Anime & Manga > Il mistero della pietra azzurra
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Autore: Puglio    04/08/2012    1 recensioni
Il capitolo finale del mio seguito di "Nadia: il mistero della pietra azzurra". Nadia è partita alla volta di Atlantide. Jean, in un ultimo disperato tentativo di ritrovarla, decide di rivolgersi all'unica persona che conosce abbastanza la cultura di Atlantide per aiutarlo... ma non è un'impresa facile. Ora è solo, e non può fare affidamento che sulle sue forze. Intanto, Winston scopre che la sua missione si fa sempre più complicata...
Genere: Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Atlantide, decimo mese del Nuovo Sole

Da qualche parte, nel territorio di Agarthi

 

 

 

 

 

Era quasi l'alba. Il cielo era sereno, trapuntato di stelle ma senza luna. La notte stava attraversando il suo momento più buio, e di lì a poco il sole avrebbe cominciato a rischiarare pigro l'orizzonte.

Due figure incappucciate se ne stavano rannicchiate dietro uno sperone di roccia, in attesa del momento migliore per muoversi. Erano di aspetto minuto e si mimetizzavano alla perfezione nel buio, tanto che solo chi avesse saputo dove cercarli li avrebbe individuati. Immobili, sembravano due statue di sale.

Mozo gettò un'occhiata alle sue spalle. Sidi stava rabbrividendo, ma non solo per il freddo.

«Ci muoviamo?» sussurrò. «Qui si gela».

Mozo gli fece segno di tacere, portandosi un dito alle labbra. Raccolse un sasso da terra e con circospezione aggirò la roccia dietro cui si nascondevano. Il drone era ancora al suo posto e non dava segno di muoversi. Se non si fosse inventato qualcosa per smuoverlo da lì, pensò Mozo, chissà quanto ancora avrebbero dovuto aspettare.

A volte succedeva. Quei droni erano per lo più dei vecchi catorci inservibili, incapaci di resistere all'escursione termica che nel deserto si verificava al passaggio tra il giorno e la notte, quando le temperature si abbassavano drasticamente fin sotto lo zero. Spesso, il brusco passaggio dal caldo rovente al gelo si rivelava fatale per i loro circuiti, già indeboliti dal tempo. Proprio come poteva rivelarsi fatale per chi osasse avventurarsi nel deserto senza i mezzi e le conoscenze adeguate e venisse sorpreso dalla notte senza un riparo.

Mozo si abbassò il cappuccio della sua logora tunica di panno, stretta in vita da un semplice legaccio di cuoio. Era tutto quello che indossava. Con due calzari ai piedi e una veste strappata come unica protezione, si era abituato ben presto alle temperature estreme del deserto. Anche se aveva solo tredici anni – almeno era quello che gli avevano sempre detto – ormai aveva sviluppato una resistenza non indifferente.

Il drone era immobile. Mozo trattenne il respiro, mentre sollevava la mano. Attese un istante, quindi, mordendosi le labbra, scagliò il sasso il più lontano possibile, facendo attenzione che rimbalzasse sulla grata sottostante.

Dopo un breve istante, il sasso atterrò sulle sbarre a qualche decina di metri da loro, producendo un clangore debole ma distinto. Il drone si riattivò all'improvviso e lentamente si allontanò, dirigendosi verso la fonte di quel rumore con un sonoro ronzio. Una volta raggiunta la sua nuova posizione, sembrò ripiombare in uno stato di inerzia.

«Adesso!»

Mozo e Sidi scattarono in piedi, raccogliendo le taniche che avevano portato con loro e caricandosele in spalla. Quindi, senza fare rumore, si precipitarono verso l'ingresso alla grata più vicina.

Mozo si accovacciò a terra, e come sempre Sidi lo imitò a ruota. Sidi era di circa due anni più vecchio, e rispetto a Mozo era più alto e robusto. Ma era anche meno sveglio. Mozo lo sapeva, come sapeva che la forza bruta era l'unica qualità su cui Sidi poteva contare, e che spesso utilizzava per rivalersi su di lui e sui ragazzini più deboli. Tuttavia, Mozo aveva qualcosa con cui ricattare il compagno, in modo da farlo stare al suo posto.

«Non è che quel drone tornerà qui?» chiese Sidi, preoccupato. Mozo sghignazzò divertito. Se lo aspettava. Come sempre, Sidi era un fifone.

«No, ormai il suo programma di mappatura è completamente andato. Reagisce solo ai rumori. Quindi, finché non ci faremo notare, non avremo problemi».

Sidi non sembrava troppo convinto. Mozo accennò un sorriso di sfida.

«Che c'è?» fece. «Preferisci andare tu, allora? Se vuoi, resto io ad aspettarti».

Sidi sbiancò. «Muoviti» ringhiò. Mozo si voltò lesto, trattenendo una risata maligna. Sapeva che Sidi non avrebbe mai avuto il coraggio di scendere sotto la grata, e con quella allusione lui l'aveva punto sul vivo, prendendosi una piccola rivincita. Erano anni che Mozo doveva occuparsi anche della parte di lavoro di Sidi, praticamente da quando avevano cominciato a uscire insieme per la raccolta. In un primo momento Sidi l'aveva costretto con la forza, ma ora Mozo era cresciuto, e volendo avrebbe anche potuto ribellarsi. Avrebbe sopportato ben volentieri qualche livido e un po' di ammaccature, se questo avesse significato liberarsi del tutto di quel fardello. Tuttavia, se ancora continuava a caricarsi della sua parte di lavoro, era perché sapeva che così poteva tenerlo in pugno, e ricavarne qualche vantaggio. E questo, anche Sidi lo sapeva benissimo.

Mozo si sfilò i calzari e li infilò nella cintura. Quindi si buttò a tracolla le taniche, due per spalla, e agile come un ratto si infilò nello spazio che si apriva tra la roccia e la grata.

Non appena fu sotto, il vento gelido della notte sembrò cessare del tutto. L'aria era tiepida: c'era un forte sentore di umidità, insieme a una puzza di muffa impressionante; nulla che Mozo non conoscesse. Reggendosi al bordo, il ragazzo cercò a tastoni un punto a cui appigliarsi che fosse comodo e possibilmente non ricoperto di acqua o di muffa. Quando lo trovò, ci si aggrappò saldamente e cominciò a discendere sotto la grata.

Quello era il momento più pericoloso. Era tutto buio, e bagnato. Tra una sbarra e l'altra della grata potevano tranquillamente passarci almeno sei persone in fila. Sarebbe bastato mettere il piede in un punto sdrucciolevole e la morte sarebbe stata inevitabile.

Mozo lanciò un'occhiata sotto di sé. Oltre alla prima grata, che era quella sopra la sua testa, la Sicurezza Cittadina aveva fissato un'altra grata, e sotto di essa un'altra grata ancora, quest'ultima però dalla trama molto più fitta. La prima grata aveva lo scopo di contenere l'accidentale caduta di massi o di altro materiale di grandi dimensioni proveniente dall'esterno. La seconda, più interna e dalla trama ampia, era posta a meno di due metri di profondità dalla prima e serviva come ulteriore protezione. L'ultima grata, invece, aveva una trama fitta, era posta a ridosso degli immensi pannelli fotovoltaici fissati nel sottosuolo e serviva a frenare la caduta di quelli che, come Mozo, osavano avventurarsi illegalmente sotto le grate.

In realtà, Mozo sapeva benissimo che quella non era stata una misura volta alla sua sicurezza. Se fosse scivolato, la grata l'avrebbe di certo trattenuto: ma ammesso che fosse possibile non spezzarsi le ossa precipitando da una decina di metri su delle sbarre di acciaio spesse un metro, una volta caduto sarebbe stato comunque impossibile per lui ritornare in superficie. E questo, perché l'ultima grata si trovava troppo in profondità rispetto alle altre. Inoltre, non esistevano né scale né altre vie che conducessero all'esterno. In pratica, sarebbe stato in trappola. E non appena i pannelli avessero ripreso a funzionare, assorbendo l'energia che il sole infuocato riversava su di loro durante il giorno, la grata sarebbe divenuta incandescente, arrostendo Mozo come fosse uno spiedo.

L'unico motivo per cui era stata posta quella grata, rifletté Mozo, era per proteggere le persone che si trovavano più in basso – cioè gli abitanti della capitale. Nessuno voleva passeggiare per strada con la paura costante di un qualche poveraccio che, dal cielo, poteva piombargli dritto sulla testa. Ma che gli straccioni come Mozo morissero abbrustoliti su quella grata, dopo esservisi introdotti illegalmente, era un problema che ad Agarthi, l'immensa capitale eretta a oltre novecento metri sotto il livello del suolo, non interessava a nessuno.

Mozo avanzò con cautela sulle sbarre bagnate e sdrucciolevoli, cercando di non pensare alle persone che aveva conosciuto e che sapeva essere morte proprio in quel modo. Molti ragazzini della sua età erano scivolati tra le sbarre, a causa di un movimento sbagliato o della scarsa attenzione; e probabilmente le loro ossa si trovavano ancora laggiù da qualche parte, sull'ultima grata, solo pochi metri più in basso. Alcuni li aveva conosciuti di persona, trovandosi a condividere con loro le fasi della raccolta; di altri, invece, aveva solo sentito parlare.

Quella sera, però, sembrava il solo ad essersi avventurato in quel settore. Le grate erano circa un migliaio, sparse su tutto il territorio di Agarthi. Lunghe centinaia di metri e composte da sbarre spesse fino a tre, si estendevano per chilometri tutt'intorno al perimetro della città. Le fila più interne, sorvegliate a intervalli regolari dai presidi della Guardia Cittadina, erano inavvicinabili. Alcune tra le più centrali, sotto cui si diceva si trovasse lo stesso Palazzo Reale, erano addirittura cinte da mura poderose. Le grate più esterne, invece, erano per lo più affidate al controllo dei droni elettronici, vecchi sistemi di allarme che difficilmente riuscivano a coprirne in modo efficace la vastissima superficie. Così che, per quelli come Mozo, era molto più semplice avvicinarsi ad esse.

Mozo odiava calarsi sotto quelle grate, ma si era abituato a farlo. Due volte a settimana – ma a volte anche tre o quattro nei periodi più caldi – veniva lasciato da Zifoud, il carovaniere, nei pressi di un settore ogni volta diverso. Una volta lì, lui e Sidi dovevano avventurarsi fino alle grate, e trovare il modo per scendere sotto di esse per raccogliere l'acqua che grondava dalle sbarre. Questo in teoria, visto che in realtà, dei due, lui era l'unico a farlo.

Mozo avanzò lentamente. Sentiva i piedi scivolare sulle sbarre bagnate, mentre con la punta delle dita cercava un appiglio nella grata sopra la sua testa.

Alla fine, trovò un punto che gli sembrava buono. Aveva imparato che il posto migliore per la raccolta era dove le immense sbarre presentavano una naturale curvatura per il peso, e cioè lontano dai margini esterni. In quei punti l'acqua si raccoglieva là dove la sbarra incrociava perpendicolarmente con le altre. Mozo allungò una mano, reggendosi con l'altra alla sbarra che lo sovrastava e restandosene in equilibrio sulle punte. La sbarra sotto i suoi piedi era bagnata, segno che quella notte si era formata molta acqua. Infatti, poco avanti a lui, in corrispondenza di un incrocio tra le sbarre, Mozo avvertì un sottile filo di liquido gelido lambirgli il palmo della mano.

Con attenzione, ma con movimenti veloci, Mozo posizionò una tanica a raccogliere l'acqua, lasciando che si riempisse completamente. Quindi posizionò le altre taniche tutt'attorno a sé, là dove l'acqua fluiva più abbondantemente.

Si sedette, aspettando che le taniche fossero piene. Se si era fortunati, per riempire una tanica da quattro litri si impiegava circa mezzora. Talvolta, quando l'acqua era più scarsa, anche un'ora o due.

Il peggio era quando doveva tornare in superficie con le taniche mezze vuote, perché l'acqua era poca e le taniche impiegavano troppo tempo a riempirsi. In quei casi, la punizione di Zifoud non si faceva attendere.

Certo, Mozo si rendeva ben conto del valore di quelle taniche. Nel suo mondo, ben lontano dagli sfarzi di Agarthi, l'acqua era un bene prezioso, anzi, forse il più prezioso. In pochi erano coloro che avevano il coraggio di raccogliere l'acqua: in parte perché era illegale, e in parte perché solo i bambini potevano infilarsi e muoversi nello spazio angusto tra una grata e l'altra. E questo lo rendeva un affare piuttosto ghiotto per chi, come Zifoud, radunava randagi e orfani da usare come raccoglitori, così da rivendere le taniche a peso d'oro al mercato nero dei villaggi.

Tuttavia, per chiamare acqua quella brodaglia che puzzava di muffa e sapeva di ferro, ci voleva un certo coraggio.

Un tempo, Zifoud gli aveva spiegato come faceva l'acqua a formarsi dal ferro.

«Non si forma dal ferro» gli aveva detto. «Sotto le grate, a quasi un chilometro di profondità, si trova la nostra capitale, Agarthi. Il calore e il respiro dei milioni di persone che vivono ad Agarthi e che ogni giorno si riversa nel cielo, alla fine arriva alle grate; dove, con il caldo, comincia a evaporare e a depositarsi sulle sbarre. Quando si fa notte, a causa del freddo all'esterno e del caldo all'interno, il vapore si condensa e si trasforma in tante goccioline d'acqua, che sommate tutte insieme diventano una vera e propria fonte».

A Mozo faceva schifo l'idea che quello che lui e la gente come lui beveva ogni giorno fosse il risultato del sudore e del respiro di quanti vivevano sotto di loro, nella capitale. Ma l'unica alternativa a bere quella roba era morire, e quindi non si poteva nemmeno parlare di una vera e propria alternativa.

Mozo sospirò, lanciando un'occhiata sognante alle luci che brillavano lontane, sotto ai suoi piedi. Quell'immenso mare di luci tremolanti e di diverso colore, quasi un cielo ai piedi del cielo, era la sua capitale, l'immensa Agarthi. Mozo non l'aveva mai vista, ma sapeva per sentito dire che su tutta Atlantide esistevano almeno altre centinaia di città come Agarthi, sparse in continenti diversi.

Sapeva anche che, da qualche parte là sotto, si trovava il palazzo Reale, in cui abitava la sua nuova Regina. Ne aveva sentito parlare proprio da Zifoud, che ne aveva discusso qualche tempo prima al Suq – il mercato del villaggio – con un mercante di schiavi. Sembrava che la nuova Regina si fosse insediata già da alcuni mesi, ma per il momento nessuno del mondo esterno l'aveva mai vista. Molti pensavano perfino che si trattasse di una leggenda, semplice propaganda del governo centrale per indebolire le forze ribelli.

Mozo pensò all'acqua che cadeva dalle sbarre e che precipitando si trasformava in rugiada invisibile prima ancora di toccare il suolo della città, novecento metri più in basso. Era impossibile che qualcuno, là sotto, sapesse quello che stava facendo uno come lui. Figurarsi la Regina.

«Ehi, ci sei?»

Sidi si affacciò, titubante. Lanciò un'occhiata sotto la grata, ma si tirò subito indietro, spaventato. Mozo sbuffò, seccato.

«Arrivo» disse «ho quasi fatto».

«Passami le taniche».

Mozo esitò. Sapeva che Sidi avrebbe preso le taniche e sarebbe corso subito da Zifoud, senza stare ad aspettarlo. Grazie a quella tattica era diventato in poco tempo il preferito del vecchio carovaniere: infatti, vedendolo rientrare ogni volta prima di Mozo, Zifoud si era fatto l'idea che Sidi fosse il più abile dei due a fare rifornimento.

«Aspetta, finisco di riempirle tutte e poi andiamo».

«Non fare lo scemo» ribatté Sidi, duro. «O quando esci ti pesto».

Mozo fu sul punto di rispondergli, ma si trattenne. Avrebbe potuto sfidarlo a farlo: ma anche se lui non era più così debole come un tempo, Sidi era di sicuro più violento e più sadico e avrebbe fatto in modo di trasformare una semplice rissa in qualcosa di peggio. Mozo trovò più saggio rassegnarsi e passò al suo compagno la prima tanica.

«Ne manca una» fece Sidi, aggrondando.

«Ora arriva».

Mozo passò a Sidi anche la seconda tanica da quattro litri, quindi trascinò le sue fino al bordo esterno, issandosele sulle spalle una alla volta. Quando le taniche furono al sicuro, Mozo si sollevò aggrappandosi con una mano al bordo di roccia e con l'altra al margine esterno della grata. Quindi uscì dal cunicolo.

Si asciugò le mani sulla tunica di panno grezzo, ed estrasse i calzari dalla cintura, infilandoli ai piedi. Quando sollevò gli occhi, però, rimase sorpreso. Sidi era ancora fermo al suo posto, vicino a lui, e con le taniche in mano. Sembrava paralizzato.

«Che ti prende?» gli chiese Mozo, perplesso. Non era mai successo che Sidi lo aspettasse all'uscita. «Come mai sei ancora qui?»

Sidi non rispose. Si limitò a voltarsi, lanciandogli un'occhiata impaurita e accennando a qualcosa nel buio, avanti a sé.

Mozo strizzò gli occhi. In effetti, poco più avanti, si intravedeva qualcosa. Ai piedi di alcune rocce, sembrava esserci il corpo di una persona.

Sidi lasciò cadere le taniche.

«Vado a chiamare Zifoud».

«No!»

Mozo lo trattenne per un braccio, costringendolo a voltarsi. Sidi si liberò facilmente dalla sua presa, ma lo fece con un certo fastidio, misto a inquietudine.

«Che diavolo ti prende?» fece. «Provaci ancora, e ti concio per le feste».

«Aspetta».

Mozo si avvicinò con cautela al corpo disteso. Era un uomo e sembrava privo di sensi. Si chinò su di lui, per guardarlo più da vicino. Sidi osservava la scena alle sue spalle, trattenendo il respiro.

Mozo studiò il volto dell'uomo che aveva davanti. Era giovane, e dimostrava non più di vent'anni. Indossava gli occhiali e aveva capelli folti e fulvi, oltre a una barba sottile che gli tingeva di rosso le guance. Doveva aver preso un'insolazione, perché aveva la pelle molto arrossata e le labbra secche. Mozo gli posò una mano sulla fronte e si accorse che bruciava.

«È morto?» domandò Sidi. Mozo nicchiò, piegando la testa a considerare lo strano modo di presentarsi di quel tipo.

«No» fece. «Ma deve essersi perso. Probabilmente è svenuto dopo aver vagato tutto il giorno sotto il sole».

«Allora, morirà presto» commentò Sidi con una scrollata di spalle. Mozo non gli rispose. Probabilmente, aveva ragione.

«Indossa strane vesti» commentò perplesso, fissando incuriosito gli scarponi di cuoio e i pantaloni di fustagno robusto che l'uomo aveva indosso. «Forse si tratta di un cittadino».

«Cittadino?» scattò Sidi. Sembrava essersi fatto improvvisamente curioso. «E cosa ci fa qui, un cittadino?»

«Forse l'hanno rapinato. E poi l'hanno abbandonato qui».

«Potrebbe essere anche un bandito».

Mozo osservò meglio il corpo. Non sembrava per nulla un bandito. Per prima cosa, non aveva armi con sé; e nonostante avesse chiaramente sofferto, aveva un aspetto curato e indossava abiti puliti. E poi, i banditi si muovevano sempre in gruppi piuttosto numerosi: era difficile sopravvivere nel deserto quando non avevi una vasta comunità su cui contare, e questo lo sapevano persino i fuorilegge. Figurarsi muoversi da solo, per giunta senz'acqua. Certo, avrebbe potuto essere un fuggitivo; o magari era stato abbandonato dal suo gruppo, in seguito a qualche discussione. Capitava spesso che all'interno di una banda scoppiassero liti furibonde, che di solito sfociavano in un improvviso rovesciamento dei ruoli di potere. Forse quel tipo era stato semplicemente costretto ad allontanarsi, se non a fuggire velocemente per salvare la pelle. Questo avrebbe spiegato perché non aveva nemmeno un bagaglio con sé.

Sidi si avvicinò titubante. Osservò il corpo e lo pungolò con la punta di un piede. Quando vide che non rispondeva, si chinò e scostò Mozo brutalmente, mettendosi a frugare nelle tasche dello sconosciuto.

«Che diavolo fai?» sibilò Mozo. Sidi si voltò, inarcando le sopracciglia.

«Tu cosa dici?» fece. «Su, dammi una mano».

Mozo scosse la testa. Non voleva derubare quel poveraccio, anche se probabilmente per lui non avrebbe fatto molta differenza.

«Datti una mossa!» esalò Sidi.

Mozo esitò, ma solo per un istante.

«Dai, dammi una mano a voltarlo».

Mozo fece per allungare la mano, quando il corpo dell'uomo si mosse improvvisamente. Con uno scatto improvviso, afferrò stretto il polso di Sidi, che lanciò un grido soffocato.

«Chi siete?»

L'uomo si tirò a sedere. Quando si rese conto di aver a che fare con dei ragazzini, rilasciò immediatamente il braccio di Sidi. Il ragazzo indietreggiò fino alla roccia più vicina, rannicchiandovisi contro tremante. Mozo, paralizzato dalla sorpresa, non riuscì a compiere un passo.

«Dove sono?» chiese di nuovo quell'uomo. Parlava una lingua che Mozo non aveva mai sentito. Quando posò gli occhi azzurri su di lui, il ragazzino si guardò intorno smarrito.

«Voi... capite la mia lingua?»

Mozo non rispose. Si voltò lentamente a guardare Sidi, che scosse la testa.

«Perfetto» mormorò l'uomo, sconsolato. «Di bene in meglio». Improvvisamente, emise un gemito, e si portò la mano alla testa.

Per qualche ragione, Mozo sentiva che non c'era bisogno di avere paura. Quel tipo non sembrava un malintenzionato. Si avvicinò, guardandolo con curiosità. A una prima occhiata non dava segno di essere ferito, ma forse aveva preso una botta. Continuava a portarsi una mano alla testa e non riusciva a tenere gli occhi aperti.

«Da dove vieni?» gli chiese. «Sei uno straniero?»

L'uomo scosse la testa.

«Mi spiace, non capisco...»

Poco lontano, risuonò un lungo fischio. Era debole, ma squarciò il silenzio di quella notte come un rasoio.

«È Zifoud» esclamò Sidi, balzando in piedi. «Dobbiamo muoverci».

Mozo strinse i denti. Lanciò all'uomo un'occhiata dispiaciuta. Lui lo fissava confuso.

«Devo andare» disse. Fece per alzarsi, ma qualcosa lo spingeva a trattenersi. Dopo averci riflettuto un attimo, raccolse una tanica; quindi la porse all'uomo con una smorfia imbarazzata.

«Tieni questa» disse. «Ti servirà».

L'uomo guardò la tanica senza capire. Poi, quando il ragazzo gliela posò tra le braccia, la prese e la soppesò. Era piena d'acqua freschissima. Senza pensarci, la aprì e bevve ad ampie sorsate. Mozo lo fermò, prima che la finisse tutta.

«Non così» disse, cercando di farsi capire. «Bevila poco per volta, se no la sete aumenterà e non ne avrai più abbastanza».

L'uomo socchiuse gli occhi e fissò la tanica. Quindi annuì. Sembrava aver capito.

Mozo si morse un labbro, nervoso. Gli dispiaceva lasciare così quel tipo, ma non poteva fare davvero nulla di più per lui.

«Se non sai dove andare, prendi quella direzione e prosegui dritto verso sud» gli disse. «Dopo qualche chilometro troverai una città, anche se non è vicinissima».

Lo sguardo dello straniero si illuminò.

«Città?»

Mozo sorrise. Allora, almeno una parola la conosceva.

«Sì» esclamò allegro, «Polis. Città. A sud».

L'uomo seguì con gli occhi il braccio di Mozo, che gli indicava l'orizzonte. Quindi annuì.

«Polis» ripeté. «Città». Mozo annuì. Di nuovo, un fischio prolungato risuonò a breve distanza.

«Buona fortuna» disse. Ma l'uomo sembrava aver già perso i sensi. Sidi gli si avvicinò a grandi passi.

«Perché gli hai dato l'acqua?» fece, furente. «Zifoud non sarà contento».

«Ci penserò io a lui».

«No» disse Sidi. «Lo scoprirà».

«Non lo scoprirà, se tu non glielo dirai» replicò Mozo, secco. «E sarà meglio per te che tu non lo faccia».

Sidi lo strattonò, fronteggiandolo in tutta la sua mole.

«E come pensi di potermi costringere?»

Mozo si sforzò di non indietreggiare. Raccolse tutto il suo coraggio, e fissò Sidi dritto in volto.

«Se non lo farai, d'ora in avanti mi rifiuterò di scendere ancora al tuo posto sotto la grata» fece, in tono di sfida. «Potrai picchiarmi, ma io non cederò. Mi inventerò qualcosa per evitare di farlo. Mi darò malato, o una volta sotto lascerò cadere le tue taniche... qualsiasi cosa. Ma non lavorerò più al tuo posto».

«Non oseresti farlo» ringhiò Sidi. Mozo annuì, deciso.

«Scommettiamo?»

Sidi accusò il colpo. Si zittì improvvisamente e Mozo notò con sollievo di essere riuscito per la prima volta a strappare dalla sua faccia quel suo sorrisetto perfido.

Il fischio giunse per la terza volta. Entrambi i ragazzi si irrigidirono. Sapevano che non ce ne sarebbe stata una quarta.

«Andiamo» mormorò Sidi, sconfitto. «Muoviamoci».

Mozo annuì e dopo aver raccolto la sua tanica si precipitò al carro insieme al compagno. Un uomo che aveva ormai passato la mezza età era in piedi ad attenderli, e sembrava agitato. Lungo e sottile come una canna piegata dal vento, camminava svelto avanti e indietro, lanciando occhiate nervose avanti a sé. Procedeva con passo ondeggiante, come un marinaio sulla terra ferma, probabilmente a causa della sua gamba destra leggermente più corta. Non appena intravide i due ragazzi, sul suo volto scarno e abbronzato si dipinse un'espressione malevola. Si portò una mano al mento aguzzo, su cui cresceva una barba ispida e striata di grigio, che accarezzava ripetutamente mentre continuava a muovere i suoi occhi vispi e sottili sullo spazio circostante, come a volersi sincerare di qualcosa di cui solo lui era a conoscenza.

Quando i ragazzi raggiunsero il carro, Zifoud andò loro incontro, accogliendoli con aria di rimprovero.

«Era ora. Si può sapere dove vi eravate cacciati?»

Nessuno rispose. Incuriosito dall'insolito silenzio, Zifoud si avvicinò al cassone, dove i ragazzi stavano già sistemando il carico.

«Dov'è l'altra tanica?» chiese. Mozo lanciò a Sidi un'occhiata sfuggente. Il ragazzo impallidì, ma sembrava intenzionato a rispettare l'accordo.

Mozo gettò l'ultima tanica sul cassone, quindi prese posto tra il carico, accanto a Sidi.

«Mi è caduta» fece. «Sono scivolato e mi è sfuggita di mano».

Zifoud lanciò un'imprecazione, afferrandolo per i capelli e piegandogli la testa fino a terra.

«Idiota che non sei altro!» gridò. «Hai idea di quanto valga quella tanica?»

«Mi dispiace, Zifoud».

Il carovaniere serrò le labbra, quindi lasciò andare il ragazzo, limitandosi a sputare per terra.

«Dovrai lavorare sodo, per ripagarmi della perdita» fece. «Non mangerai fin quando non sarò io a dirlo e fin quando non sarò sicuro di aver recuperato i soldi che mi hai fatto perdere. Siamo intesi?»

Mozo annuì. Già si pentiva di aver aiutato quell'uomo. Era stato generoso, da parte sua, ma anche stupido. Da tempo avrebbe dovuto capire che la generosità non portava con sé mai nulla di buono, in un mondo come il suo.

Accanto a lui, udì Sidi sghignazzare.

«Adesso basta» fece Zifoud. «Non abbiamo più tempo da perdere qui. Ormai è l'alba».

Zifoud salì sul carro e lo mise in moto. Il vecchio motore partì sferragliando, e ben presto cominciò a muoversi sobbalzando lungo le dune di sabbia. Ormai lontano, Mozo lanciò un'ultima occhiata al luogo in cui aveva lasciato quell'uomo. Si chiese se ce l'avrebbe fatta, o se sarebbe morto sul serio come aveva previsto Sidi. Probabilmente, non l'avrebbe mai saputo.

Quando tornò a voltarsi, notò che Sidi lo stava fissando.

«Hai avuto quello che meritavi» fece. «Sei uno stupido».

«Forse» rispose Mozo. «Comunque, grazie per avermi coperto».

«Aspetta a ringraziarmi» ribatté Sidi, freddo. «Perché se ci rimetto a causa tua, giuro che ti ammazzo».

 

 

*

 

 

Il Senatore Evadim Kurali possedeva qualcosa che lo rendeva diverso dai suoi amici, come anche dai suoi nemici.

Giunto ormai alla soglia dei cinquant'anni, aveva maturato quella che, orgogliosamente, poteva definire la sua ''corretta visione del mondo''. Se gli avessero chiesto di esporla, e di illustrarne le qualità, probabilmente si sarebbe limitato a una sola parola. E quella parola era ''pazienza''.

Aveva passato metà della sua vita ad affinare e coltivare pazientemente principi quali l'ambizione, la caparbietà, la razionalità. Allo stesso modo aveva imparato a diffidare dell'istinto e della forza bruta, caratteristiche che il più delle volte riteneva dannose sotto qualsiasi punto di vista.

Grazie a questa sua incrollabile dedizione, si era trovato ad occupare la presidenza della Camera di consiglio dei Nobili Reggenti a soli quarantacinque anni, e a diventare membro del Senato solo due anni più tardi. Adesso, dopo una vita spesa nella politica e a tessere intrighi, era stato finalmente eletto Decano del Senato, carica che lo rendeva di fatto l'uomo più potente di Lemuria, lo stato principe della Confederazione Internazionale di Atlantide.

O almeno così sarebbe stato, prima che ne ricomparisse la Regina.

L'arrivo della legittima sovrana di Atlantide si era rivelato capace di scombinare tutti i piani del senatore. Nonostante lui stesso fosse stato il promotore del suo ritorno, doveva ammettere che Nadia Ra Arwol non si era rivelata esattamente la persona che si aspettava. Caparbia, testarda e ingestibile, rischiava di risultare una presenza ingombrante nella vita di Kurali, capace perfino di mettere in crisi quella sua personale ''visione del mondo'' che fino a quel momento lo aveva guidato verso il successo.

D'altra parte, quella ragazza gli era comunque indispensabile. La delusione che Kurali aveva provato, nel momento in cui aveva preso in mano le redini del Regno, era stata cocente: le finanze erano in crisi: e alcuni degli stati membri della Confederazione, un tempo semplici satelliti a cui Lemuria aveva concesso l'indipendenza, si erano incredibilmente arricchiti e ora chiedevano la restituzione degli ingenti prestiti, debiti a cui Lemuria non era in grado di far fronte. Come se non bastasse, il movimento di ribellione capeggiato da alcuni umani del mondo esterno, aveva cominciato a far scricchiolare l'intero apparato politico e militare. Erano sempre più i villaggi che sceglievano di sfidare le forze Governative, schierandosi a fianco dei Ribelli. E con sgomento, Kurali si era reso conto che Lemuria non avrebbe avuto la forza di contrapporsi a lungo a quella crescente ondata di violenza.

L'idea che il suo regno cadesse in rovina proprio nel momento in cui aveva raggiunto il potere, si era rivelata per Kurali una prospettiva tanto ironica quanto terribile. Perciò, quando gli era stato comunicato che le antiche Pietre della Vita si erano improvvisamente riattivate – segnalando così l'esistenza nell'universo di un membro superstite della stirpe Reale – aveva subito capito di aver ricevuto un inaspettato dono dal cielo. Solo la legittima erede al trono, infatti, avrebbe potuto liberare nuovamente lo straordinario potere che contenevano le Pietre. Se lui fosse riuscito a riportarla a Lemuria, e ad assoggettarla alla sua volontà, avrebbe potuto servirsene per ricostruire l'antica gloria del Regno di Atlantide. Nessuno avrebbe osato contrastare la forza della vita e della morte che gli antichi Dei avevano infuso nella Pietre: e anche l'intera Confederazione sarebbe tornata a giurare fedeltà a Lemuria, sottomettendosi ad essa in segno di resa. Inoltre, i Ribelli sarebbero finalmente stati spazzati via completamente, riconducendo gli esseri umani che abitavano la superficie al loro rango di servi.

Tuttavia, dopo più di otto mesi, nessuno era ancora riuscito a farsi un'idea di cosa passasse per la testa di Nadia Ra Arwol.

Prima di incontrarla, Kurali si era aspettato di avere a che fare una semplice principessa, una ragazza viziata e magari egocentrica, ma capace di accontentarsi delle adulazioni e del manto di gloria che lui sarebbe stato ben lieto di cucirle addosso. Invece, con sua grandissima sorpresa, Nadia Ra Arwol si era messa a fare la regina.

Pretendeva di conoscere quello che stava accadendo nel regno. Presenziava alle sedute della Camera e del Senato e, cosa ancor più incredibile, esprimeva delle opinioni. Kurali era fuori di sé. Come avrebbe potuto occultare la sporcizia del Regno, se qualcuno come quella dannata e petulante ragazza continuava a sollevare il tappeto sotto cui lui l'aveva tanto faticosamente nascosta?

«Ti vedo pensieroso, vecchio mio. Qualcosa non va?»

Kurali si volse, incrociando un volto familiare. Quella mattina, non aveva voglia di chiacchiere, né di compagnia. Ma doveva assolutamente incontrare la Regina e perciò aveva chiesto di essere ammesso alla sua tavola a colazione. Con suo rammarico, oltre a una folla di nobili curiosi, era presente anche un suo vecchio rivale, il senatore Apollonio Abico, a cui aveva strappato la carica di Decano del Senato durante le ultime elezioni.

«Nulla di particolare, Abico» disse, ostentando indifferenza. «Le solite questioni che una carica come la mia necessariamente comporta».

Abico non colse la frecciata, o se lo fece non diede segno di essersene accorto. «Hai sentito? Sembra che i ribelli si siano infiltrati anche a nord. Il villaggio di Kardalla è insorto, e ci sono stati scontri per le strade con le forze Governative».

«Quella dannata feccia riceve aiuti economici da qualcuno» insinuò Kurali, livido. «Non è possibile che riescano a mettere insieme in così poco tempo un esercito tanto numeroso».

«Sembra che alcuni membri della Camera siano pronti a invitare i loro rappresentanti» disse Abico. Kurali impallidì.

«Non può essere vero. Chi te l'ha detto?»

«Ne parlavano ieri al cancellierato. Stamattina la notizia è uscita anche sui giornali. Qualcuno deve aver fatto la spia».

Kurali era furioso. Perché non era stato avvertito?

«Cosa diavolo credono di fare?» esalò. «Sono forse impazziti?»

«La verità è che la Camera dei Nobili è composta nella quasi totalità da membri della vecchia aristocrazia. A causa delle rivolte, gran parte dei loro feudi esterni sta andando in malora. Di fronte a questo...»

«E cosa pensano di ottenere, scendendo a patti con quella gente? Credono davvero che riusciranno a convincere gli umani a lavorare quelle terre? Ormai non sono altro che distese di sabbia e pietre».

«E questo è un altro problema» commentò Abico. «L'acqua è sempre più razionata in superficie. Al novanta per cento è destinata all'agricoltura nei feudi, mentre i villaggi sono ridotti alla sete. Ogni giorno muoiono decine di persone.

«Non è un problema nostro» fece Kurali. «Se vogliono l'acqua, che tornino a lavorare nei feudi».

Abico scosse la testa, poco convinto.

«Finora la politica della forza non ha prodotto grandi risultati» disse. «Quella gente vuole la terra, e la vuole senza vincoli feudali. Vogliono poterla gestire come preferiscono e avere i mezzi per farlo. Inoltre, pretendono di eleggere dei rappresentanti e poter dire la loro in Camera di Consiglio e Senato. Non credo che si fermeranno tanto facilmente».

«Dovranno farlo per forza, quando saranno morti».

«Staremo a vedere» fece Abico, scrollando le spalle. «Comunque, è un problema che non mi riguarda più. Io mi ritiro».

Kurali era stupito. Non si aspettava una cosa del genere. Abico era piuttosto in là con gli anni, certo, e nessuno si aspettava che si ripresentasse alle future elezioni. Ma il suo ritiro improvviso colse Kurali alla sprovvista.

«Non lo sapevo» fece. «Quando l'hai deciso?»

«In realtà già da un po'» fece Abico, con un sorriso spento. «Anzi, dovrei quasi ringraziarti per aver vinto al mio posto. Non credo che sarei stato in grado di fronteggiare i problemi del regno, con le energie di cui dispongo al momento».

Kurali nascose una smorfia. Qualcosa in quello che gli aveva appena detto Abico lo faceva sentire come il capitano di una nave che persino i topi cominciavano ad abbandonare.

«E come mai sei qui?» chiese, nascondendo la propria frustrazione. Abico lo prese a braccetto, costringendolo a voltarsi e a camminare al suo fianco.

«Sono venuto a dare la comunicazione ufficiale a sua Maestà la Regina» disse. «E poi, volevo avere un'ultima occasione di vedere da vicino la nostra Divinità».

Kurali non nascose il proprio disappunto.

«Molti dei problemi che abbiamo svanirebbero in un istante, se la nostra amata sovrana scegliesse di ratificare le decisioni del Senato».

«Stiamo parlando della Regina» replicò Abico, sorpreso da quelle parole. «Il Senato ha il dovere di obbedirle».

«Ovviamente, ma...»

«Signori, buona giornata».

Con un sorriso suadente, il principe Jonathan Fisher fece il suo ingresso nella sala. Era molto bello nella sua divisa da ufficiale, con tanto di mostrine di crine alle spalle e galloni sul colletto rigido. Sul volto liscio e roseo sfoggiava un paio di baffi sottili e ben curati, di un bel castano lucente, mentre i capelli lisci e impomatati erano pettinati con una prefetta scriminatura laterale. Le donne presenti gli lanciarono occhiate civettuole, a cui lui si sottrasse con disinvoltura.

John lasciò vagare velocemente gli occhi sui presenti in sala. Quando individuò i due senatori, si avviò verso di loro con passo deciso.

«Principe John» fece Abico, inchinandosi formalmente. Kurali lo imitò.

«Quali nuove?» chiese Jonathan, porgendo ad entrambi la mano guantata di bianco. «Non ditemi che anche voi siete qui come questi pettegoli solo per vedere che abito indosserà la Regina».

Abico accennò una risata. Kurali non poté fare a meno di leggere sul suo volto un sottile velo di scherno.

«In realtà, discutevamo del carattere singolare di nostra Maestà» fece. «E della sua capacità di influenzare i membri del Senato».

«Davvero?» chiese John, divertito. Fissò Kurali, che si era fatto livido.

«Ho fatto notare al senatore Abico che Sua Maestà continua a non prendere sul serio i consigli che il Senato cerca di suggerirle. La mia non voleva certo essere una critica, ma...»

John scoppiò a ridere. «Se conosceste Nadia, sapreste che non accetta consigli da nessuno» disse. «Lei è fatta così».

Kurali e Abico annuirono, inchinandosi in segno di accondiscendenza. In quel momento, in sala entrò un valletto, che batté rumorosamente uno scettro ingioiellato sul lucido pavimento di marmo.

«Signori, entra la Regina!»

Le immense porte dorate della sala da pranzo si aprirono e Nadia fece il suo ingresso, vestita con un comodo ma raffinato abito da giorno di un color rosso intenso. Portava i lunghi capelli neri e lucenti raccolti in una elegante acconciatura, che le ornava il capo in trecce che si avvolgevano intorno alla nuca, su cui era posata una corona d'oro e rubini, preziosa nella sua semplicità. Come sempre era accompagnata dal comandante della Guardia Reale, il capitano Plutarco, sua guardia personale che la seguiva ovunque.

Non appena la videro entrare, tutti i presenti si inchinarono in segno di rispetto: le dame facendo la riverenza e gli uomini abbassando la testa e portandosi la mano alla fronte, in segno di saluto.

Nadia, visibilmente a disagio, si avvicinò al tavolo, posando una mano sulla sedia. Plutarco le si precipitò accanto, chinandosi con eleganza e disinvoltura a sussurrarle qualcosa all'orecchio.

«Maestà, prima di sedersi dovrebbe permettere alle persone presenti di terminare il saluto».

Nadia arrossì, fissando imbarazzata i dignitari e i servitori che ancora attendevano immobili un suo cenno.

«Prego, signori» disse, schiarendosi la voce «state comodi».

I servitori si rimisero al lavoro e gli invitati presero posto accanto al tavolo, mentre la folla di curiosi cominciava ad abbandonare la sala. Quando le porte si richiusero, Plutarco scostò la sedia e Nadia si sedette, non senza prima rivolgere alla sua guardia personale un cenno di ringraziamento.

«Perdonate la mia maleducazione» disse, rivolgendo ai presenti un sorriso e invitandoli a prendere posto a tavola. «Faccio ancora fatica a padroneggiare l'etichetta».

Tutti risero, mettendo Nadia ancora più in imbarazzo. Non aveva fatto una battuta, ma quelle persone si sentivano comunque in dovere di ridere.

Le cameriere della Regina cominciarono a servire agli ospiti tisane e cioccolata. Quindi dalla cucina arrivarono vassoi ricolmi di fragranti paste appena sfornate, focacce dolci e salate, oltre a biscotti e pasticcini. Ben presto, in un silenzio quasi irreale, la tavola fu completamente imbandita.

«Non mi aspettavo di avere tanti ospiti» disse Nadia, spiegando il tovagliolo e posandolo sulle ginocchia. «Se l'avessi saputo, mi sarei messa qualcosa di più elegante».

Di nuovo risate. Nadia si portò alle labbra una tazza di tisana fumante.

«Vostra Maestà ama prendersi gioco di noi» fece Kurali. Nadia posò la tazza, asciugandosi le labbra.

«Lei crede?» fece. «In questo caso ha ragione il popolo, quando dice che sono una sovrana crudele».

Tutti si zittirono. Nadia prese una fetta di pane e cominciò ad imburrarla, come se nulla fosse.

«Vostra Maestà non deve prestare ascolto alle voci del popolo» disse Kurali, con un sorriso sghembo. «Se mi consente...»

«Senatore Kurali, non amo parlare di politica a tavola. Non è salutare» disse Nadia, con serietà. A quelle parole, Kurali per poco non mandò di traverso il pane. Lei, ignorandolo completamente, si volse a scambiare qualche parola John, che stava seduto al suo fianco.

«Maestà, se mi permettete, volevo ringraziarvi di avermi invitato questa mattina. Per me è un grande onore».

Il volto di Nadia si illuminò, mentre col tovagliolo si puliva le labbra dalle briciole.

«Lei è...» chiese.

«Sono il senatore Apollonio Abico, Vostra Maestà» fece l'uomo, chinando rispettosamente il capo. Nadia si voltò verso Plutarco, rivolgendogli un'occhiata perplessa.

«Il Senatore Abico è uno dei membri più anziani del senato» disse Plutarco a voce alta, come se stesse introducendo l'ospite pubblicamente. Un modo educato per andare in soccorso della sua Regina senza farle fare brutta figura. «Sua Maestà è felice di averla qui».

«A cosa devo la sua visita, senatore?» fece Nadia, cordiale. Abico sorrise, felice di poter parlare a tu per tu con la sua sovrana.

«Vengo a porgervi i miei omaggi, in quanto oggi rassegno il mio mandato».

«Si ritira dal Senato?»

«Ho deciso di ritirarmi, sì» fece Abico. «Sono molti anni che servo la città di Agarthi e il regno di Lemuria. Credo sia venuto il momento però di ritornare a occuparmi della mia tenuta e degli affari della mia famiglia, che temo di aver trascurato per troppo tempo».

«Un discorso piuttosto egoista» commentò Kurali. Tutti si volsero. Abico era sbiancato.

«E per quale ragione?» fece Nadia. Kurali si prese tutto il tempo per rispondere.

«Questo è un momento delicato, Maestà; e perdere una persona del calibro del Senatore Abico è un grave danno per il nostro Regno. Spero che lei se ne renda conto» disse Kurali rivolgendosi direttamente ad Abico, il quale gli indirizzò una smorfia a metà tra un sorriso e un ghigno.

«Ritengo il nuovo Decano assolutamente in grado di guidare il Senato per affrontare le necessità presenti e future. Non vedo come il mio apporto possa...»

«Credo che sua Maestà sarà d'accordo con me nel ritenere che, al momento, ogni uomo dovrebbe mettere al primo posto l'interesse della Nazione».

Kurali lanciò a Nadia uno sguardo di intesa, che lei però non raccolse.

«Non dovrebbe decidere anche per gli altri, Senatore Kurali» lo gelò Nadia. Kurali impallidì. «Personalmente, apprezzo molto la scelta del senatore Abico. Ha parlato sinceramente e ha dimostrato di possedere molti valori, tra cui quello di non essere una persona tanto attaccata al potere da passare l'intera vita incollata al proprio seggio».

Kurali tossì, sputacchiando la tisana. Nadia sorrise.

«Non le avevo detto che non è salutare parlare di politica a tavola?»

Plutarco si lasciò scappare una risata sommessa. Nadia lo fissò con un misto di rimprovero e divertimento.

«Capitano Plutarco, immagino che lei avrà molti impegni in mattinata» fece John, piantando gli occhi sul volto deciso del vecchio comandante della Guardia. L'uomo si fece serio. Stava per rispondere, quando Nadia lo interruppe.

«Il capitano mi accompagnerà agli appuntamenti del giorno» fece. «Senza qualcuno che mi guidi, mi perderei praticamente subito».

Plutarco chinò il capo in segno di ringraziamento.

«Vostra maestà mi lusinga» fece. John però era indispettito.

«Qualche volta potrei essere io ad accompagnarti».

«Non c'è bisogno che tu mi segua tutto il giorno come un cagnolino» replicò Nadia, posandogli una mano sul braccio. «Ci rivedremo stasera, quando tornerò a palazzo».

«Vostra altezza potrebbe andare a cavallo» disse Plutarco. «Oggi è una bellissima giornata per l'equitazione e...»

«Quando avrò bisogno del suo parere, le chiederò espressamente qualcosa» lo freddò John. L'atmosfera si fece tesa. Plutarco non rispose, limitandosi ad assentire.

«Naturalmente, vostra eccellenza».

«Credo sia meglio andare» osservò Nadia. Quando si alzò, tutti i presenti la imitarono, inchinandosi al suo passaggio. I domestici si prostrarono, abbandonando le proprie attività e attendendo immobili che lasciasse la stanza.

«Signori, è stato un piacere incontrarvi» disse. «Senatore Abico, grazie ancora per essere venuto a salutarmi. Le porgo i miei migliori auguri per il suo futuro, e la ringrazio a nome del popolo di Lemuria per la dedizione che ha saputo dimostrarci».

«Vostra Maestà, è un onore».

La Regina uscì e Abico si inchinò a salutarla, visibilmente commosso. Di fronte a lui Kurali nascose il volto alla luce, piegato in una smorfia di disgusto.

 

 

*

 

«A quanto pare, oggi Abico ha segnato un punto a suo favore».

Kurali era furioso. Si sentiva ferito e oltraggiato da quanto era avvenuto quella mattina. Non solo era stato oggetto della derisione pubblica da parte della sua Regina, ma aveva perfino dovuto subire lo scherno e le insinuazioni del suo antico rivale in politica. L'odio che Kurali covava nel cuore in quel momento era assoluto, e non aveva bisogno che qualcuno lo rinfocolasse.

«Non ho bisogno che me lo ricordiate, vostra altezza» fece, rivolgendo a John uno sguardo sprezzante. «Per quanto mi riguarda, mi sto ancora chiedendo se sono davvero io ad aver ottenuto la carica di Decano, o qualcun altro».

«Se si riferisce al trattamento riservatole da Nadia...»

«Quella donna è un flagello!» esclamò Kurali, chiudendo con un pugno la cartella di documenti che teneva sulla strivania. «Come osa trattarmi in quel modo? E pubblicamente, per giunta!»

«Lei è la Regina» commentò John, con tono monotono «non lo dimentichi».

«E lei non dimentichi che avevamo un accordo!»

Kurali era furibondo. Da quando Nadia era arrivata, sembrava che tutto ciò per cui aveva tanto faticosamente lottato gli stesse scivolando tra le mani. Subito dopo il suo arrivo, il principe si era recato da lui, proponendogli un piano per convincere la Regina a porre fine con la forza agli attacchi dei Ribelli, e ad avviare la riconquista degli stati satelliti. Tuttavia, dopo quasi un anno, di quel piano non si vedeva ancora traccia.

«Le ho già spiegato che Nadia non è una semplice principessa» cercò di spiegare John con pazienza. «Sulla terra, era abituata a fare tutto da sola, e a prendere decisioni importanti. È ovvio che voglia fare del suo meglio anche qui».

«Questo non è un gioco» sibilò Kurali. «Qui ne va delle sorti dell'intero pianeta. E lei non mi sta aiutando».

«L'aiuterò» fece John, stizzito. «Ma bisogna procedere per gradi».

«Cosa intende?»

Jonathan si alzò, dirigendosi alla finestra.

«Nadia è una donna» disse, scostando per un attimo la preziosa tenda e lanciando un'occhiata alla strada sottostante. «E le donne, come i bambini, amano giocare. Si divertono a impersonare i ruoli degli uomini, e talvolta tendono a confondere il gioco con la realtà. Dobbiamo portare pazienza, e assecondarla in questo suo gioco per un po'. Quando si sarà stancata, sarà molto più facile convincerla a lasciar fare a chi è più capace di lei».

«A quanto sembra, vostra altezza possiede una perfetta conoscenza dell'animo femminile»

John lasciò andare la tenda, senza cogliere la sfumatura di scherno nelle parole di Kurali.

«Dico solo che la nostra Regina presto potrebbe avere altro per la testa, che non giocare alla politica. Non appena verrà celebrato il nostro matrimonio, si accorgerà di quanto tempo richieda essere una moglie e una madre. Sono certo che, a quel punto, Nadia si dedicherà al suo nuovo compito con assoluta passione».

«Se così fosse, non potrebbe essere che un bene» commentò il senatore. «Tuttavia, non sembra che la Regina abbia intenzione di sposarsi a breve».

«Questo lo lasci a me» commentò John con un sorriso. «E lei si limiti a fare quello che le suggerisco».

Kurali lo fissò sospettoso.

«Cosa ha in mente?»

«I bambini hanno bisogno di scottarsi, per capire che non devono avvicinarsi alle fiamme. E come le ho detto, le donne sono proprio come i bambini. Hanno bisogno che qualcuno insegni loro cosa fare, e le protegga dai pericoli a cui possono andare incontro».

«Quindi...» fece Kurali, socchiudendo gli occhi.

«Dobbiamo solo far sì che Nadia si scotti un po'» concluse John. «E ho già qualche idea in proposito».

 

 

*

 

Quando Nadia si recò nel cortile centrale, dove una vettura l'attendeva per condurla alla Sala delle Udienze, fu sorpresa di trovare qualcuno ad aspettarla. Fissò l'uomo che l'attendeva in fondo alla scalinata: vestito in un completo scuro con il colletto rigido, aveva in volto un'espressione compiaciuta e quasi insolente. Aveva tutto l'aspetto di un politico o di un qualche alto funzionario di stato.

«Il primo incontro di oggi è con il presidente dello stato satellite di Numidia, nobile Sadan» le suggerì Plutarco. Nobile era il titolo onorifico, usuale per le personalità importanti. Nadia annuì. Non si aspettava una cosa del genere e non era preparata. Mentre scendeva gli ultimi gradini con un sorriso sulle labbra, tese la mano al presidente, che la strinse profondendosi in un elegante baciamano.

«Vostra Maestà, sono felice di incontrarla. È davvero incantevole come raccontano».

Nadia si rabbuiò leggermente. Trovò quel complimento inutile, quanto inadeguato.

Plutarco le aprì la portiera, e Nadia salì a bordo. Con sua sorpresa, il presidente salì insieme a lei sedendosi al suo fianco sull'ampio sedile posteriore.

Nadia si scansò imbarazzata. Si chiese di cosa avrebbero parlato e cercò di scacciare il senso di inadeguatezza e di paura che la attanagliava all'idea di dover affrontare senza un'adeguata preparazione argomenti quali l'economia, o la politica estera.

Plutarco richiuse la portiera e prese posto nell'abitacolo di guida, completamente isolato rispetto allo scompartimento regale. La vettura di Nadia, una lucente berlina nera con le insegne Reali, si avviò sollevandosi su un delicato cuscinetto d'aria e prese a scivolare silenziosamente verso il cancello principale, seguita dalle vetture della delegazione diplomatica di Numidia.

Nadia fece per dire qualcosa, seguendo così il protocollo che imponeva alla personalità più importante di iniziare il discorso, quando il presidente Sadan cominciò inaspettatamente a parlare.

«Sono lieto che Vostra Maestà abbia accettato di incontrarmi al più presto, e in modo così riservato».

Nadia sorrise, a disagio. Qualcosa in quell'incontro non stava andando come avrebbe dovuto. Si chiese se era a causa della sua inesperienza.

«Sono certa che ci sarà stato un motivo, dietro a tanta urgenza» fece. Sadan non diede segno di aver colto il tono di sottile rimprovero nelle sue parole.

«In verità, sì» disse. «Non vorrei sembrare scortese venendo subito al punto, ma è necessario che io informi Vostra Maestà delle mutate condizioni tra i nostri paesi, condizioni che purtroppo mi hanno spinto a chiedere questo colloquio quanto prima».

Nadia cominciò a sentirsi nervosa. «Che cosa è mutato, esattamente?»

«Vede, Maestà» fece Sadan, con aria dispiaciuta «purtroppo non possiamo più permetterci di dilazionare il pagamento delle rate del debito di Lemuria. Il nostro paese sta attraversando una crisi legata a un difficile periodo di siccità e l'economia è al ribasso. Abbiamo assoluto bisogno di liquidità per avviare una nuova politica agricola ed industriale».

Era quello che Nadia temeva. Si sentiva quasi preda di un agguato. Se avesse preso una decisione lì, in quel momento, o se Sadan fosse anche solo riuscito a strapparle l'apparenza di una promessa, quella faccenda sarebbe finita in un possibile disastro.

«Credo che sia necessario discutere la questione in una sede più adeguata» cercò di dire lei. «Non credo che...»

«Mi perdoni, ma io ho necessità di ottenere da Vostra Maestà l'impegno inderogabile a saldare i debiti con il nostro paese. Purtroppo oggi stesso partirò per un viaggio che mi terrà lontano per diverso tempo e non posso partire senza una Vostra formale...»

«Insomma, mi sta obbligando» fece Nadia stizzita. Sadan sorrise, amabile.

«Non userei questi termini».

«Spero si renda conto che non posso fare nulla di quello che mi sta chiedendo. Se ora io acconsentissi senza consultare il Senato...»

«Esiste anche la possibilità di una soluzione diversa» fece Sadan, sfiorandole con un dito la gamba che usciva nuda attraverso lo spacco della gonna. Nadia lo fissò stupefatta. Sadan guardava da un'altra parte, indifferente al suo gesto.

«Lemuria potrebbe impegnarsi a concedere la gestione delle proprie risorse energetiche a Numidia. Condividendo i nostri sforzi per un paese migliore, potremmo trovare un'utile fusione di interessi».

«Fusione di interessi?»

Sadan le posò la mano aperta sul ginocchio, facendola risalire lenta verso l'interno della coscia. Nadia era pietrificata. Gli afferrò la mano e gliela strappò via graffiandola, un attimo prima che fosse troppo tardi.

«Come osa toccarmi?» esalò. Era furente. Sadan la fissava divertito, con aria di sfida.

«Credo che Vostra Maestà non abbia ben chiara la situazione» fece. «L'unica possibilità per Lemuria, è quella di affidarsi a noi. Se non volete che vi citiamo di fronte alla Confederazione, esigendo la liquidazione immediata del debito, sarebbe meglio per voi mostrarvi più accondiscendente e disponibile alle nostre richieste».

«In pratica, dovrei prostituirmi».

«Lei ama usare termini molto forti» rise Sadan. Si portò la mano alla bocca, inumidendosi le ferite che lei gli aveva procurato sul dorso. Quindi gliela posò nuovamente sulla gamba, tirandola verso di sé.

«Mi lasci!» gridò Nadia.

«Vuole davvero che il suo regno cada nella vergogna? La grandiosa Regina di Atlantide che si abbassa a svendere terre e palazzi per saldare i suoi debiti! Mi chiedo: davvero è così stupida e arrogante da non capire che le sto offrendo una via di salvezza?»

«Basta!»

Improvvisamente la porta della vettura si aprì. Plutarco si affacciò allo scompartimento, e Sadan ritrasse prontamente la mano. Si sistemò la giacca, assumendo un'aria disinvolta. Nadia invece era vicina alle lacrime.

«Sono desolato, ma credo che a questo punto nobile Sadan dovrà procedere da solo» fece Plutarco. «La Regina è convocata d'urgenza e dobbiamo interrompere il colloquio. Sono certo che le vetture di sua nobiltà la accompagneranno quanto prima a destinazione».

Sadan strinse le labbra, uscendo dalla berlina reale non senza aver squadrato duramente Plutarco. L'uomo si fece da parte, inchinandosi.

«Riflettete sulle mie parole, Vostra Maestà» fece Sadan, lapidario. Quindi si incamminò verso le vetture diplomatiche che attendevano poco più indietro. Quando queste si furono allontanate, Plutarco fece per richiudere lo sportello.

«Capitano» lo chiamò Nadia, asciugandosi le lacrime di paura e indignazione che le affioravano agli angoli degli occhi. «Mi dica la verità. Non esiste nessuna chiamata urgente, non è così?»

Plutarco sorrise.

«Chiedo perdono a Vostra Maestà, ho dimenticato di spegnere l'interfono».

Lei avrebbe pianto.

«Grazie» fece. Lui sorrise, e dopo aver richiuso la portiera diede segno di ripartire.

 

 

*

 

 

La Sala delle Udienze era colma. Una fila interminabile di persone attendeva in fila il proprio turno per essere accolta alla presenza della Regina. Nadia fece il suo ingresso nella sala del trono, avvolta in un ampio mantello di velluto bianco ornato di splendida pelliccia, simbolo del potere regale, come anche lo scettro che reggeva tra le mani e la corona che indossava, e che recava il simbolo di Atlantide, l'Occhio del Sole.

Quando entrò in sala, l'intenso vociare che inondava l'ambiente fino agli alti soffitti si placò immediatamente, trasformandosi in un sussurro curioso. La gente scrutava il volto della regina, cercando di coglierne le sfumature. Dalle decisioni che avrebbe preso quel giorno, la vita di molti sarebbe cambiata. In bene quanto in male.

Nadia si sedette. Era pallida, e visibilmente scossa. Non sembrava molto presente, e accolse le parole del cerimoniere con un certo fastidio. Plutarco, al suo fianco, era sprofondato in un misterioso silenzio.

All'udienza era presente anche il Senatore Kurali, che aveva presentato una mozione. John era tra il pubblico.

Kurali si fece avanti.

«Vostra Maestà, con il suo permesso chiedo che venga presentato il primo caso di oggi».

«Prego» mormorò Nadia. Il cerimoniere batté una volta il pesante scettro dorato.

«Che l'imputato avanzi».

Kurali fece cenno alle guardie, che trascinarono lungo la navata un giovane vestito di stracci. Era in catene e aveva il volto tumefatto. Probabilmente era stato picchiato.

«Che cosa è successo a quest'uomo?» chiese Nadia. Kurali si avvicinò al trono. Quindi si voltò, perché tutti potessero sentirlo.

«Il qui presente Yusud di Issa è accusato di furto e aggressione».

Un mormorio si levò dal pubblico in sala. Il cerimoniere batté il pesante scettro che aveva in mano e ritornò il silenzio.

«Cosa è successo esattamente?» chiese Nadia. Kurali indicò l'imputato.

«È stato sorpreso a rubare l'acqua nel fondo del suo feudatario, insieme ad altre tre persone. Inseguito dalle guardie, le ha affrontate armato di una falce e ne ha ferita una».

«Non è vero! È stato solo costretto a difendersi. Quelle guardie avevano ucciso uno dei suoi compagni». La voce si era levata dai presenti. Apparteneva a una donna, che aveva gli occhi arrossati dal pianto. Probabilmente era la madre.

«Davvero è andata così?»

«Le guardie hanno sorpreso questi ladri» commentò Kurali, indicando Yusud e un uomo in manette, poco lontano «e hanno cercato di fermarli. Se non avessero opposto resistenza...»

«Avevamo bisogno di quell'acqua» si difese Yusud, a gran voce. «Non avevamo nulla da bere e il feudo non veniva coltivato da mesi!»

Un vociare nervoso si levò improvviso, come uno sciame di api. Il cerimoniere faticò a riportare il silenzio.

«È vero quello che dicono?» chiese Nadia. «Eppure, mi sembrava di aver autorizzato una distribuzione aggiuntiva di acqua».

«Ovviamente mentono, mia signora e...»

«Quell'acqua non è mai arrivata» ringhiò il prigioniero. «Vostra Maestà non sa quello che succede nel mondo esterno, perché non si degna di venire a vedere».

Nadia impallidì. Intorno a lei si era levato un coro di protesta.

«Come osi rivolgerti alla Regina in questo modo?» fece Kurali. Le guardie strattonarono il prigioniero, che finì a terra ai piedi di Nadia.

«Sono stanca di violenze e soprusi» dichiarò Nadia. «I feudatari hanno il dovere di coltivare i loro terreni e la responsabilità di questi uomini ricade sui nobili negligenti».

Kurali assentì. «Sicuramente...»

«Ma i braccianti hanno il dovere di servire i loro feudatari» aggiunse lei. «Se volevate l'acqua, dovevate rivolgervi a loro e richiederla espressamente, non rubarla».

«L'avevamo fatto, ma non ci è stata data» ribatté coraggiosamente Yusud.

«Tutti sanno che esiste una legge che obbliga il feudatario a consegnare l'acqua, se richiesta» gridò Kurali. «Il prigioniero mente».

La folla gridò furiosa. Nadia si portò una mano alla testa. Era nervosa, scossa e non riusciva a ragionare.

«Basta così!» esclamò. «Cosa prevede la legge?»

«Un anno ai lavori forzati».

«Vergogna!» gridò la folla. I soldati cominciarono a mostrarsi irrequieti.

«Maestà non si sente bene?» fece Plutarco, chinandosi verso Nadia. «Forse è il caso di sospendere».

«No!» gridò il prigioniero, che aveva sentito le sue parole. «Io chiedo di essere giudicato da sua Maestà la Regina, non dal Senato. Lei deve ascoltarmi!»

Il prigioniero si spinse fino al trono, aggrappandosi alla lunga veste della Regina. Nadia, ancora scossa per quanto avvenuto poco prima con Sadan, rabbrividì.

«Non toccarmi!»

La folla si zittì, sorpresa da quella reazione. Un attimo dopo, esplose in ingiurie.

«Che il prigioniero venga punito secondo la legge per i crimini di cui è accusato» disse Nadia. «È tutto».

«Avete sentito Sua Maestà!» si affrettò a ripetere il cerimoniere. «La seduta è tolta!»

Nadia lasciò il trono, allontanandosi velocemente accompagnata dalle grida della folla che chiedeva di essere ricevuta. Le guardie afferrarono il prigioniero, riportandolo al centro della sala. Il giovane era costernato, e abbattuto.

Approfittando della confusione, John chiamò a sé Kurali, sussurrandogli qualcosa nell'orecchio. Kurali si guardò attorno e scorse tra la folla il secondo prigioniero, compagno di Yusud. Si voltò verso John, che annuì.

«Silenzio!» gridò Kurali, cercando di sovrastare la folla di popolani inferocita. «Fate silenzio!»

John si fece largo fino al prigioniero, ordinando a una guardia di lasciare che si avvicinasse.

«Quanto vale per te la libertà?», gli chiese, in un sibilo.

L'uomo alzò gli occhi a fissarlo, incredulo.

 

 

*

 

Nadia stava ancora cercando di calmarsi. Quello che era successo quella mattina era stato terribile. Non solo non era riuscita a gestire il colloquio con Sadan, ma aveva anche permesso che i suoi sentimenti influenzassero le sue decisioni. Sapeva che quel prigioniero doveva essere punito per i crimini che aveva commesso, ma si era comunque mostrata fragile e insicura. Se voleva davvero salvare il popolo di Atlantide dalla miseria e dai ribelli che minacciavano la sua sopravvivenza, doveva agire in modo più consapevole. Così rischiava solo di farsi odiare da tutti.

Si sedette alla scrivania, prendendo la testa tra le mani. La cosa migliore, quando aveva la testa piena di pensieri, era mettersi a lavorare. Lo aveva imparato al Times. Spesso le preoccupazioni venivano messe a tacere, quando ci si impegnava in qualcosa.

Prese la cartella che aveva davanti e la aprì. Era una proposta di legge su cui lei stava lavorando da qualche tempo. Così come era stata presentata non l'aveva convinta e aveva deciso di provare ad apportarne qualche modifica. Ora, dopo più di tre settimane di lavoro assiduo, credeva di aver raggiunto una formulazione accettabile.

Plutarco entrò, richiudendosi la porta alle spalle. Nadia alzò gli occhi e sorrise.

«Ancora al lavoro?» chiese lui. Nadia annuì, alzandosi e portandogli la cartella.

«Credo di aver trovato la soluzione a questa legge» fece. «Mi farebbe il favore di darmi la sua opinione?»

«Volentieri, Maestà».

In quel momento qualcuno bussò. Nadia diede il permesso di entrare e un giovane ragazzo con una pila di documenti fece il suo ingresso in ufficio.

«I miei omaggi, Maestà» fece, cercando di prodursi in un inchino che rischiò di fargli cadere tutto dalle mani. «Queste dove posso lasciarle?»

Nadia gli indicò vagamente la scrivania, perplessa.

«Che cosa è tutta questa roba?» chiese. Lui posò i plichi sul tavolo e la salutò con un inchino.

«Vostra Maestà ha chiesto di poter visionare le leggi, così ho avuto l'ordine di consegnargliele».

Nadia si sentì venir meno. Erano almeno un centinaio di cartelle.

«E sono tutte le leggi di quest'ultima legislatura?» fece. Il ragazzo assunse un'espressione imbarazzata e desolata insieme.

«Veramente, solo dell'ultima settimana».

Nadia lasciò cadere la cartella che teneva tra le mani. Improvvisamente, si sentiva impotente. Se aveva impiegato tre settimane a leggere tutta la documentazione inutile riguardante una singola legge, come avrebbe fatto a capire e approvare consapevolmente tutte quelle altre leggi che venivano sfornate in continuazione?

Il ragazzo si precipitò a raccogliere la cartella e fece per porgerla alla sua Regina. Gli occhi gli caddero sul contenuto e gli scappò una risata. Nadia si indispettì.

«Cosa ci trova di divertente?» chiese.

«Nulla Maestà, è che questa legge per come è presentata è destinata ad essere respinta».

«E per quale motivo?» chiese lei. Era infastidita. Ci aveva lavorato per una sacco di tempo, e credeva di aver fatto un buon lavoro. Cosa poteva saperne più di lei, quel ragazzetto?

«Vedete, in questo punto in cui si parla della trasmissibilità dei beni... entra in contrasto con quanto prevede la legge sull'eredità» le spiegò lui, indicandole la pagina. «Se si vuole approvare l'articolo in questione, e presentarlo in questi termini, diventa prima necessario modificare quanto sancito dalla Carta dei Nobili, ma...»

«Ho capito. Basta così».

Il ragazzo si zittì. Nadia trattenne a stento la sua rabbia.

«Lei chi è?»

«Sandor Tani, vostra Maestà. Sono studente di legge, tirocinante».

Nadia lanciò a Plutarco uno sguardo sorpreso.

«Abbiamo tirocinanti?»

«Certo maestà» fece lui. «I migliori ricercatori della facoltà di legge sono invitati a svolgere un periodo di tirocinio presso le nostre istituzioni. È una regola dell'Accademia degli Studi».

«Capisco».

Il ragazzo fece per dire qualcosa, ma Nadia lo interruppe.

«Quanti siete, lei e i suoi colleghi?»

Tani si fece pensieroso. «Circa una quindicina, direi, Vostra Maestà».

«Voglio che lasciate immediatamente la vostra occupazione» fece. Tani impallidì.

«Maestà, se vi ho mancato di rispetto, io...»

«Ho bisogno di voi per cose più urgenti» aggiunse lei, senza lasciarlo finire. «Se voglio capirci qualcosa in tutte queste leggi, ho bisogno che qualcuno mi aiuti. Lei sembra un tipo in gamba, visto che le è bastato uno sguardo per capire dove avevo sbagliato, risparmiandomi di fare la figura della sciocca».

Tani arrossì. Nadia sorrise.

«Vorrei che organizzasse una squadra, composta dai suoi colleghi. Il vostro compito sarà quello di prepararmi settimanalmente un riassunto di tutte le pratiche, che comprenda il contenuto essenziale di ogni decreto. Qualcosa che anche un'ignorante in materia come me riesca a capire. Crede di poter accettare?»

Il ragazzo non credeva alle sue orecchie. Significava lavorare direttamente per la Regina. Era un'occasione senza precedenti.

«Vostra Maestà, io... certamente» balbettò. Plutarco nascose un sorriso compiaciuto.

«Visto che lavorerete direttamente per me, avrete bisogno di un ufficio tutto vostro» pensò ad alta voce. Quindi si rivolse a Plutarco. «Potrebbe aiutarli a trovare un luogo adeguato in cui possano sistemarsi?»

«Naturalmente, Maestà. Lo farò con piacere».

«Maestà, non so come ringraziarvi» disse Tani, profondendosi in un inchino esagerato. «Vi assicuro che non deluderò le vostre aspettative, e...»

«Basta, basta. Piuttosto, si metta al lavoro. Ecco» disse lei, prendendo le pratiche e riconsegnandogliele con una risata argentina. Tani se le caricò tra le braccia, compiaciuto.

«Mi raccomando, non abbiamo tempo da perdere» fece Nadia. «Queste leggi devono essere approvate o respinte per il bene del Regno».

«Sì, Vostra Maestà».

Tani salutò ossequioso, varcando la porta non prima di essersi inchinato tre volte. Alla fine, Plutarco lo spinse fuori, suscitando le risate allegre della Regina.

«Vostra Maestà si è dimostrata molto abile» commentò. Nadia chinò la testa, nicchiando mesta.

«Ho fatto solo la figura della stupida» commentò. «Chissà cosa avevo in testa, quando ho pensato di poter capire qualcosa delle leggi del Regno».

«Eppure, eravate mossa da buone intenzioni».

«Ma le buone intenzioni non bastano quando si tratta di leggi».

«Maestà...»

Qualcuno bussò e Plutarco inghiottì quanto stava per dire. Lasciando Nadia alla finestra, si diresse meditabondo ad aprire. Entrò un valletto, che si prostrò con aria compunta.

«Che succede, adesso?» chiese Nadia, voltandosi con un sospiro.

«Vostra Maestà, mi spiace disturbarvi» esordì il giovane valletto «ma è richiesta la vostra presenza all'esecuzione».

Nadia e Plutarco si scambiarono uno sguardo.

«Quale esecuzione?» fece lei. «Di cosa stai parlando?»

Il valletto fissò prima Nadia, quindi il capitano della guardia.

«L'esecuzione... che sta per avvenire nel cortile» farfugliò. «Mi hanno detto di informarvi, visto che forse eravate intenzionata ad assistere e...»

«Io non ho ordinato alcuna esecuzione!»

Nadia corse letteralmente fuori dalla stanza. Plutarco tentò di fermarla, ma non fece in tempo.

«Maestà! Aspettate!»

Nadia correva lungo l'ampio corridoio deserto, dove rimbombava l'eco dei suoi passi affrettati. Le enormi vetrate e le fila di specchi antistanti riflettevano e illuminavano il suo volto ansioso, e diverse volte lei dovette ritornare sui suoi passi, perché per l'agitazione aveva perso del tutto l'orientamento. Alla fine, qualcuno la afferrò, costringendola a voltarsi. Era Plutarco.

«Mi lasci! Devo fermare tutto questo, io...»

«Maestà, voi dovete calmarvi!»

Nadia si strappò alla sua presa, imboccando il corridoio ornato di stucchi che conduceva al balcone centrale. Si gettò contro le enormi porte a vetrata, che spalancò precipitandosi trafelata all'esterno. Una folla immensa era radunata in silenzio nel cortile. Fissavano tutti nella stessa direzione. Quando udirono gli schiamazzi sopra di loro e il fragore delle porte che si spalancavano, si voltarono tutti a guardare. Nadia incrociò i loro sguardi persi, che non appena la videro si fecero ostili e minacciosi. Gridavano una sorda vendetta.

Nadia frenò la sua corsa, avvicinandosi lenta alla balaustra. Il boia aveva appena terminato il suo lavoro e stava abbandonando il patibolo. Una forca era stata allestita nel cortile e da essa pendeva il corpo inerte di un condannato, che ondeggiava lentamente nel vuoto. Con orrore, Nadia si rese conto che si trattava del giovane Yusud, che quella mattina era stato accusato di furto. In prima fila, sua madre piangeva disperata, stretta dal padre che guardava con odio viscerale verso il balcone.

«Sembra che Kurali abbia modificato i capi d'accusa non appena avete abbandonato l'aula» commentò torvo Plutarco. «Un testimone è comparso all'improvviso, e ha accusato quell'uomo di essere un attivista della Ribellione. E la pena per un crimine come quello, è la morte».

Nadia sentì le lacrime rigarle il volto. Aveva un groppo in gola, e temeva che il cuore le si sarebbe spezzato.

«Maestà» le sussurrò Plutarco, con tenerezza «avanti, venite via».

Nadia scosse la testa, incapace di fermare le lacrime.

«Io non volevo questo» mormorò lei, sconvolta. «Non era questo, ciò che io volevo».

 

  
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