano accolto così come era.
E poi era una strana sensazione sapere che qualcuno pregava per lui: era qualcosa di molto intimo, eppure di una potenza ancestrale. Lo faceva sentire bene.
Pensò che avrebbe potuto passare tutto il resto della sua vita in quella roulotte gialla insieme alla caotica famiglia di Rosemary. Forse era un po' una fuga, ma non voleva tornare nel mondo reale per affrontare i suoi demoni: McPride che l'aveva tradito, l'EIF, il ritorno di Voldemort e la sua stupida cotta per Mairead. Tra i Lucht Siuil, invece, non c'era nessuno di quei problemi, perché era come vivere in un'altra dimensione, dove la tragica realtà non poteva insinuare i suoi tentacoli.
Era il suo personale paradiso e non sarebbe mai andato via.







Lo so, è a dir poco scandaloso. Avevo promesso questo capitolo quasi un mese fa, ma ho avuto una serie di problemi di diversa natura che si sono accumulati. Chiedo umilmente venia a tutti coloro che hanno aspettato l'aggiornamento per tutto questo tempo!
Comunque, eccoci qui tra gli Irish Travellers o Lucht Siuil che dir si voglia (QUI la pagina di wikipedia a loro dedicata): questo episodio era programmato da secoli, e non per niente ho disseminato le storie di indizi sui Lucht Siuil; QUI l'immagine che rappresenta la famiglia di Rosemary, con Rohiall al centro.
Nel prossimo capitolo (che pubblicherò, salvo intoppi, entro il 15 agosto), vedrete Eddy in versione spaccone... be', insomma, vedrete! ;)
Grazie per la vostra pazienza,
a presto!
Beatrix

   
 
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