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Autore: Ortensia_    06/08/2012    4 recensioni
Stanze.
Stanze buie dalle quali potrà uscire sempre e solo una Nazione.
Chi dovrà sfidarsi, in questo gioco macabro ed inumano?
Chi vincerà?
Solo il vincitore deciderà delle altre vite ...
[_Fra le storie più popolari dell'anno 2012/13 su Axis Powers Hetalia: più recensioni positive_]
Genere: Dark, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Allied Forces/Forze Alleate, Altri, Axis Powers/Potenze dell'Asse, Sorpresa
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Can you hear the World?'
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XIX - Preghiera


Stanza: Nr. 16, Stanza di Atlante
(Titano che reggeva il mondo sulle sue spalle)
Posizione: Secondo girone interno
Dimensioni: 100 m2
Temperatura: ca. -27 °C
Fonti di luce: Lieve luce proveniente da una crepa
Ore: 14:10 - 17:00



Era lì da quasi un’ora, ormai.
Immobile, la schiena aderente al muro, il viso annoiato, con le ferite continuamente tenute sotto controllo, il fucile, la balestra e la nuova arma che gli era stata data -un arpione- adagiati a terra, poco lontano dai suoi piedi.
Il suo avversario tardava, e parecchio.
Durante quell’ora passata solo con il silenzio, ebbe modo di pensare a tutto quanto, a ricordare perfettamente quanto Arthur si fosse impegnato a curarlo, e di come lui avesse appena mandato in fumo tutti gli sforzi dell’inglese, uccidendo prima Gilbert e poi Francis.
“Arthur mi ucciderebbe se glielo dicessi.” le sue labbra parvero tremare appena, in un piccolo sorriso amareggiato che si spense subito.
“Ma probabilmente io e lui non ci incontreremo neppure …” chinò il capo, tenendo gli occhi bassi, e rimase in silenzio, in attesa che il destino decidesse per lui.

E il destino, ovviamente, fece la scelta sbagliata.

L’americano sbatté appena le palpebre, soffermandosi su quelle dita sporche di terra e sangue che arrancavano tremanti verso di lui, poi sgranò gli occhi completamente privato del respiro, quando si accorse che quello che stava strisciando e rantolando di dolore davanti a lui, portandosi dietro una scia di sangue, era proprio Arthur.

«A-Arthur-» il suo nome gli uscì come un singhiozzo dalle labbra, e si precipitò subito da lui, chinandosi al suo fianco e sollevandolo appena da terra, per sistemarlo sulla schiena e fargli adagiare la testa sulle sue ginocchia «Arthur! C-che cosa ti hanno fatto?!
Arthur!»
In quel momento comprese quanto fosse scabroso e meschino il gioco in cui la sua persona stava riscontrando tanto successo: mentre lui aveva rideva a crepapelle delle vite che si spegnevano davanti ai suoi occhi, Arthur, si trascinava a terra, con gli spasmi di dolore sulle labbra, consapevole di aver già perso in partenza, con una gamba completamente insanguinata e ormai privata di un piede.
«A-Arthur!
Rispondi-!»
In pochi attimi, le sue lacrime, iniziarono a scivolare fino al mento e poi giù, sul viso dell’inglese.
«Sta … sta un momento in silenzio, i-idiota …» gli occhi dell’inglese si schiusero a fatica, vitrei, a cercare subito quelli lucidi dell’americano.
Alfred si sorprese del lieve sorriso che Arthur si sforzò di disegnare sul pallido viso, stanco e distrutto: lo stava facendo solamente per tranquillizzarlo, conosceva bene quel sorriso amaro.
Lo stesso sorriso che gli rivolgeva quando lui, bambino, iniziava a piangere a dirotto per un ginocchio sbucciato.
Quando lo sentì sospirare a fatica e lo vide chiudere gli occhi, capì che voleva riposare, voleva solo un po’ di silenzio, per almeno qualche minuto, e allora Alfred si sforzò nel trattenere più singhiozzi possibili, adagiandogli delicatamente la testa a terra per raggiungere la gamba insanguinata.
“Scusami.
Scusami Arthur, ho buttato al vento tutti i tuoi sforzi, tutto quello che hai fatto per aiutarmi, ma ora sistemerò tutto.”

Si passò velocemente un braccio sugli occhi bagnati di lacrime e deglutì a fatica, avvicinando le mani tremanti alla ferita di Arthur, per poi bloccarsi non appena un tonfo poco lontano da loro gli giunse alle orecchie: quella doveva essere l’arma designata per l’inglese.
Lo statunitense si gettò ad afferrare il pugnale e tornò subito vicino alle gambe dell’inglese, strappando una striscia della giacca con l’aiuto dell’arma.
Voleva chiamarlo ancora, perché aveva paura del troppo silenzio che stava trascorrendo, ma per tranquillizzarsi gli bastò sentirlo gemere quando gli legò stretta la striscia di tessuto intorno alla ferita.
Con attenzione, circondò il corpo dell’inglese con le braccia, e lo sollevò da terra, andando a sistemarsi contro un muro per fargli adagiare nuovamente la testa sulle sue gambe.
«A-»
«Alfred-» l’inglese lo chiamò in uno spasmo di dolore e tornò a guardarlo negli occhi, questa volta senza alcun sorriso in volto.
«Io non ce la faccio.
Non … non posso andare avanti in questo stato.» le parole dell’europeo erano una triste realtà per l’americano, che si ritrovò a negare fermamente, con le lacrime agli occhi «cosa … cosa stai dicendo, Inghilterra?»
«Mi fa … malissimo- Alfred, m-metti fine alle mie sofferenze.
Per favore-»
«No!»
Un gesto egoista quello dello statunitense, certo, ma Inghilterra come poteva pretendere una cosa del genere da lui? Uccidere la persona che l’aveva cresciuto e che amava? Mai.
«Alfred …»
«Lo … lo sai! Non ti farei mai del male Arthur! Neanche a Berkeley avevo in programma di ucciderti!
I-io-» le parole dell’americano si arrestarono improvvisamente, quando sentì le dita dell’inglese sfiorargli la guancia bagnata di lacrime.
«Lo so-»
«E ho … ho ucciso Inghilterra. Di nuovo.»
«Non avevi altra scelta. Ho … ho ucciso anche io, anche se sembro io quello che è morto, in questo momento, t-tsk-»
L’inglese sembrò voler arrangiare una risata, un’altra di quelle per rassicurarlo, ma non vi riuscì, e si ritrovò a tossire e respirare malamente.
«Sta a sentire America, la fine non è vicina …
Da quel che sono siamo rimasti in pochi, e … ecco, promettimi solo che ci ritroveremo, come sempre.»
L’inglese ricevette in risposta il silenzio, ed altre lacrime che lentamente gli battevano sul viso, e dopo un po’ solo quella parola flebile e tremante, sulle labbra dell’americano «promesso-»
«Non è colpa tua se hai ucciso di nuovo …» Arthur volle ripetersi, mentre l’americano continuava a stringerlo e tenerlo vicino, torturandosi con tutte le questioni dolorose presenti nella sua mente: aveva appena ucciso Francis, era giusto che Arthur lo sapesse, oppure no? Che cosa provava Arthur per Francis? Lui aveva davvero buttato tutto al vento, o l’aveva fatto solo perché non aveva altra scelta?
E, soprattutto, Arthur lo stava aiutando per pietà, o perché lo amava veramente?
Non glielo avrebbe chiesto. Non in quel momento.
Non voleva metterlo sotto pressione, non voleva parlare di abomini mentali, ma piuttosto voleva passare ancora un po’ di tempo con lui, come sempre, e sentirlo vicino, nonostante quel dolore vivo e percepibile dentro al suo petto.
«Stamattina quando ti sei alzato hai acceso la luce di camera, come al solito. Q-quante volte ti ho detto che vorrei dormire un po’ di più?» Arthur voleva parlare delle loro giornate, di casa, per sfuggire a quell’orrore, per cercare di alleviare quel dolore e la vista tanto vicina di quella morte amara.
«Ti stavo preparando la colazione. Volevo-» Alfred di interruppe appena, aggrottando la fronte leggermente imbarazzato «volevo portartela a letto …»
L’inglese accennò un lieve sorriso: se lo aspettava, effettivamente, anche se non ci aveva pensato neppure un secondo di più a trattenere quel brontolio nervoso non appena diffusasi la luce nella loro stanza.
«Almeno per una mattina non avremmo mangiato toast palesemente bruciati.»
Quello fu il primo sorriso dell’americano, che a fatica, tirando su col naso, si ritrovò a ricambiare quello dell’inglese.
«I-io non brucio niente!»
Brontolò appena, per poi stringere la mano dell’americano fra le dita, non appena la sentì sfiorare la sua.
«Se dovessi metterci un po’ per tornare da te, non dimenticarti di prendere le pastiglie-»
«Lo so.» i loro sorrisi scomparvero in un attimo: quella cura pareva non finire mai.
Aveva iniziato con tre pastiglie ed un’iniezione al giorno, poi i farmaci erano stati ridotti a due, ma il liquido iniettatogli ad un siero più potente, poi si era tornati a quello di prima ed una sola pastiglia.
In quel momento la cura consisteva nel dividere a metà uno psicofarmaco e prenderne una parte appena svegli e un’altra prima di andare a dormire, ma molve volte doveva prenderne almeno una metà in più od un sonnifero la sera, perché il suo stato mentale era migliorato, ma il quieto vivere era stato completamente stravolto e lo stress non lo abbandonava neppure un momento: doveva ringraziare Arthur se non si ritirava in un angolo ad urlare e strizzare gli occhi per cercare di scacciare quelle immagini di sangue e torture che per giorni e giorni, subito dopo il suo ritorno, gli avevano riempito la testa.
Anche la mente di Arthur stava iniziando a cedere, subito dopo essere uscito da Berkeley Square, ma era riuscito a ritrovare la ragione quasi subito, non appena si era reso conto che lui aveva bisogno di un aiuto più sostanzioso e concreto.
Arthur era quello forte per tutti e due, e per questo lo ammirava, come lo aveva ammirato in passato: eppure, ora, stava morendo fra le sue braccia.
«Tu ci metti troppe cose nei toast, invece.» ed ecco che arrivava un’altra frecciatina da parte dell’inglese, che non si smentiva e, nonostante tutto, pur di distrarsi, si stava impegnando al massimo per difendere la sua cucina.
Le labbra dell’americano si incrinarono in un lieve sorriso, poi, fra loro, calò il silenzio.

«Arthur?»
La voce flebile dell’americano ruppe il silenzio dopo diversi minuti, e l’inglese se ne rimase con gli occhi chiusi e la testa adagiata contro le sue gambe.
«Che cosa c’è?»
L’americano deglutì appena, stringendo appena la mano dell’inglese, lasciando che le loro dita si intrecciassero, mentre gli occhi tornavano a velarsi di lacrime nuove.
«Ti amo.»
Arthur aprì appena gli occhi, per poi richiuderli ed accennare un sorriso.
«Anche io …»
Poi tornò il silenzio, ed Alfred rimase con gli occhi puntati sul suo petto, per assicurarsi che questo continuasse ad alzarsi ed abbassarsi lentamente, senza alterazioni.

«Non mi ero mai accorto di come fossi bello mentre dormi. Ti chiedo scusa anche per questo.» Alfred sussurrò appena, scostandogli i capelli dalla fronte: Arthur lo amava, ne era sicuro.
Non lo stava facendo per pietà.
Non lo avrebbe mai fatto per pietà, e se anche fosse stato così, lui, avrebbe continuato ad amarlo.

Alfred sospirò, chiudendo gli occhi e portando la testa all’indietro, scostando a malincuore la mano da quella dell’inglese: almeno due ore dovevano essere ormai passate.

Quel giorno in cui Arthur gli aveva regalato i soldatini, quanto era felice? Più grande aveva provato ad intagliare un pezzo di legno e farne uno suo, da aggiungere a quelli dell’inglese, ma aveva fallito miseramente.
E com’era bello, Arthur, ogni volta che dovevano essere eleganti per qualche noioso evento politico? Si sentiva così insignificante, e ammirava l’inglese. Lo aveva sempre ammirato.
E quanto avrebbe voluto stringere Arthur sotto la pioggia e pregarlo di smettere di piangere, quando gli aveva strappato di mano l’Indipendenza?
Senza quel giorno, però, ora non sarebbero stati loro.
Non ci sarebbe stato un americano in lacrime a stringere fra le braccia un inglese allo stremo, non ci sarebbe stato un americano ferito che stringeva i denti per il dolore alla spalla, mentre allungava la mano in cerca del fucile e rabbrividiva, trovandolo.
Piangendo in silenzio, mordendosi con forza il labbro inferiore per trattenere i singhiozzi, Alfred, si alzò attentamente, adagiando con delicatezza la testa dell’inglese a terra, ancora una volta, per poi baciargli la fronte.

Voleva aspettare che si addormentasse fin da subito. Non voleva guardarlo negli occhi nel momento in cui avrebbe messo fine alla sua vita, e non voleva che lui vedesse il mostro che era diventato.

Alfred gli puntò il fucile contro, deglutendo a fatica e lasciandosi sfuggire un singhiozzo, con le lacrime che ormai scendevano numerose a bagnargli il viso impallidito.
Arthur. Il suo adorato Arthur.
Che quello fosse il modo di fargli pagare tutte le vite uccise in precedenza? Che quella fosse la sua punizione?
«Ti amerò sempre-» singhiozzò, con le mani tremanti, mentre prendeva la mira sulla testa dell’inglese addormentato ed ignaro di tutto. Ignaro anche di quanto Alfred gli fosse grato e di quanto lo amasse.
Di quanto Arthur Kirkland facesse bene a quella mente persa e malata.

Esso stesso doveva spegnere la sua piccola speranza, quella fioca ma calda luce ancora presente nella sua vita, e non appena Alfred premette il grilletto gettò il fucile a terra e cadde in singhiozzi sulle ginocchia, coprendosi gli occhi gonfi di lacrime con le mani.
«A-Arthur!
Arthur!»
Si ritrovò quasi ad un urlare in lacrime, mentre lo raggiungeva strisciando a fatica, con la nausea allo stomaco e capogiri allucinanti, la vista annebbiata.
Sentì il suo corpo, quel peso assurdo, quel freddo aderire al suo, in un abbraccio mortale dove, singhiozzando, continuò a chiamare il suo nome.
«Arthur!
T-ti prego Arthur, perdonami!
Ti amo! Arthur!»

Dove continuò a chiamare la persona che avrebbe amato sempre, per tutta la vita, nonostante tutto.
   
 
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