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Autore: SognoDiUnaNotteDiMezzaEstate    03/08/2012    9 recensioni
Era quello che volevo, no? L’occasione giusta per mandare tutto all’aria e concedermi del tempo per me.
Avevo immaginato di mandare al diavolo il mio lavoro e la mia coinquilina tante di quelle volte che nemmeno ricordavo quando la mia insofferenza nei loro confronti fosse iniziata. Quello che non avevo immaginato, però, era di non intraprendere quel viaggio da sola; e che ad accompagnarmi sarebbe stata una delle persone da cui cercavo disperatamente di fuggire in quel momento: Edward Cullen.
Genere: Avventura, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Coppie: Bella/Edward
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun libro/film
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Route 66

You're on the road, but you've got no destination.

You're in the mud, in the maze of her imagination.

You love this town, even if that doesn't ring true;

You've been all over, and it's been all over you.

It's a beautiful day, don't let it get away.

It's a beautiful day.

U2 - Beautiful Day

21. Coming back

Dire arrivederci alla costa per rientrare - per chissà quanto tempo - nell’entroterra non fu semplice. Mi sarebbe mancata Los Angeles. C’eravamo stati solo pochi giorni, ma quel breve lasso di tempo mi era bastato per farmi innamorare di quella bellissima città. Era come uno Stato in miniatura: si trovava di tutto, dall’oceano alle colline, e bastava fare qualche isolato per ritrovarsi in un quartiere completamente diverso da quello precedente, sia per aspetto che tradizioni e negozi.

Edward ed io festeggiammo la nostra ultima giornata di vera e propria vacanza in riva all’oceano, restando in spiaggia dal mattino presto fino alla sera tardi, quando il sole era già tramontato e le stelle e la luna avevano preso il suo posto nel cielo. Preparammo un piccolo fuoco, e abbrustolimmo salsicce e marshmallow per cena, brindando con una bottiglia di vino rosso comprata nel negozio di alimentari più vicino. Quella notte non provammo più a dormire in tenda - grazie al cielo Edward aveva capito che con tutto il vento che soffiava sarebbe stata un’impresa impossibile -, quindi ci rintanammo in un piccolo motel poco lontano dall’oceano, e non appena si fece giorno ci mettemmo in marcia verso Chicago.

Non avremmo più ripercorso la Route 66 - tranne che per quei pochi tratti dove il suo percorso coincideva con la freeway -, ma avremmo usato la superstrada, per impiegare meno tempo. Sarebbe stato bello ripetere il nostro percorso dell’andata, ma dovevo riconoscere che sarebbe stato dispendioso e ci avrebbe portato via molte ore, quindi dovemmo abbandonare l’idea.

La superstrada era più affollata della Route 66, ma nonostante tutto era decisamente più veloce. Superammo le colline hollywoodiane, tornando ad attraversare le secche valli californiane, punteggiate di saguari, tralicci e in lontananza le masse rocciose che avevano una forma tutta loro. Tuttavia, non avevo più lo stesso entusiasmo che mi animava all’andata. Non avevo voglia di arrivare a casa in fretta, né desideravo rimandare il momento in cui saremmo rientrati in Illinois; ma mi sarebbe mancata la sensazione di piena libertà che avevamo avuto fino a quel momento. All’andata non avevamo alcuna meta precisa, solo il nome di Santa Monica impresso nella mente per ricordarci che c’era un percorso da rispettare, e che presto o tardi era lì che saremmo giunti; potevamo fare tutte le soste e le deviazioni che volevamo, rimandare l’arrivo sulla costa quanto desideravamo. Questa volta invece avevamo un obiettivo: casa. Avevamo visitato tutto ciò che volevamo vedere durante l’andata, quindi non avremmo più avuto motivo di fermarci lungo la strada, anche perché ciò avrebbe significato lasciare la superstrada per seguire le stradine che conducevano dentro i vari paesi, e ciò ci avrebbe fatto perdere tempo prezioso.

Comunque, nonostante avessimo deciso di non fermarci se non per delle brevi soste nelle aree di servizio, il nostro viaggio di ritorno iniziò con molta calma. Non c’era granché da vedere dai finestrini lungo la freeway - sempre se non si era interessati ai paesaggi deserti confinati da transenne con tanto di filo spinato e a qualche fattoria apparentemente disabitata - ma Edward prese la strada lentamente, occupando solo ed esclusivamente la corsia a destra, lasciando i finestrini abbassati e la radio accesa per tutto il tempo.

Attraversammo interamente la California e l’Arizona, arrivando a poche miglia di distanza da Albuquerque a sera inoltrata.

«Secondo te Jacob è tornato ad Amarillo? O è ancora alla riserva indiana da suo padre?», chiesi ad Edward, soprappensiero, mentre cenavamo in un piccolo ristorante di Grants, dove ci eravamo fermati per la notte. Erano passate quasi due settimane da quando avevamo lasciato Jacob ad Albuquerque dopo che gli avevamo dato un passaggio da Amarillo, e non sapevo se una volta giunti all’officina avremmo trovato lui o suo cugino Seth, che aveva preso il suo posto mentre lui era in vacanza da suo padre.

«Domattina gli telefoneremo», rispose semplicemente Edward, lasciando cadere il discorso.

E così facemmo. Lo chiamammo al numero che ci aveva dato appena ci eravamo conosciuti, e lui rispose con l’entusiasmo per cui avevo imparato a riconoscerlo. Ci disse di essere tornato ad Amarillo il giorno precedente, e che la nostra jeep era pronta per affrontare il viaggio di ritorno. Restammo al telefono per pochi minuti, il tempo necessario per metterci d’accordo per incontrarci il giorno seguente all’ora di pranzo dove ci eravamo fermati a mangiare quando ci eravamo conosciuti e lui era riuscito a terminare una bistecca da ben 72 oz. - il Big Texan Steak House.

Durante il viaggio di ritorno il tempo sembrava trascorrere in modo differente rispetto all’andata. I secondi e i minuti sembravano susseguirsi con maggiore velocità, le miglia si accorciavano senza che me ne accorgessi. I confini fra gli Stati sembravano vicinissimi l’uno all’altro, e senza che me ne rendessi conto nel giro della mattinata seguente attraversammo il resto del New Mexico e arrivammo nel bel mezzo del Texas, ad Amarillo.

Riabbracciai Jacob, e per le due ore in cui restammo in sua compagnia gli raccontammo del nostro viaggio da Albuquerque a Santa Monica, decidendo di dirgli anche di quella strana notte passata a Las Vegas, durante la quale ci eravamo quasi sposati. Jacob rise come un matto, e quando il nostro racconto terminò ci descrisse la sua riserva, parlando brevemente dei giorni passati con suo padre e quella ragazza che era venuta a prenderlo ad Albuquerque - Leah -, per la quale ammise di avere una cotta ma di non avere il coraggio di dirglielo perché era certo che lei fosse ancora innamorata del suo ex ragazzo. Purtroppo non era una bella situazione per Jake.

Quando tornammo all’officina ci aiutò a spostare i nostri bagagli da un baule all’altro, e mi sorpresi nel constatare che mentre nel furgoncino di Jacob occupavano solo un piccolo angolo in fondo all’immenso bagagliaio, il retro dell’auto di Emmett era pieno zeppo - non solo dalle nostre valigie - una mia ed un borsone di Edward - ma dalle confezioni e i sacchetti dei souvenir che - soprattutto io - avevo insistito di comprare per noi e i nostri amici e parenti. Le cose più ingombranti erano i miei barattoli di sciroppo d’acero - ancora ben confezionati, perché in viaggio avevo sfruttato solo le bustine monouso - e una tavola da surf - grande la metà di una normale, per fortuna - che Edward aveva intenzione di regalare ad Emmett, in parte come ringraziamento per avergli prestato l’auto.

Quando arrivò il momento dei saluti mi resi conto che non avremmo più rivisto Jacob. Forse non per sempre, ma di certo non era neanche sicuro che un giorno ci saremmo incontrati di nuovo. Abitavamo così distanti che era quasi impossibile che ci saremmo rivisti.

«A inizio ottobre ci sarà l’Albuquerque International Balloon Fiesta. Potreste farci un salto, prendervi una piccola vacanza», ci disse, stringendo la mano di Edward e battendogli una pacca sulla spalla.

«È una buona idea», convenne Edward, ricambiando quello strano abbraccio tipico degli uomini.

«Perfetto», disse Jacob, sorridendo. Guardò entrambi, prima di avvicinarsi a me per salutarmi. «Ci sentiremo, comunque. Una telefonata ogni tanto non guasta».

Annuii, e ricambiai il suo abbraccio.

Io ed Edward salimmo a bordo della jeep di Emmett, sistemando le ultime cose prima di ripartire.

«Ricordatevi di tornare a trovarmi se mai passerete da queste parti», ci disse, appoggiato al mio finestrino completamente abbassato. «Ah, e mi piacerebbe venire al vostro matrimonio - quello vero, questa volta. Non sono mai stato a Chicago, sarebbe divertente», aggiunse, ridacchiando e allontanandosi dalla jeep.

Lo guardai stranita, con le sopracciglia inarcate e le guance rosse, mentre Edward metteva in moto l’auto, che prese vita in un secondo. Jacob ci salutò con la mano mentre ci inserivamo nel traffico di Amarillo, un sorriso divertito e al tempo stesso sornione dipinto in viso. L’avremmo rivisto un giorno, su quello non avevo dubbi. E ci saremmo sentiti ogni tanto per telefono, restando sempre in contatto. Jacob era un bravo ragazzo, una delle tante belle cose che avevamo incontrato durante quel viaggio meraviglioso, e nessuno di noi l’avrebbe mai dimenticato.

 

Ritornare a bordo della jeep di Emmett fu strano. Non ero più abituata a viaggiare in un ambiente così ristretto rispetto a quello ampio del furgoncino di Jacob, e i sedili dietro ora non erano più colmi di coperte e giubbotti del fratello di Edward, ma erano nascosti sotto una valanga di sacchetti e scatole. La tavola da surf era posizionata diagonalmente contro i sedili anteriori, in modo tale da non ostacolare la vista del lunotto ad Edward.

Essendo rimasti diverso tempo ad Amarillo quel pomeriggio, quella notte dovemmo fermarci a Tulsa, ancora nei confini dell’Oklahoma. Eravamo ancora nel bel mezzo del continente americano, e la notte risultò difficile e afosa. Avevo sempre pensato che Chicago fosse un vero inferno durante l’estate, ma dopo quel viaggio avevo compreso quanto mi sbagliassi: era sì una città afosa, ma di notte, soprattutto lungo la costa del lago Michigan, si poteva respirare un’aria più fresca e rilassante. Lì, invece, negli Stati centrali, si annaspava alla ricerca di un filo d’aria sia di giorno che di notte. Per quel motivo iniziavo a sperare che il giorno dopo riuscissimo ad arrivare a casa di Edward per passare la notte. Non sarei tornata al mio appartamento per dormire, non ne avevo assolutamente voglia.

Fortunatamente, il giorno dopo il traffico sulla freeway era quasi inesistente - e quel poco che c’era era diretto nella direzione opposta alla nostra - così riuscimmo a viaggiare senza intoppi. Le miglia che ci separavano dall’Illinois filarono lisce come l’olio, soprattutto perché non prendemmo la deviazione che ci avrebbe portati in Kansas - un altro Stato attraversato dalla Route 66, ma che per velocizzare il rientro avevamo deciso a malincuore di saltare. Il Missouri fu l’ultimo Stato che ci lasciammo alle spalle, e quando finalmente apparve il cartello che ci dava il benvenuto in Illinois iniziai a sentire la stanchezza di tutto quel viaggio prendere il sopravvento. Avevamo corso come dei pazzi da un lato all’altro degli Stati Uniti in soli tre giorni, e se ero io così stanca da reggermi a malapena in piedi non potevo neanche immaginare quanto lo fosse Edward, che aveva guidato per più di duemila miglia filate. Tuttavia, a parte i cerchi scuri sotto i suoi occhi, null’altro di lui sembrava dare l’impressione che fosse stanco. I suoi occhi vagavano vispi sulla strada, e le sue labbra erano piegate in un piccolo sorriso rilassato. Ogni tanto la sua mano cercava la mia, che lasciavo tenesse stretta alla sua sul cambio dell’auto. Non parlavamo molto, e lasciavamo che fosse la musica ad accompagnare quel silenzio rilassato in cui ci trovavamo.

A sera inoltrata, dopo cena, il paesaggio iniziò a diventare più familiare, conosciuto. Riconoscevo le insegne dell’hotel e i nomi delle cittadine a cui passavamo di fianco, e i cartelli iniziavano ad annunciare le diverse uscite della freeway che conducevano a quartieri e angoli diversi di Chicago. Edward si inserì nel traffico cittadino quando ci trovavamo già nel bel mezzo della città, a pochi isolati da dove si trovava il mio appartamento.

«Vuoi passare dall’appartamento?», mi chiese Edward, una volta fermo ad un semaforo rosso.

Annuii lentamente. «Vorrei andare a prendere qualche vestito pulito…»

«Va bene», disse, e all’incrocio tirò dritto, in direzione di quella che fino a poche settimane prima era la mia casa ma molto presto non lo sarebbe più stata.

Arrivammo in pochi minuti. Edward fermò l’auto davanti al portone che conduceva al mio appartamento, dall’altra parte della strada. Le luci del terzo piano - il mio - erano accese. Jessica doveva essere in casa. Speravo non ci fosse anche Mike, ma ne dubitavo, purtroppo.

Frugai nel vano portaoggetti davanti a me, dove appena partiti avevo ritirato le mie chiavi di casa, trovandole quasi subito. Presto non ne avrei più avuto bisogno, per fortuna.

«Vuoi che venga a darti una mano?», mi chiese Edward, spezzando il silenzio.

Annuii. «Però, parlo io con Jess, d’accordo?»

Sospirò. «Speriamo che abbia messo un po’ di sale in quella testa ossigenata», borbottò, aprendo la portiera e scendendo.

Sorrisi amaramente, imitandolo. Attraversammo la strada fianco a fianco, e dopo aver aperto il portone salimmo con l’ascensore fino al terzo piano. Il mio appartamento era il secondo sulla sinistra. La porta si aprì dopo una sola mandata alla serratura, e la prima cosa che avvertii appena misi piede dentro fu la puzza irritante di fumo di sigaretta. Non ero sorpresa: ero certa che Jessica avrebbe ripreso a fumare in casa invece che sul balcone non appena me ne sarei andata.

Non feci in tempo a fare un solo passo nel piccolo ingresso che Jessica apparve sulla porta della cucina, un’espressione sorpresa dipinta in volto. I capelli biondi erano raccolti in una coda ordinata e gli occhi erano come sempre una maschera di trucco.

«Bells!», esclamò, correndo ad abbracciarmi sulla punta dei tacchi. Non avevo mai capito la sua mania di indossare scarpe simili perfino in casa, nemmeno quando il suo ragazzo non era presente, ma ormai ci avevo fatto l’abitudine.

Ricambiai brevemente la sua stretta, che si allentò subito. Il suo sguardo era puntato alle mie spalle.

«Edward!», cinguettò, sbattendo le palpebre. Si avvicinò a lui. «Che sorpresa», continuò. Il suo tono, ogni volta che si rivolgeva a lui o a qualsiasi ragazzo le interessasse, era viscido e mi faceva saltare i nervi. Calma, Bella, questa è l’ultima volta che assisterai a scene simili, mi ricordai, per mantenere i nervi saldi.

«Jessica», disse solamente Edward, a mo’ di saluto. Mi passò accanto, sfiorandomi la vita. «Inizio a prepararti una borsa, okay?», mi chiese, dirigendosi verso la mia camera.

Annuii, guardandolo mentre si chiudeva in camera mia.

Chiusi la porta dell’ingresso alle mie spalle e andai in cucina, trovandola stranamente vuota. Di Mike non c’era traccia, a meno che fosse chiuso in camera di Jess o in bagno.

«Niente Mike stasera?», le chiesi, appoggiando la borsa sul tavolo della cucina. Aprii il frigorifero, trovandolo vuoto, se non per qualche scatola di cibo take-away lì da chissà quanto tempo. Richiusi l’anta cercando di nascondere la smorfia di disgusto e fastidio. Avrei bevuto qualcosa quando sarei arrivata a casa di Edward, ormai.

«È andato a prendere le birre», disse lei, muovendosi in cucina per andare a sedersi ad una sedia del tavolo. Accavallò le gambe, e mi guardò con interesse.

«Dunque, com’è andato il viaggio?»

Sembrava davvero interessata.

«Bene… molto bene, anzi», risposi, decidendo di non aggiungere altro.

«Quando l’hai incontrato Edward? Mentre tornavi a casa? Sembra cambiato, non trovi? Erano mesi che non lo vedevo! Che sorpresa trovarselo davanti così all’improvviso! Magari potremmo andare a bere qualcosa tutti insieme appena Mike ritorna! Anzi, perché non andiamo subito? Gli lasciamo un biglietto». Aveva preso la tangenziale. Si stava già alzando quando decisi di mettere fine al suo fiume di domande e speranze vane. La conoscevo e sapevo cos’aveva in mente, ma non sarebbe riuscita nel suo intento di uscire con Edward proprio come non c’era mai riuscita.

«A dire il vero, il viaggio l’ho fatto con lui. Siamo tornati insieme. In questo momento sta prendendo alcune mie cose da portare a casa sua, e in settimana tornerò a prendere il resto. Mi trasferisco da lui», dissi tutto d’un fiato, guardandola dritta negli occhi azzurri. 

Jessica rimase a bocca aperta per alcuni secondi.

La porta d’ingresso sbatté con violenza, e Mike fece il suo ingresso in cucina, con la testa bassa mentre cercava di tenere fra le braccia mezza dozzina di bottiglie di birra.

«Te ne vai?», chiese poi lei, incredula.

Annuii.

«Chi se ne va?», intervenne Mike, appoggiando le bottiglie sul tavolo, riuscendo a tenerle tutte in piedi. Alzò il capo, vedendomi per la prima volta. «Oh. Bells», disse, sorridendo. «Ti unisci a noi stanotte?»

Strinsi le labbra.

«No», rispose al mio posto Jessica. «Isabella ha deciso di andarsene, Mike».

L’espressione di Mike divenne buia. «Te ne vai dove? Hai deciso di lasciare una volta per tutte Jess senza neanche avvisare? Bel comportamento, davvero».

«La sto avvisando ora», ribattei. «E sei pregato di non immischiarti, dato che questa non è casa tua, quindi questa non è una discussione che ti interessa».

«Mi interessa eccome», sbraitò, venendo avanti. «L’hai già lasciata per tre settimane per andartene chissà dove, fregandotene del casino in cui si trovava, e adesso le dici che te ne vai per sempre? E chi dovrebbe pagare il tuo affitto d’ora in poi?»

«Metterà degli annunci online e sui giornali, e troverà sicuramente in un attimo una nuova coinquilina. Chicago è piena di studenti in cerca di un posto dove stare», dissi, cercando di mantenere la calma.

«Non se ne parla!», ribatté, avvicinandosi ancora. «Ora mi stai bene a sentire…»

«Fai un altro passo e ti butto giù dal balcone, Newton», sibilò Edward, entrando in cucina alle sue spalle.

Mike si girò, guardandolo in cagnesco. «Fatti i cazzi tuoi, Cullen», sbottò.

«Ti consiglio di fare lo stesso».

Feci una smorfia. Questo era proprio ciò che avrei voluto evitare: uno scontro fra Edward e Mike.

«Tacete!», strillò Jessica, impettita. Appena i due ragazzi tacquero mi guardò con gli occhi azzurri pieni di panico. «Non puoi restare un altro po’? So che mi sono comportata male prima che partissi, ma possiamo parlarne e cercherò di fare meglio da adesso in poi».

Abbassai lo sguardo. Vederla così in panico in parte mi faceva sentire in colpa: la stavo abbandonando senza preavviso, nonostante sapessi che Jessica non fosse in grado di prendersi la responsabilità di un appartamento a carico interamente suo. Ma dall’altra parte ero stufa di dover essere io a prendermi cura di lei e Mike, e soprattutto odiavo che lui se ne approfittasse di noi. Doveva imparare a prendersi le sue responsabilità, e non l’avrebbe mai fatto se fossi rimasta con lei.

«Non voglio andarmene solo per colpa tua», le dissi, e quella era la verità. «Avrei dovuto andarmene già da tempo, prima ancora che tu arrivassi in questo appartamento, ma non ne ho mai avuto il coraggio. Mentre ero in viaggio ho capito che ho sbagliato, e non voglio più perdere tempo prezioso».

Mi avvicinai a lei, posando una mano sul suo braccio, cercando di rassicurarla. «Andrà tutto bene, vedrai. Nel giro di una settimana avrai una nuova coinquilina. Non sarai sola».

Jessica incrociò le braccia sotto al seno e girò sui tacchi, sparendo dalla cucina, senza dire nulla. Mi lanciò un’occhiata avvelenata, e nient’altro.

Sospirai pesantemente.

«Complimenti, Bella, proprio un comportamento da amica, il tuo», sibilò Mike.

«Taci», gli intimò Edward. «Jessica deve imparare a prendersi le sue responsabilità, non è una bambina. E tu dovresti smetterla di approfittarti di lei come una sanguisuga e cercare di fare qualcosa per aiutarla invece di attaccare Bella. Lei ha il diritto di vivere la sua vita senza avere sulla coscienza persone come voi che non fanno altro che approfittarsene».

Gli strinsi il braccio, pregandolo di fermarsi. Edward mi guardò combattuto. Avrebbe voluto dire altro, lo sentivo. Ma non volevo che lui e Mike si mettessero a litigare. Volevo solo andarmene da quella casa e quelle due persone.

«Andiamocene», gli dissi, pregandolo con gli occhi di darmi ascolto.

Edward annuì e ci chiudemmo nella mia camera, dove aveva aperto una valigia che tenevo sopra l’armadio e l’aveva riempita dei primi vestiti che aveva trovato nei cassetti. Infilai al suo interno anche l’intero contenuto dei cassetti dell’intimo e del bagno, ringraziando di avere già parecchie cose di prima necessità nella valigia ancora in macchina. Chiusi la zip del trolley ed Edward lo trascinò lungo il piccolo corridoio fino all’ingresso. Chiusi la porta della mia camera a chiave, ripromettendomi di tornare già il giorno successivo a terminare di portare via le mie cose.

Jessica si era chiusa in camera sua - da cui proveniva il rumore dello stereo a tutto volume - e neanche quando la chiamai per salutarla diede segno di voler uscire o anche solo rispondermi. Le sarebbe passata prima o poi. Forse.

Mike era seduto sul divano in cucina, e guardava con aria annoiata un quiz televisivo. In mano aveva una bottiglia di birra.

«Noi ce ne andiamo. Di’ a Jessica che domani passerò a finire di prendere le mie cose, per favore», gli dissi.

Lui non alzò neanche il viso per guardarci. Ci lasciammo così, senza salutarci. Non lo sapevo, ma quella sarebbe stata l’ultima volta in cui ci saremmo parlati. Non avrei sentito la sua mancanza, fortunatamente.

Edward mi strinse la mano mentre chiudevo la porta dell’appartamento, e insieme ci lasciammo alle spalle quel luogo.

 

La villa di Edward era avvolta dall’oscurità. Lasciammo l’auto nel vialetto davanti al garage, scendendo e dirigendoci verso i gradini della porta d’ingresso. Nell’aria c’era profumo di notte, fiori e acqua dolce di lago. Faceva caldo, ma un’arietta fresca soffiava regolarmente, rendendo il clima perfetto.

Edward infilò le chiavi nella toppa della porta, aprendola lentamente. Il segnale dell’antifurto si attivò con il conto alla rovescia non appena dischiuse l’uscio, e lui allungò una mano verso il centralino alla sua sinistra per disinstallarlo. Tornò il silenzio.

La casa non odorava di chiuso come mi aspettavo, e tutto sembrava pulitissimo; qualcuno - Esme, sicuramente - era passato da non molto - probabilmente in giornata - a dare una ripulita dalla polvere in visione del nostro arrivo. In fondo al salone si vedeva oltre le due portafinestre il giardino, illuminato dalla luce della luna e da pochi faretti accesi, e più in là il lago.

Edward mi prese una mano, e facemmo pochi passi nell’ingresso. Mi guardai attorno. Da quel momento quella sarebbe stata la mia casa. La nostra casa.

Mi sentii attirare contro di lui, e strinsi le braccia intorno alla sua vita.

Le sue mani si chiusero sulle mie guance e avvicinò il mio viso al suo, fino a far sfiorare le punte dei nostri nasi.

Sorrisi, sentendo il suo fiato confondersi con il mio.

Il suo sussurro arrivò delicato alle mie orecchie.

«Benvenuta a casa».

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Il Diario di Bella - blog dove potete vedere immagini dei luoghi visitati nel corso della storia.

Buongiorno!

Sono in super-ritardo-che-più-ritardo-non-si-può, me ne rendo conto :( ho avuto un calo di ispirazione durante il quale non riuscivo a scrivere proprio nulla, almeno fino a ieri sera. Il capitolo è molto riassuntivo, ma del resto non aveva senso raccontare nei minimi dettagli il ritorno, che sarebbe risultato noioso dato che Edward e Bella non hanno praticamente visitato nulla. Mi è sembrato giusto però dare il dovuto saluto a Jacob e risolvere la questione Jessica/Mike/appartamento, e mostrare l'arrivo a casa dei nostri viaggiatori.

L'epilogo è già pronto da settimane ormai, e lo posterò lunedì.

Ringrazio già tutti coloro che leggeranno questo capitolo e decideranno di lasciare una recensione nonostante il mio immenso ritardo!

A lunedì! :*

   
 
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