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Autore: Pick    02/08/2012    3 recensioni
Il 20 novembre era arrivato anche quest'anno, portando con sé quel pizzico di tristezza. Ma forse non tutti i 20 novembre sono così negativi. Forse alcuni di questi possono portare delle novità inaspettate.
Piccolo avvertimento: questa è la mia prima Fan Fiction. Secondo avvertimento: in questa storia sono tutti umani (non esistono vampiri, licantropi, ecc). Terzo avvertimento: buona lettura!
Genere: Drammatico, Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Alice Cullen, Jasper Hale, Nuovo personaggio | Coppie: Alice/Jasper
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Capitolo 23.

 

I giorni trascorsi in carcere erano piuttosto monotoni. Vi era qualche aneddoto interessante ogni tanto, ma per il resto era tutto fin troppo noioso e ripetitivo. Grazie all'aiuto di Maria, ero riuscito ad accettare anche gli altri carcerati. Dovevo ricredermi, non erano tutti ammassi di muscoli pronti a far del male al prossimo. E per capirlo ci riuscì anche grazie ad Alan. Dovettero passare un po' di giorni prima che mi decidessi di fargli qualche domanda. Per le prime volte, mi limitavo a rispondere gentilmente alle sue domande e niente altro. Ma poi un giorno fui spinto dalla sua storia e facendomi coraggio gli domandai:

« Perché sei qui? »

Ricordo che mi guardò sorpreso e che esitò per qualche istante. Ma dopo un po' raccolse le idee e senza aggiungere altro, mi raccontò per filo e per segno quello che gli era accaduto. Era un padre, aveva un figlio e la sua donna da amare. Un giorno qualunque durante una partita di baseball, suo figlio si è sentito male e, dopo averlo porto al pronto soccorso, gli hanno diagnosticato un problema al cuore. Non era il problema dell'assicurazione che fortunatamente loro avevano, ma il costo dell'operazione in sé. Alan non aveva tutti quei soldi per aiutare suo figlio. Che cosa doveva fare? Rimanere immobile e guardarlo morire.

« Così ho deciso di rapinare una banca.. »

Rimasi tutto il tempo in silenzio, catturato dal suo modo di raccontare le cose. Ammirando l'amore che riponeva nelle parole rivolte a suo figlio e a sua moglie. E l'odio nei suoi confronti, per aver lasciato che la situazione gli sfuggisse di mano. Era una persona buona, gentile, e ritrovandosi davanti alla scelta di dover rapinare una banca, la tensione di chi aveva preso in ostaggio non giocava a suo favore. Non voleva uccidere nessuno, voleva solo incutere paura. Ma la cosa gli sfuggì completamente quando uno di questi cominciò ad usare parole pesanti nei suoi confronti. Talmente pensanti che Alan preferì non raccontarmi.

« E gli ho sparato.. Ma credimi, se tornassi indietro la pistola la punterei contro di me.. »

Quella fu l'ultima frase che sigillò completamente quell'argomento. Da quel momento in poi non gli avrei più chiesto nulla a riguardo. Ma quel sigillo però, segnava l'inizio di una specie di amicizia nata dietro le sbarre, nata dal suo aiuto a farmi capire che non tutti lì dentro erano uguali. Certo, vi era chi doveva marcire, ma altri che erano lì per amore, o come aveva detto Maria, per donare la libertà a qualcuno privandosi della propria.

Col passare dei mesi e degli anni, cambiò anche il direttore del penitenziario. Al posto dell'ormai vecchio direttore, prese posto un ex poliziotto che avrà avuto su una quarantina d'anni. Era molto più umile rispetto a quello precedente. Manteneva comunque lo spirito di direttore di un carcere, doveva pur sempre far capire che nessuno doveva mettergli i piedi in testa, ma si vedeva dal suo sguardo che un po' ci teneva. Ci teneva che noi tutti non perdessimo la speranza e la voglia di vivere. Che una volta usciti da lì, potessimo avere la possibilità di cominciare una nuova vita. Così una delle prime cose che fece al suo arrivo, fu quella di inserire nuovi progetti per le attività all'interno del carcere. Chi possedeva una buona condotta, per esempio, gli era concesso di partecipare a delle attività di cucina svolte in associazione con una scuola. Capitava forse una volta al mese, ma da alcuni veniva ben accettato. Eh certo, perché se da un lato c'era chi lì dentro apprezzava lo sforzo del nuovo direttore, ovviamente c'era anche chi non riusciva a sopportarlo e che preferiva la sua morte piuttosto che vederlo nei corridori.

Erano passati ormai cinque anni da quando ero arrivato lì dentro. Era una giornata di maggio ed il sole, anche se un po' debole, riusciva comunque a riscaldare la pelle. Quel giorno era mio compito partecipare all'attività di giardinaggio assieme ad Alan e ad altri quattro ragazzi. Ci avevano lasciato un quadrato di giardino da curare, ovviamente controllati da cinque poliziotti. Loro ci controllavano sempre. Era da un paio di settimane che i poliziotti erano piuttosto.. Tesi. Facevano sempre più spesso controlli nelle celle per controllare che i carcerati non si procurassero oggetti non autorizzati ed io, in un primo momento, non ci feci poi così tanto caso. Ma la verità arrivò quel stesso giorno. Ne avevo sentito parlare, ma non avevo mai preso in considerazione quel fatto con serietà.

Stavo tagliando l'erba, quando ad un tratto vidi due pullman della polizia fermarsi davanti all'entrata del carcere. Attorno vi erano una ventina di uomini armati fino ai denti con al loro fianco, l'affidabile compagno a quattro zampe. Un'altra decina di poliziotti si misero lungo il cancello d'entrata fino all'ingresso, dove poi ci sarebbero stati altri poliziotti ad attendere i detenuti.

Il vecchio carcere fuori città, era stato considerato inagibile da qualche settimana. Giusto il tempo per organizzarsi e poi i detenuti, sarebbero stati trasferiti nel nuovo penitenziario.

Ed eccoli lì.

Guardai i nuovi arrivati scendere dal pullman. Avevano le mani legate e con passo lento si avvicinavano a quella che sarebbe diventata la loro nuova dimora. Continuavo a fare il mio lavoro, guardandoli di sfuggita, non soffermandomi più di tanto sui loro volti. Ma accadde purtroppo.

Lo vidi scendere quei gradini svogliato in una maniera assurda. Aveva un passo più spedito rispetto agli altri, e quando si affiancava ad un uomo, questo si faceva da parte, come se avesse paura di un suo possibile attacco. Spensi la macchina per tagliare l'erba e raggelai all'istante. I suoi occhi ghiaccio trafiggevano chiunque incontrava e la sua stazza spiccava rispetto agli altri.

Non può essere, non può essere..

Continuavo a ripetermi quelle parole, incapace di muovere un solo muscolo. Il respiro cominciò a diventare affannoso e tutto attorno a me divenne assente. C'eravamo solo io e lui.

Lo guardai quando si avvicinò ad un uomo che tentò la sorte non spostandosi. Lo spinse via con un colpo di spalla che lo fece finire contro un poliziotto. Mi sentì mancare quando ciò che vidi, fu reso ancora più nitido da una voce di una delle guardie che urlò:

« Hale! Evita di fare danni ed entra dentro! »

Lo spinse via, evitando una lite che sarebbe cominciata all'istante.

Lo aveva chiamato Hale? Quindi era proprio lui?

Il suo volto, con quel ghigno malefico, seduto sul bordo del letto, mentre mia madre moriva in un lago di sangue. E la sua voce agghiacciante, le sue ultime parole che udì da lui: “Sei già a casa, Jasper? “

Mi sentì ancora peggio. Il respiro divenne ancora più corto. Mi sentivo come se tutto si fosse chiuso contro di me, come se tutto ad un tratto fossi diventato claustrofobico. Feci qualche passo all'indietro, sperando che allontanandomi dalla rete riuscissi a prendere più aria.

« Jazz? Tutto ok? »

La voce di Alan mi parve così lontana che non risposi nemmeno. Afferrai il colletto della maglia e con tutte le forze che avevo cominciai ad allargarla strappandola nella speranza di più ossigeno. I poliziotti che ci controllavano corsero all'istante, ma quando mi raggiunsero per chiedermi che cosa avessi, sentivo già la terra umida accarezzarmi il volto e tutto ad un tratto, il buio totale.

 

 

 

Una luce era puntata contro i miei occhi e forse fu proprio quella luce a farmi svegliare. Sentivo un forte dolore alla testa, ma con quel silenzio sospetto mi alzai con malavoglia. Quando aprì gli occhi la luce dell'infermeria era ancora più fastidiosa.

« Ti sei svegliato.. »

La voce di Dianna fu un sussurro, come se già sapesse che tutto sembrava più amplificato. Mi voltai appena verso di lei, notando che non era sola, ma che assieme a lei c'era una ragazza un po' più giovane. Forse una specie di apprendista.

« Mi fa male la testa.. »

Dissi mettendomi a sedere. La testa cominciò a girarmi ancora un po'.. Forse un po' troppo.

« Ti conviene stenderti ancora un po'.. »

Senza obbiettare feci quello che mi ordinò sentendomi decisamente meglio.

« Che è successo? »

Dianna spiegò alcune cose alla ragazza che era sempre al suo fianco. Di preciso non so di cosa stessero parlando, ma quando la collega uscì dalla stanza, l'infermiera mi si affiancò e guardandomi rispose alla mia domanda, ponendomene un'altra:

« Attacco di panico.. Vuoi dirmi che è successo? »

Fu quella domanda che riportò alla luce quella scena infernale. Non che le immagini fossero poi così nitide. Sembrava quasi che si trattasse di un incubo fatto almeno una settimana fa e che a malapena riuscivo a ricordare. Facendo leva con gli avambracci mi alzai a fatica, sconfiggendo con tutte le mie forze quei giri della testa.

« L'hanno portato qui.. »

La mia voce era un sussurro, appena udibile. Dianna conosceva la mia storia, del perché di tutte quelle cicatrici e non dovetti aggiungere altro quando mi affrettai a chiarirle ciò che è successo:

« Mio padre.. »

Fu difficile dire quella parola. Da quando mia madre se ne era andata, e ancora da prima, non lo chiamavo in quel nome. Non poteva essere un padre. Un padre non trattava in quella maniera i suoi figli, ma soprattutto, un marito non avrebbe mai fatto una cosa del genere. O per lo meno, una persona normale non avrebbe fatto nulla di tutto quello che Lance aveva fatto.

Dianna rimase in silenzio qualche istante, incapace di dire o fare qualcosa. Passarono una ventina di secondi quando mi disse che le dispiaceva, ma purtroppo lui c'era e bisognava affrontare di petto il problema.

Tutto ad un tratto la porta bussò e prima ancora che Dianna desse il suo permesso, la porta si spalancò ed il direttore del penitenziario fece il suo ingresso, affiancato da un poliziotto. Guardai quest'ultimo, che mi fissava come se stesse analizzando una bestia. Al contrario del signor Gray. Mi fissò una sola volta e, notando il fastidio che mi dava il tizio accanto a lui, lo congedò spiegandogli che poteva andare. Bé di certo non avevo possibilità di vincere contro di lei. Secondo me era il direttore più grosso che abbia mai visto. Quasi quasi era grande come Emmett.

« Che è successo? »

« Pare attacco di panico.. »

Dissi alzando semplicemente le spalle come se nulla fosse. Ma quella risposta sembrò non andargli a genio. Ma era quello che Dianna mi aveva detto!

« Chi è il tuo fornitore? »

Corrugai la fronte, guardando per qualche istante Dì. Non capivo, che stava dicendo?

« E' da tanto che sei entrato nel giro? »

Sparava domande a raffica, ed io non capivo a cosa si stesse riferendo. Avevo visto quello che doveva essere mio padre, e non mi ero sentito bene.. Non poteva essere una scusa valida?

« Signore io.. Io non capisco.. »

Ero sincero e forse Gray riuscì a intuirlo dal mio sguardo. Si zittì tutto ad un tratto e guardò Dianna, in cerca di una risposta e di una conferma. Lei si alzò in piedi, abbozzando appena ad un sorriso e si affrettò a dire:

« Signore, Jasper non fa uso di nessuna droga. Quel mancamento è dovuto ad una specie di attacco di panico.. »

Seriamente credeva che potessi farmi di qualcosa? Certo, possibilità di comprarla lì dentro erano più alte rispetto a quelle di Forks, ma non mi era mai saltato in mente di farne uso. Mai!

Mi guardò sorpreso, rendendosi conto solo in quel momento che la sua teoria non poteva avere solidi fondamenta.

« Credevo.. Credevo che fossi nel giro della droga. Ci saresti stato d'aiuto per fermarlo.. »

Leggevo nei suoi occhi il dispiacere per avermi additato senza nemmeno indagare. Forse fu proprio il suo sguardo a farmi capire che in realtà non era un menefreghista. In realtà ci teneva a farmi capire che gli dispiaceva. Distrattamente, guardando verso il basso, annuì con un cenno della testa sentendo a malapena la sua frase:

« Se posso fare qualcosa fammelo sapere.. »

Impiegai un bel po' di secondi prima di riuscire a materializzare quelle parole. Gray si alzò dalla sedia su cui era seduto, e con passo lento si avvicinò alla porta. Fu quando aprì la porta che mi resi conto di aver bisogno del suo aiuto.

« Aspetti! »

Si fermò all'istante e mi guardò sorpreso dalla mia voce che tutto ad un tratto aveva acquisito forza.

« Sanchez. Lui sa fin troppo del giro di droga.. »

La mia voce persa di potenza, fu quasi un sussurro, ma che non sfuggì a Gray. Sbatté più volte le palpebre, forse sorpreso da quella mia frase. Lo era anche Dianna, di certo fare il canarino e spifferare tutto alla polizia mi avrebbe messo nei guai.

« Ti stai mettendo nei guai ragazzo.. »

Sfoderai un sorriso malinconico scendendo dal lettino su cui ero seduto. Oh, non avevo bisogno che me lo sottolineasse. Mi avvicinai a lui, con passo lento e calibrato, mentre il mio sguardo inchiodava il suo. Il poliziotto lo affiancò, allarmato e pronto ad ogni possibile mio attacco. Ma non era quella la mia intenzione. Mi fermai davanti al direttore e cancellando quel sorriso sul mio volto risposi:

« Lo so, ma ho bisogno del suo aiuto.. »

 

 

Dovevo ringraziare Gray per avermi concesso questa libertà. Non avrei mai pensato di farcela, ma la mia informazione sullo spaccio di droga nel penitenziario sembrava avergli aperto gli occhi. Continuavo ad essere nel limbo del non sapere che cosa fare. Non sapevo se avevo fatto una giusta scelta, ma sentivo che dovevo farlo, che dovevo affrontare il problema e non deviarlo come ero solito fare. Non ne avevo parlato con nessuno, soltanto col direttore. Tutti erano all'oscuro di tutto. Era una mia scelta, e a quanto pare diventava ancora più complicato rendersi conto che forse stavo sbagliando. Che cosa avrebbe detto Rosalie quando quel pomeriggio lo avrebbe saputo? E soprattutto, Alice, che cosa avrebbe detto?

Forse mi stavo facendo troppe paranoie mentali, ma le mani continuavano a sudarmi in uno stato di pura preoccupazione. Ma continuavo a camminare senza mai voltarmi all'indietro. Attraversavo le porte del carcere coi due poliziotti al mio fianco. La gente mi osservava sorpresa nel vedere un carcerato varcare luoghi destinati a chi era libero, a chi veniva lì soltanto poche volte a settimana per far visita a qualcuno. Ma non potevo farmi intimidire in quella maniera. Dovevo tirare fuori tutto il coraggio ed affrontare il momento.

« Avrai una ventina di minuti a disposizione.. »

Annuì alle parole sussurrate dal poliziotto. Era una possibilità concessa a pochi, e cercavano in tutti i modi di non far capire nulla.

Quando mi trovai davanti, in fondo al corridoio una porta rossa, cominciai a contare i passi.

Uno, due, tre..

Il poliziotto alla mia destra aumentò i passi portandosi davanti a me.

Quattro, cinque, sei..

L'altro poliziotto afferrò le manette che mi tenevano legati i polsi dietro la schiena. Ma il senso di libertà che di solito provavo senza quelle, ora sembrava completamente assente.

Sette, otto, nove..

Mi fermai quando potei allungare la mano e sfiorare quella fredda porta di metallo.

« Rimarremo fuori.. Ma controlleremo ogni secondo.. »

Annuì per l'ennesima volta alle parole che sentì. Nessuno fece nulla, era mio compito aprire quella porta e varcare quella soglia di terrore. Presi coraggio e dopo aver preso un bel respiro, aprì la porta. Il freddo della stanza mi avvolse completamente. La stanza era un misto fra luce ed ombra. Il tavolo centrale era completamente illuminato, ma ai lati vi erano angoli completamente all'ombra che rendevano l'atmosfera ancora più tetra.

Lo vidi. Era seduto di fronte alla porta. Il capo rivolto verso il basso e le mani legate davanti a lui, appoggiate sul tavolo. Non alzò il volto, lo fece soltanto quando il poliziotto sbatté la porta chiudendola alle mie spalle. Il suo sguardo di ghiaccio si alzò lentamente, analizzando ogni singolo centimetro del mio corpo. Mi sentì morire, volevo andarmene e scappare via, lontano da quell'immagine. Persi parecchi respiri ma soprattutto, trattenni l'aria quando i suoi occhi si posarono sui miei. Non so che cosa stesse pensando, nemmeno guardando il suo sguardo. Non ero mai riuscito a decifrare quell'enigma creato dai suoi occhi. Non ero mai riuscito a capire quando era triste, o quando era felice. Quando era soddisfatto e quando non lo era.

Poi sorrise, sfoderò il suo sorriso malefico pochi secondi prima di parlare:

« Sapevo che prima o poi ci saremo rivisti.. »

Raggelai sentendo la sua voce. Non me la ricordavo così fredda e dura.

Sentì qualcosa stringersi nello stomaco, e tutto ad un tratto la mia gola divenne secca. Facevo fatica a deglutire e per qualche istante sentì persino le gambe tremare.

Lo sentì ridere mentre si alzò leggermente portando la schiena dritta.

« Ma non mi sarei mai aspettato di trovarti con i miei stessi indumenti.. »

Strinsi i pugni delle mani, affondando la carne con le unghie delle mie dita. Odiavo la sua risata. Ovviamente odiavo tutto di lui, ma la sua risata la odiavo ancora di più.

« Com'è che si dice? Ah sì! Tale padre, tale figlio.. »

« Stai zitto.. »

Riuscì a far sparire completamente il suo sorriso. S'innervosì per quella mia risposta, ma non m'importava più nulla. Non ero più il ragazzino indifeso che non sapeva rispondere a tono alle sue provocazioni, ai suoi colpi affilati come lame di coltello.

Scosse leggermente la testa e ritornò col sorriso strafottente di qualche secondo prima.

« Sai che devi portare rispetto a tuo padre.. »

Non riuscì più a ragionare. Mi avvicinai al tavolo, scaraventando un pugno su quella lastra di metallo. Il rumore assordante tuonò nella stanza sorprendendo il verme che avevo davanti a me. Le nocche della mano facevano male, fin troppo male. Ma in quel momento avevo troppa rabbia in corpo per rispondere al dolore.

« Non sei mio padre.. »

Sputai quelle parole a denti stretti mentre i nostri occhi non si staccavano gli uni dagli altri. La rabbia continuava a scalpitare dentro il mio corpo e sembrava non aver pace. Se mi fossi trovato in un altro posto probabilmente non mi sarei fatto troppi problemi a dargli un pugno in faccia. Ma dovevo mantenere la calma, almeno esterna. La buona condotta, buona condotta..

« Si che lo sono.. »

« No! Non lo sei! »

A quelle parole Lance si alzò in piedi, avvicinando il suo volto al mio. I nostri occhi non si staccarono nemmeno per un istante, sembrava quasi una lotta fra chi cedeva per primo.

« Guardati allo specchio Jasper! Fallo una sola volta, e vedrai quanto simili siamo! »

Eravamo talmente vicini che il suo alito mi venne tutto addosso tanto erano urlate quelle parole. Fui io il primo a togliere i miei occhi dai suoi, fissando le mie mani appoggiate al tavolo. Il suo odore mi dava sempre più fastidio, ma sua presenza mi dava fastidio, tutto di lui e mi pentì di aver fatto quella scelta idiota.

« I tuoi occhi, i lineamenti del tuo viso, persino le tue mani sono uguali! »

Con prepotenza e fatica, afferrò il polso della mia mano sinistra ed appoggiò il palmo contro la sua mano, mostrandomi come le nostre mani fossero uguali. Quando capì, diedi un strattone allontanandola da lui, da quella verità che sembrava essere fin troppo accecante.

« E domandati.. »

Si allungò leggermente e con cotanta prepotenza, afferrò con le dite il mio mento, avvicinando il suo volto al mio.

« Perché ti trovi proprio qui, nella stessa prigione di tuo padre? »

Cominciai a sentirmi male. Il respiro ritornò ad essere corto ed affannoso tanto che non ebbi la forza di allontanarmi dalla sua mano. Vedevo con la coda dell'occhio il suo sorriso malefico vicino, troppo vicino. Poi fui graziato, la porta si spalancò ed i due poliziotti fecero la loro entrata. Il più grosso afferrò Lance da dietro la schiena, e l'altro non dovette fare chissà quanta fatica dato che mi mossi senza porre resistenza. Ma quando camminai verso l'uscita di quella stanza lo sentì per qualche altro secondo, mentre continuava ad urlare:

« Credimi! Non sei poi così diverso da me, da tuo padre! Credimi! »

 

 

Non so per quale motivo avevo incontrato quell'uomo. Forse perché dentro di me speravo che fosse cambiato. O forse perché volevo affrontare la mia paura. Ma dopo quell'incontro, avevo passato tutto il tempo nella mia cella a ragionare ed a pensare a quelle parole che continuavano a martellarmi la testa. Io, uguale a lui. Era fosse possibile? Non mi riferivo più che altro ai lineamenti fisici. Certo, quelli c'erano. Ma come c'erano quelli, potevano benissimo esserci tratti simili nel nostro carattere, nella nostra vita.

Nei giorni successivi all'incontro, rifiutavo qualsiasi visita esterna. Non avevo voglia né di vedere né di sentire nessuno. Dovevo rimanere solo con me stesso e riflettere. Tanto di tempo ne avevo anche fin troppo. Quando il poliziotto veniva a prendermi in cella, gli dicevo di dire a Rosalie che stavo bene, ma che non volevo vederla.

Stare bene.. Bé forse esteriormente, ma dentro di me mi sembrava di sprofondare sempre di più in un pozzo buio ed eterno. Non lasciavo intendere nulla, semplicemente mi chiusi in me stesso diventando il “muto parlante” del penitenziario. Anche Alan tentò più di una volta di parlarmi, ma era tutto inutile.

Ma dopo una decina di giorni, quando rifiutai d'incontrare Rosalie, il poliziotto tornò a prendermi un'altra volta.

« Ti ho già detto che non voglio incontrarla.. »

« Non è la solita ragazza. Sembra importante.. »

Non era Rosalie? E chi poteva essere?

Spinto dalla voglia di soddisfare la mia curiosità, mi feci condurre nella stanza delle visite e quando scoprì chi era rimasi decisamente sorpreso.

Seduta composta, con le gambe accavallate era seduta su di un tavolo che non era il solito dove Rosalie sedeva. Indossava un vestito elegante, sul blu scuro. I capelli un po' mossi, color caramello le ricadevano lungo le spalle incorniciando perfettamente il suo viso. Si guardava attorno con un sorriso appena accennato ed era un contrasto ben evidente su quello sfondo grigio della prigione.

Ma quel sorriso aumentò quando mi vide davanti a lei, quando con un sussurro pronuncia il suo nome:

« Esme? »

Di scattò si alzò in piedi e, prima ancora che potessero togliermi le manette, le sue braccia erano già attorno al mio collo.

« Dio quanto mi sei mancato! »

Assaporai quel dolce profumo intenso che sembrava di casa. Era da tanto, troppo tempo che non la sentivo e né vedevo e, tutto ad un tratto, mi sentì decisamente meglio.

« Che.. che ci fai qui? »

Le domandai non appena mi allontanai da lei quando ci sedemmo. Risi appena quando vidi i suoi occhi lucidi: era un suo classico commuoversi ed in quel momento, mi sarebbe piaciuto stringerla forte.

« Non posso venirti a trovare? »

« Sì certo è che.. Rosalie e Carlisle se ne sono appena andati e.. »

« E tu come al solito hai rifiutato.. »

Concluse la mia frase lasciandomi con le labbra semiaperte. Bé del resto potevo anche immaginarmelo: se non erano loro che si confidavano queste cose chi altro poteva farlo?

Alzai appena le spalle sospirando, rendendomi conto di essere con le spalle al muro con quella conversazione, in quella situazione.

« Sono un po' egoista nell'aver pensato che forse con me avresti aperto bocca.. »

Esme cominciò a parlare, ma tutto ad un tratto la mia mente si catapultò da tutt'altra parte. La sua voce divenne assente, mentre la mia mente cominciò a farsi domande senza risposta. Ricominciai a domandarmi se forse le parole di mio padre era vere. Se non avesse tutti i torti ad affermare che, bene o male, non siamo poi così diversi. Stesso cognome, stessi lineamenti del viso, stesso destino. Ero forse diventato un pericolo per tutti? Per Rosalie, per Jenny.. Per lei.

Il mio sguardo si abbassò, mentre le mia mani cominciarono a torturarsi a vicenda. Non avevo mai avuto una conversazione così delicata con Esme. L'avevo sempre rispettata ed ammirata, ma mai come allora mi ero trovato a parlare direttamente con lei su di un argomento che nessuno sapeva. Nessuno, né Rosalie né Alice. Dovevo fidarmi? Aprirmi completamente, così, dal nulla?

Ma soprattutto, mi domandai perché sentissi quello strano bivio. Perché quel dubbio non lo avevo avuto con mia sorella? Con lei ero andato sul sicuro: non volevo parlargliene. Ma ora, con Esme lì davanti a me, perché ero quasi tentato ad accennarle qualcosa?

« Esme tu.. Cosa sai di mio padre? »

Quella domanda la sorprese. Rimase un bel po' di secondi in silenzio, con gli occhi puntati su di me e le labbra semiaperte. Che avesse capito? No, era impossibile.

« Tutto quello che hai raccontato ad Alice.. »

Sorrisi appena sentendo quel nome. Era prevedibile che la mia dolce Alice si confidasse con sua madre. E no, non ce l'avevo con lei per quella sua scelta. Alice era libera di sfogarsi con chi voleva.

« Mio padre pensa che io non sia poi così diverso da lui.. »

Dissi alzando il capo, osservando per qualche secondo il suo sguardo ed abbozzando appena ad un sorriso. Piano piano le ultime immagini che avevo di lui cominciarono a riaffiorare ma scuotendo leggermente il capo, riuscì a scacciarle per qualche istante.

« Soprattutto per lo stesso destino.. Sai.. Tutti e due abbiamo ucciso una persona.. »

Il volto di Esme diventò ancora più confuso, glielo si poteva leggere negli occhi.

« Ma lui come può sapere che.. »

« L'ho incontrato.. »

La verità uscì tutto ad un tratto come un fiume che sfonda gli argini del suo letto. Il volto di Esme indossò una maschera mista fra il dispiacere ed il terrore. Non disse nulla, ed io pensai che fosse perché voleva che proseguissi di mia spontanea volontà.

« Non lo vedevo da quella sera. E una delle prime cose che mi ha detto è stato: tale padre, tale figlio.. »

« E' per questo che non hai più voluto vedere nessuno? »

« L'insicurezza è nel Dna degli Hale.. »

Dissi cercando di dare una piega di sarcasmo a quella conversazione. E quasi ci riuscì, tanto che Esme mi sorrise appena, ma invece di un sorriso di felicità, sembrava più un sorriso di consolazione.

« Non so per quale ragione ho deciso d'incontrarlo.. Forse speravo di trovare conforto in lui. Io.. Proprio non lo so! »

Il timbro della mia voce aumentò leggermente. I miei occhi non riuscivano ad alzarsi da quel pavimento che avevo sotto i piedi e le mie mani, continuavano a muoversi energicamente per aria. Mi sentivo uno stupido! Per quale motivo avevo cercato conforto in quell'uomo?! Che cosa speravo?! Era una bestia senza cuore, senza anima ed alcun sentimento. Un pezzo di ghiaccio che sembrava essere in vita solo per rovinarmi la mia. Ero arrabbiato. Arrabbiato con me stesso, con lui che non mi aveva aiutato a superare quella stupida permanenza. Ma perché proprio lui?!

« Jasper io.. Non sono una grande intenditrice però.. Sono una madre.. »

E? Cosa voleva dire con quelle parole?

« Non capisco.. »

Ammisi scuotendo leggermente il capo. Esme mi sorrise ed alzando appena le spalle mi spiegò quello che voleva intendere.

« Ci sono momenti in cui il conforto di una sorella o di un amico non sono sufficienti. E' come se avessi bisogno di una figura più.. Esperta, più matura in un certo senso. Una figura.. »

« Materna o paterna? »

Fu allora che rialzai il capo verso di lei. Avevo la fronte corrugata come se non capissi, ma piano piano i tasselli stavano dando una forma a quel mio interrogativo. Esme aveva ragione. Per quanto fosse stata d'aiuto Rosalie, è come se tutto ad un tratto avessi avuto bisogno di un padre, di una madre. Ecco perché mi ero lasciato trasportare da quella strana voglia d'incontrarlo. Ecco perché ero riuscito ad aprirmi più con Esme che con mia sorella..

Esme sorrise, un sorriso più sincero, più soddisfatto del passo avanti che avevo fatto.

« Sì, proprio così.. »

Sorrisi in risposta a quelle parole, rendendomi conto della verità che mi si era parata davanti agli occhi. Inconsciamente mi mancava, mi mancava mia madre che tanto avrei voluto avere al mio fianco in quel momento. Una figura matura, in grado di darti un appoggio stabile su cui riprendere l'equilibrio nel momento d'instabilità. Mio padre non era in grado di darmela, e mia sorella era una sorella, non una figura materna. E poi eccola la salvezza. Lei, nella persona che meno mi sarei aspettato. Le portavo rispetto, quasi la veneravo per quello che aveva e che stava facendo per Jenny. Ma mai mi sarei aspettato di trovare conforto in lei, in Esme. Era come se ad un tratto fosse diventata una sorte di.. Madre adottiva.

« Ora perdonami ma.. Devo scappare sai.. Non ho detto a nessuno che sarei passata.. »

Già immaginavo la preoccupazione di tutti non vedendola arrivare. Era palese!

« Prima che te ne vada.. Posso chiederti un favore? »

Domandai guardandola negli occhi. Sapevo che nel mo sguardo brillava una luce di supplica, perché era quello che sentivo dentro di me. Esme semplicemente annuì con un cenno della testa, guardandomi con uno sguardo interrogativo. In risposta le sorrisi, ed alzando lo sguardo chiamai uno dei poliziotti che controllavano la situazione. Sotto lo sguardo curioso della donna, sussurrai nell'orecchio alcune parole all'uomo in uniforme. Subito mi guardò sbigottito, ma senza farsi problemi mi portò quello che gli avevo chiesto: dopo la soffiata del caso Sanchez avevo acquistato un po' di fiducia nei poliziotti.

« E' da molto che non la sento, troppo.. »

Dissi afferrando il pezzo di carta e la penna che l'uomo mi porse. Esme si avvicinò a me, alzandomi in piedi appoggiando una mano sulla mia spalla. Non le fu poi così complicato dato che io rimasi seduto col sorriso stampato in volto.

« E mi manca.. Parecchio! »

Appoggiai il palmo della mano destra sul foglio di carta, mentre con la sinistra afferrai la penna e facendo molta attenzione, ne disegnai i lineamenti proiettando la grandezza della mia mano su quel foglio di carta.

« Sarà cresciuta molto da l'ultima volta che l'ho vista.. »

Alzai il foglio guardando il palmo della mano disegnato. Già, Jenny ora era molto più grande rispetto alla bambina di 10 anni che avevo lasciato a Forks. Ma quanto?

Mi voltai verso Esme, e le porsi il foglio di carta. Lei lo guardò ancora con quello sguardo curioso sul volto, uno sguardo che si addolcì quando le spiegai il tutto.

« Voglio vedere quant'è cresciuta. Disegna la mano di Jenny su questo foglio e o consegnalo ad Alice. Lei poi me lo spedirà con la prossima lettera.. »

« Lo farò.. Ad una condizione però.. »

Fui sorpreso nel sentire una sua richiesta. Di norma non era una donna che chiedeva qualcosa in cambio. Ma accettai ben che volentieri.

« Accetta l'incontro con Rosalie domani.. »

Credevo che fosse chissà quale richiesta e invece non fece altro che prevedere un'azione che avevo già in mente di fare.

« Promesso.. »

Prima di andarsene Esme mi regalò un caloroso abbraccio che mi fece sentire decisamente meglio. Aveva ragione, avevo bisogno di qualcuno più grande, di una figura materna non per sempre però! Soltanto per qualche minuto, qualche istante non di più.

Quando Esme se ne andò ormai era ora di cena. Non che morissi dalla voglia di mangiare quella schifezza, ma stare fuori dalla cella per qualche altro minuto, era un vero sollievo. Nella mensa trovai Alan che mi domandò se fosse tutto ok. Ovviamente lo era. Stavo decisamente meglio e poi, l'idea di sapere quanto fosse cresciuta Jenny mi lasciava un sorriso ebete sul volto.

« Che c'è per cena stasera? »

Domandai ad Alan che si trovava davanti a me alla fila per il cibo. Quando si voltò verso di me mostrandomi quello che doveva avere le sembianze di uno stufato di manzo, ci scambiammo un'espressione di disgusto. Dio quanto mi mancava la cucina di Esme! Mangiavamo quella roba tipo tre volte la settimana ed ogni volta, sembrava quasi che il cibo prendesse un gusto orribile ad ogni portata.

Ci sedemmo sul solito tavolo, quello un po' in disparte con solo quattro, cinque elementi. La mensa del carcere non era poi così diversa da quella di scuola. Certo, vi era qualche poliziotto che controllava con qualche arma da fuoco pronta allo scoppio, ma la divisione della gente che mangiava era la solita. Era come se ad ogni tavolo vi fosse gruppi di persone appartenenti a specifiche etnie diverse. Per esempio ci sono i messicani, quelli seduti sul tavolo centrale, quasi tutti ricoperti di tatuaggi e pelati. Che cosa li accomuna? Hanno tutti quell'espressione da spaccone, intimidatoria che fa raggelare chiunque lo incontra.

Così in silenzio e senza dare nell'occhio, ci sedemmo sul solito tavolo in ombra, all'angolo di tutta la mensa. Se dovevo attribuire una targhetta a quel tavolo, era quella dei calmi. Non ce l'avevamo con nessuno, non parlavamo più del dovuto. Insomma, vivi e lascia vivere.

Spesso e volentieri, durante pranzo e cena, accadeva qualche rissa. Di certo i poliziotti erano lì per qualche motivo! Qualche litigata, qualche conto in sospeso da pagare, insomma le solite cose. Ma quella sembrava una giornata tranquilla. La gente non parlava ad alta voce, tutti composti, c'era quasi un senso di tranquillità nell'aria. Un silenzio fin troppo sospettoso però.

Non feci in tempo nemmeno a portare la forchetta alla bocca che il tavolo nei messicani cominciarono a creare un po' di caos. Cominciarono a lanciare per aria il cibo che avevano preso e qualsiasi cosa che gli passasse sotto mano. I poliziotti subito accorsero verso di loro, intimandoli a smetterla e minacciandoli di punirli come non mai. Tutti erano focalizzati su di loro che piano piano, diventavano sempre di più, in una sorte di alone di persone che diventava sempre più grande. Tutti su di loro, e nessuno che guardava il resto dei carcerati.

Poi accadde. Qualcosa di freddo e di puntiglioso si conficcò sul mio fianco. Una fitta insopportabile mi fece piegare in due dal dolore, e mi costrinse ad urlare dal dolore. Portai la mano sul fianco, tastando con le mie stesse mani la fonte di quel dolore. Sentivo quella cosa fredda conficcata nella carne, ma sentivo anche la pelle calda di qualcuno stringere quell'arma. Subito mi voltai e raggelai quando vidi sul braccio dell'uomo la scritta tatuata a caratteri cubitali: Los Zetas, una delle organizzazioni messicane più coinvolte nello spaccio di droga. Ed il loro attacco voleva dire che gli avevo messo i bastoni fra le ruote, e non fu difficile ricordarmi di Sanchez e la soffiate che gli avevo fatto.

« Ed è solo l'inizio.. »

Sussurrò quelle parole con il loro tipico accento messicano. Lasciò l'arma conficcata nel mio corpo pochi istanti dopo, prima di andarsene e mischiarsi con la folla. Non riuscì a vedere il suo volto. Lessi soltanto quel tatuaggio, ma di certo fare nuovamente la spia avrebbe firmato la mia morte.

Caddi a terra, inginocchiandomi sul pavimento mentre le mie mani cercavano di coprire la ferita, nella speranza che il dolore sparisse. Il dolore era talmente forte che persi perfino la voce. Mi ritrovavo per terra, con la fronte sul pavimento, gli occhi e la bocca serrate. Grazie ad Alan i poliziotti mi notarono e mentre gli altri cercavano di placare il caos con qualche colpo di pistola all'aria, altri due mi alzarono di peso portandomi al sicuro.

 

 

Il fianco mi faceva ancora male. Più che altro sentivo i punti della ferita che un po' tiravano, ma come aveva sentito durante la mia dormita, era del tutto normale. Avevo passato tutta la notte in infermeria, in uno di quei lettini striminziti che mettevano a disposizione per controllare i carcerati che non stavano bene. Durante la notte dormì beatamente, erano sempre più comodi dei letti nelle celle. La mattina però dovetti ammettere che un po' finsi. Rimasi con gli occhi chiusi e completamente immobile, come se stessi dormendo ma in realtà ero sveglio già dalle primi luci del mattino. Non avevo alcuna intenzione di tornarmene in cella. Verso le otto di mattina, sentì la porta dell'infermeria aprirsi e riconobbi all'istante l'inconfondibile voce di Dianna. Era arrivato il momento di dare il cambio alla sua collega che aveva fatto la notte. Ma voglia di tornare nella fogna: zero. Così mi voltai dall'altra parte, alla ricerca di un po' di ombra, sperando di sprofondare nuovamente nel sonno. Ma non fu possibile. Non mi accorsi che Dianna fu al mio fianco, ma me ne accorsi quando mi diede una piccola sberla sul taglio, facendomi alzare di scatto e facendomi urlare un poco elegante:

« Cazzo! »

Mi alzai di scatto sedendomi sul lettino, mentre lei scoppiò a ridere. La guardai di sottecchi mentre si avvicinò al ripiano dei medicinali mentre fra le risate disse:

« Buongiorno anche a te Jazz.. »

E per fortuna che il colpo che mi diede non era diretto dato che indossavo una maglia!

« Dormivo.. »

« Non è vero. Facevi finta. Come stai? »

« Meglio di ieri sera.. »

Dissi sorridendole. Lei arricciò leggermente le labbra sospirando appena. Notò solo allora che avevo la mano sinistra ancora legata dalle manette ben saldate col letto. Con movimenti veloci afferrò la chiave e senza troppi problemi sciolse quella stretta, ormai si fidava di me. Le fui grato dato che dopo tutte quelle ore la cose diventava un po' fastidiosa. Ma era la norma: tutte le volte che un carcerato passava la notte in infermeria, doveva essere legato per evitare che afferrasse qualcosa che potesse diventare un'arma.

Subito dopo Dianna indossò il guanto destro, preparando un pezzo di cotone imbevuto di disinfettante. Con un cenno della testa mi fece capire che dovevo togliermi la maglia e così feci, in modo che potesse disinfettare la ferita.

« Brucia? »

« Un po'.. »

Confessai senza troppi problemi camuffando un po' il dolore con qualche smorfia del volto.

« E' vero? Si tratta della questione Sanchez? »

Domandò lei senza troppi giri di parole. Il mio volto tornò alla sua solita maschera seria e non le nascosi la verità:

« Sì, ho riconosciuto il tatuaggio.. »

« E hai visto chi è? »

« Anche se lo avessi visto non lo confesserei a nessuno.. Firmerei la mia condanna a morte.. »

Non mi preoccupai di mantenere dei filtri con lei. Avevo capito che era una persona di cui potevo fidarmi ciecamente. Ci confidavamo parecchie cose durante i miei soggiorni in infermeria.

Dì mi guardò negli occhi, consapevole del fatto che avessi ragione. Fare un'altra volta la spia sarebbe stato ancora peggio. A volte è meglio tacere e fare finta di nulla.

« Guardiamo il lato positivo.. »

Lei mi guardò sbattendo più volte le palpebre degli occhi. Se lei era sorpresa, lo ero anche io, per aver trovato qualcosa di positivo in un fatto negativo come quello.

« Passerò più tempo con te! »

Dissi ridendo mentre lei sospirò alzando gli occhi verso il soffitto.

« Non vedo l'ora.. »

Disse lei con un filo d'ironia nelle parole mentre allontanò il pezzo di cotone buttandolo nella pattumiera. Io continuai a ridere, mentre lei manteneva la sua parte da finta scocciata nell'avermi lì. Spostai lo sguardo verso la mia destra, notando che su di un ripiano vi era una specie di vassoio d'acciaio con all'interno un qualcosa di marrone. Senza troppi complimenti e senza chiedere nulla, saltai giù dal lettino avvicinandomi ad osservarlo. Era un pezzo di ferro, un po' arrugginito, lungo più o meno una ventina di centimetri. Il sangue ormai era diventato un tutt'uno con quell'aggeggio e quando mi domandai mentalmente se quella fosse l'arma improvvisata con cui mi avevano colpito, Dianna rispose alla mia domanda, nel momento esatto in cui tornò a disinfettare la ferita.

« Sì è quella. Da ieri sera hanno già perlustrato tutte le celle alla ricerca di altre armi.. »

« Magari lo avessero fatto prima mi sarei evitato questo taglio! »

« Forse.. »

Appoggiò l'altra mano sul fianco, controllando che la cucitura fosse riuscita con successo mentre con l'altra continuava a pulire la ferita.

« Era piuttosto arrugginito.. »

Disse lei come a giustificare quel suo continuo bruciare quel taglio.

« Grazie.. »

Dissi con sincerità voltandomi verso di lei. Era vero, dovevo esserle grato per quello che faceva. Lei non disse nulla, semplicemente annuì con un cenno della testa allontanandosi di qualche passo. Senza nemmeno pensarci qualche secondo in più, allungai leggermente il braccio verso di lei, afferrando con la mano il suo braccio costringendola a voltarsi verso di me.

« Dico sul serio! Grazie di tutto quello che fai e di quello che hai fatto.. »

Perché non aveva detto nulla a quella mia parola? Mi era difficile ringraziare gli altri, perché doveva rifiutarlo in quella maniera?

Poi capì. I suoi occhi incrociarono i miei e quando lessi quel luccichio che avevo visto soltanto ad una donna nella mia vita, capì per quale motivo tutto ad un tratto aveva preso le distanze. Ma prima ancora che potessi dire o fare qualcosa, le sue labbra si avvicinarono alle mie, sfiorandole appena.

Si allontanò immediatamente ed il mio sguardo indossò la maschera del confuso mentre lei indossò quella del dispiacere del sconforto, come se avesse capito che non poteva fare nulla perché io appartenevo ad Alice. Fece per allontanarsi, ma le mie mani non si staccarono dalle sue braccia. Mi dispiaceva leggere quella tristezza nel suo volto, ed allo stesso tempo ero un uomo.

Prima ancora che potessi ragionare, avvicinai le mie labbra premendo sulle sue con prepotenza. Cinque anni di fottuta astinenza! Come potevo resistere ancora per altri due anni?!

Me ne fregai altamente di tutto e di tutti. Non m'importava di sentire dolore alla nuova ferita, senza troppi indugi alzai Dianna mentre le sue mani si aggrapparono al mio collo, spinti da una sicurezza in più. La costrinsi a sedersi sul lettino, facendole avvolgere le sue gambe attorno ai miei fianchi. Senza farmi troppo problemi, con le mani, cominciai a slacciare i bottoni della sua camicia, facendo ricadere il camice bianco che indossava.

« Jasper.. »

Sussurrò il mio nome non appena allontanai le mie labbra dalle sue, sfiorandole il collo. Sentire il mio nome pronunciato dalla sua voce mi dava fastidio però: Alice poteva chiamarmi in quel modo. Così, spinto da quel fastidio, ritornai a premere con prepotenza sulle sue labbra. Non appena l'ultimo bottone della camicia si slacciò, scoprì un corpo formoso nei punti giusti che non fece altro che aumentare l'eccitazione che già premeva nei miei pantaloni. Desideravo solo il suo corpo, pura attrazione fisica nei suoi confronti. Mi sentivo un verme per quello, ma ne avevo bisogno. Lasciai perdere le sue labbra, fregandomene della sua voce che mi richiamava. Le sue mani mi accarezzavano il petto ma tutto ad un tratto l'atmosfera cambiò radicalmente. Quando portai le mani sui miei pantaloni, Dianna fermò le mie mani catturando la mia attenzione. Tentai di ritornare alla stessa atmosfera, riprovando ad avvicinare le mie labbra alle sue.

« Jasper.. N..No fermati.. »

Perché non taceva?!

Provai a sfiorare con le labbra il suo collo, ma fu del tutto inutile. Le sue mani divennero una morsa potente contro i polsi delle mie mani che mi costrinsero a fermarmi. Il mio sguardo carico di desiderio si rifletteva nel suo, al contrario fermo e deciso. Senza che potessi ribattere, scivolò via, risistemandosi la camicia ed il camice. Mi lasciò completamente spiazzato: non era forse quello che desiderava anche lei?

« E' sbagliato. Sia per te che per me.. »

Disse con un timbro di voce freddo e deciso. Rimasi tutto il tempo con il volto rivolto verso il muro, con le mani appoggiate sul lettino.

« Fra qualche minuto verranno a prenderti.. »

Sentivo la rabbia ribollire dentro di me. Il motivo non lo sapevo. Era forse perché il mio piacere non era stato soddisfatto? Perché Dianna mi aveva rifiutato? O perché avevo avuto la malsana idea di tradire la mia ragazza? O forse era tutto l'insieme.

Con la coda dell'occhio vidi l'ombra del poliziotto avvicinarsi all'infermeria, nel momento esatto in cui Dianna aggravò la mia rabbia dicendomi:

« Credimi.. Lo desidero. Ma non è giusto.. »

Mi stava prendendo per il culo forse?!

Spinto dalla rabbia mi voltai verso la vetrina che proteggeva la scaffalatura che conteneva tutti i medicinali. Senza pensare alle conseguenze scaraventai un pugno contro la lastra di vetro, sfogando la rabbia nel dolore. Rabbia che aumentò consapevole del fatto che non capì la causa di tutto quel sentimento. Dianna urlò al poliziotto di muoversi cosa che fece, quando ormai il sangue sgorgava dalle nocche della mia mano. Senza porre resistenza mi feci ammanettare. Non mi sarei opposto all'uomo.

La rabbia era tanta e mi oscurava completamente. Avrei voluto spaccare il mondo, uccidere con le mie stesse mani qualsiasi persona che mi capitava davanti agli occhi. Tanta rabbia che mi trasportava in un'altra dimensione, come se mi isolassi da un'altra parte. Non sentivo nulla, ne dicevo nulla. Dai miei occhi usciva solo il fuoco della rabbia e nient'altro. Non ascoltavo quello che il poliziotto mi diceva, ma sentì soltanto le ultime parole di Dianna, fredde e decise contro di me:

« Non lo voglio qui. Portatelo nell'altra infermeria.. »

 

 

 

Eccoooomi qui! :) Capitolo pieno di fatti eh?

Come al solito spero che vi sia piaciuto altrimenti potete benissimo dirmi senza troppi problemi ciò che non vi piace e che distruggereste al volo... Si bé ecco ditemi quello che volete! :P

Come al solito ringrazio chi ha recensito lo scorso capitolo e spero di sapere anche questa volta che cosa ne pensate. Ringrazio anche chi ha soltanto letto il capitolo ovviamente :)

Ah! Tranquilli! Vi avverti già che nel prossimo capitolo Jazz tornerà a casa! Lo avevo promesso, due o tre capitolo massimo dedicati al carcere :)

Alla prossima!

Fra!

   
 
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