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Autore: Noth    06/08/2012    8 recensioni
(Lo sai, delle rondini?)
« Hai perso il lavoro? »
« In realtà non lo ho mai avuto. » sorrisi. « I miei mi hanno ripudiato. »
L’uomo fece saettare le sopracciglia fino alla parte più alta della sua fronte spaziosa e sbattè più volte le palpebre.
« Dovevi essere proprio un figlio terribile. » commentò, ridacchiando tra sé per la battuta appena fatta.
Sorrisi di rimando, appoggiando la custodia per terra e sedendomi al bancone, sentendo i jeans bagnati squittire a contatto con la pelle dei sedili.
« Solo un po’ troppo gay per loro. » alzai le spalle.
Il barista mi imitò e passò uno straccio sul bancone coperto di briciole.
« Ah, ragazzo, certa gente non sa capire l’amore. » disse.
Genere: Angst, Fluff, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Blaine Anderson, Kurt Hummel | Coppie: Blaine/Kurt
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Do You Know About Swallows
-Capitolo 11-









Il giorno dopo non avevo idea che Kurt mi avesse preso così sul serio. Io a malapena ricordavo ciò che avevo detto, lui invece sembrava una trottola, e girava a mille dopo essersi lamentato per una decina di minuti di un lieve mal di testa. Ma che infanzia aveva avuto per non sentire nemmeno un quarto del mio dopo sbornia? Insomma, mi sembrava avesse bevuto tanto quando me.
Infatti, io non riuscivo ad alzarmi dal letto. Avevo il naso tappato, probabilmente a causa del raffreddore preso per il freddo della notte prima, e la testa come un mattone schiacciata sul cuscino.

Kurt, invece, era in doccia e lo sentivo cantare qualcosa di disgustosamente moderno che non mi sarei mai aspettato di sentire nel suo repertorio.

Decisi che lo avrei seguito a ruota non appena avesse finito: avevo decisamente bisogno di dare una lavata alle mie idee e alla mia testa dolorante.

Sperai che Kurt preparasse il rimedio di acqua e limone che mi aveva dato quando ci eravamo conosciuti.

Fortunatamente, il lunedì era il giorno di chiusura del bar, un po’ per le pulizie, un po’ per dare modo a Burt di riposare, dopotutto non era più un ragazzino anche se sicuramente lui si sentiva tale. Avevo già deciso il giorno prima che, almeno nel tardo pomeriggio, gli avrei dato una mano a riordinare e a sistemare il bancone e tutto. Dopotutto glielo dovevo, e poi lavorare non mi dispiaceva così tanto. Si stava bene in sua compagnia, sembrava quasi…

… un padre.

Se ci pensavo troppo era come un pizzicotto dietro la nuca.

Cercai con tutte le mie forze di staccare la faccia dal soffice cuscino, ma tutto ciò che riuscii ad ottenere fu di mettermi in una posizione in cui mi era perfino difficile respirare e, se non fosse arrivato Kurt che usciva dalla doccia, probabilmente mi avrebbero trovato asfissiato a pancia in giù sul mio cuscino.

Una mano mi afferrò per una spalla e mi voltò a pancia in su, espirai di colpo e spalancai gli occhi, e fu una pessima idea perché la luce mi ferì gli occhi come se mi stessero puntando addosso una pistola laser. Mi coprii istintivamente, senza vedere nulla, e mugugnai dolorante.

« Sì, soffoca, cretino. E levati quelle mani dagli occhi che è tardi e non sono nudo, non ti preoccupare. » sbuffò Kurt, allontanandosi. Sentii il rumore della maniglia che apriva la finestra, seguito da uno sbuffo di venticello freddo. L’autunno volgeva oramai al termine, le foglie degli alberi erano quasi tutte a terra, in effetti, e presto avrei avuto bisogno di una sciarpa e dei guanti. Era incredibile che fossi riuscito a sopravvivere all’aperto fino ad allora, forse semplicemente non avevo avuto altre alternative, e mi ero dovuto adattare volente o nolente.

« Non era il fatto che sei nudo a preoccuparmi. » mi lamentai, stropicciandomi gli occhi e spalancandoli a fatica, lasciando che le macchie blu e nere si diradassero dal mio raggio visivo, e ci volle più di quanto mi aspettassi.

« Ah, già, probabilmente vedere uomini nudi è una prassi per te. » osservò sarcastico Kurt, infilandosi un maglione color paglia che creava davvero un bel contrasto coi suoi capelli.

Era così sveglio e scattante. Le cose erano due: o si drogava, o la sua doccia era magica e, dopo averla provata, non avrei scartato del tutto la
seconda ipotesi.

A dire il vero neanche la prima.

Ma che andavo pensando, si trattava di Kurt, dopotutto, non di un ragazzo qualsiasi.

Non riuscivo proprio ad immaginarmelo.

« Certo, effettivamente gli uomini amano scendere in strada nudi a prendere il giornale. » scherzai, fingendo un tono di constatazione, e Kurt rise silenziosamente mentre prendeva il phon per dare la piega che desiderava ai suoi capelli.

Cercai di alzarmi a sedere, senza risultati, e Kurt, dopo aver fatto roteare gli occhi al soffitto, mi aiutò tendendomi una mano. Mi sembrava di avere un altoparlante puntato nelle orecchie, e la testa pareva una boccia piena d’acqua. Ci mancava solo che sentissi un pesce muoversi dentro il mio cervello, almeno mi avrebbe assicurato che c’era vita lì dentro.

« Non è possibile che tu regga l’alcool così male, sei un barista! » sbottò Kurt, tornando a fissare lo specchio, che lo rifletteva da capo a piedi, posizionato accanto alla finestra.

Lo guardai scettico, per quanto fossi in grado di controllare le mie espressioni facciali.

« Non è possibile che tu lo regga così bene! » puntualizzai di rimando.

Lui si voltò, passandosi velocemente una mano tra i capelli castani e spegnendo il phon, per guardarmi con un’aria smarrita. Non so se fingesse di non capire o se sul serio non si rendeva conto di che genere di persona desse l’impressione di essere.

« Andiamo, Kurt, tu sei… il buon samaritano. » spiegai, sbadigliando e stiracchiandomi, cercando di assicurarmi di avere un certo controllo sulle gambe. Sembrava di sì.

Lui rise in maniera sorpresa.

« E che cosa sarebbe? » domandò, spruzzandosi una nuvola di lacca, della quale non sopportavo l’odore, sui capelli.

« Non lo sai? » chiesi, interdetto. Di solito ero io quello con mancanza di vocabolario forbito, non lui.

Mi venne voglia di rinfacciarglielo, ma avevo troppo mal di testa e feci una  smorfia sofferente.

« Non è che mi daresti quel rimedio all’acqua e limone che mi hai preparato il primo giorno? La mia testa sta… è come se ci stessero facendo un
concerto metal dentro. » sbuffai rumorosamente, tenendomi la radice del naso ed osservando Kurt che tornava in bagno a poggiare la spazzola, la
lacca ed il phon. Ci vollero un paio di minuti ma, senza dire nulla a nessuno, tornò con il miracoloso rimedio in una tazza con il muso di un cane
stampato sopra. Me la porse e mi trovai ad osservare l’animale. In primo piano c’era il naso e sembrava quasi che la bestia sorridesse, ma forse
quello lo vedevo solo io.

« E’ un husky. » spiegò, dopo avermi visto intento ad analizzare il cane a meno di due centimetri dalla mia faccia.

« Eh? »

« E’ la razza del cane. » aggiunse, con aria esasperata. Poi si sedette sul letto ed aspettò che bevessi.

Non riuscivo a staccare gli occhi da quella creatura pelosa, mi metteva incredibilmente di buon umore e mi pareva di essere tornato bambino, al
periodo in cui avevamo comprato Xabbi, il Golden Retriever da guardia che, in realtà, era molto meno imponente ed intimidatorio di come c’era
stato descritto. Diciamo che non era stato difficile ingannare i miei genitori, se ne intendevano poco o niente di cani.

Poi, infatti, era stato dato via senza ritegno a causa della sua inutilità.

Non era colpa sua se non era feroce, non era nemmeno la razza giusta ma, come ogni cosa che si rivelava non all’altezza delle loro aspettative,
mamma e papà lo avevano dato via.

« Ti sei innamorato? » domandò Kurt dopo un po’, passandomi una mano davanti agli occhi.

« Cosa? No. » risposi, e mi affrettai a bere la bevanda magica, accogliendo con un gorgoglio inquietante l’arrivo del liquido nello stomaco
scombussolato.

Kurt rise, e aspettò che avessi finito. Mi si iniziarono subito a schiarire le idee, ed era così sorprendente che cominciai a domandarmi se mi avesse
drogato.

No, Kurt non lo avrebbe mai fatto.

Non lo avrebbe mai fatto, vero?

« Bene, ora che hai finito possiamo andare. » disse. Scossi la testa per liberarmi dall’intorpidimento generale.

Poi realizzai.

« Possiamo? »

Perché aveva quella maledetta mania di trascinarmi in tutto ciò che faceva senza chiedere? Che scusa avrebbe inventato questa volta? Qual era il
suo problema? Si sentiva solo?

Poteva comprarsi un cane.

Forse però, a dirla tutta, alla fine sarei stato geloso del cane, e la cosa avrebbe sfiorato il ridicolo, perché mi piaceva passare il tempo con Kurt.

« Sì, ieri mattina ho ottenuto il permesso di mio padre per andare a comprarti dei vestiti. » annunciò. « Perché per prima cosa non puoi andare
avanti utilizzando i miei, soprattutto perché le maniche ti sono tutte troppo lunghe, e pure i pantaloni, e in secondo luogo è quasi inverno ed avrai
bisogno di coprirti. » aggiunse alzandosi dal letto e facendomi cenno di darmi una mossa e vestirmi.

« E come pagherò? » domandai, levandomi di dosso le lenzuola che mi si erano attorcigliate attorno alle gambe e cercando di alzarmi in piedi. Mi
passai una mano tra i capelli ma, nonostante fossero più corti, mi rimase ugualmente incastrata tra i ricci come in passato.

« Con il tuo salario, ovviamente. Papà è costretto a dartelo e, anche se buona parte verrà usato per pagare le tue spese, questo genere di acquisti
sono fondamentali per la tua sopravvivenza invernale, anche se papà ne è poco convinto. Diciamo che sono persuasivo. » puntualizzò, uscendo e
lasciandomi la privacy per cambiarmi.

Assurdo come lui si spogliasse e vestisse senza problemi davanti a me ma scappasse ogni volta che quello a denudarsi ero io.

Iniziai a temere di fare paura.

Shopping.


Una parola che non era mai stata adatta a me. Ma non avrei mai creduto neppure che dei semplici acquisti in compagnia potessero risultare così interessanti.

 

***

 


Avevo fatto promettere a Kurt che saremmo stati di ritorno per il pomeriggio, così che avessi potuto dare una mano a Burt. Mi sentivo
incredibilmente in colpa all’idea di comprare dei vestiti con i suoi soldi. Kurt si ostinava a ripetere che erano i miei soldi, e che me li ero guadagnati

lavorando lì in quel paio di mesi. In realtà, probabilmente, avrei voluto essere in qualsiasi altro posto che non fosse una boutique o un atelier. Ero gay, certo, ma questo non significava che dovevo eguagliare lo stereotipo di colui a cui piacciono i vestiti e adora lo shopping. Semplicemente per
me era interessante quanto l’osservazione del movimento di un bradipo. Anzi, forse quello era più interessante.

« Non so cosa ti piace, però. » si rese conto Kurt poi, dopo essere entrati nel millesimo negozio dove non trovavo nulla di interessante da provare.
In realtà, quello che indossava Kurt solitamente mi piaceva solo che, nonostante ultimamente avessi sempre avuto addosso vestiti suoi, non
riuscivo ad immaginarmi con abiti dal taglio così delicato. Erano creati per persone come lui, a me andava benissimo una T-shirt, dei jeans di
qualche tipo ed una felpa qualsiasi. Potevo tenere su tutto per settimane, ma immaginavo che non sarebbe stato d’aiuto per il quieto vivere di Burt
e Kurt.

« Avanti, dammi una mano. » si lamentò dopo un’ora che giravamo a vuoto e non facevo altro che rispondere a monosillabi ad ogni proposta.

« Ma non so, non sono mai stato bravo a scegliermi i vestiti! » risposi, estraendo una camicia azzurrina con i risvolti merlettati da un attaccapanni.

Kurt me le prese di mano e la mise a posto con un’aria disgustata, come se stesse nascondendo un cadavere.

« Questo non è possibile. » mormorò tra sé, sottovoce.

Si mise una mano sotto il mento, pensando con lo sguardo basso, mentre io davo un’occhiata al negozio. Era luminoso ed arredato con scaffali di
legno di betulla, chiaro e particolare. Tutti gli abiti erano divisi per colore, e le luci a neon a spirale attaccate al soffitto davano quel tocco di
moderno all’intero abitacolo. Incredibile come mi fosse risultato più interessante osservare quel luogo invece dei vestiti che vi si trovavano
all’interno, ordinati con cura. I commessi ci osservavano come avvoltoi, in attesa che gli chiedessimo aiuto o consiglio.

« Ho trovato. » sussurrò Kurt, improvvisamente, e mi afferrò per un polso, sgattaiolando fuori dal negozio salutando e ringraziando a malapena.
Provai a chiedergli cosa avesse trovato, ma senza ottenere una risposta. Sapevo solo che camminavamo velocemente per le vie di New York,
prendemmo la metropolitana e non mi guardò mai negli occhi. Mi domandai se avrei dovuto avere paura. Passammo per zone della città che non
riconobbi, attraverso stradine che mi sorpresi di non aver mai visto, al contrario di Kurt che sembrava avere l’intera piantina di New York tatuata
nella mente.

La cosa migliore era l’espressione costantemente eccitata che manteneva sul viso, probabilmente inconsciamente, senza accorgersene. Sentivo un
sorriso salirmi alle labbra, la consapevolezza di conoscere quell’espressione, la paura per a che cosa potesse stare pensando. Non potevo fare a
meno di restare, in un certo senso, ammaliato per il modo in cui i suoi pensieri trasparivano dal volto e per come le emozioni, su di lui, apparissero
come pennellate di colore sui suoi tratti somatici. C’era qualcosa di incredibilmente particolare in Kurt, anzi, ben più di qualcosa.

Insomma, in poco tempo era riuscito a farmi parlare di argomenti che avevo preso e ripiegato dentro di me come tovaglie sporche. Le aveva
srotolate lentamente, aveva acquisito la mia fiducia e, alla fine, avevo ceduto.

Con Kurt non si poteva non cedere, c’era qualcosa, qualcosa che distruggeva ogni barriera. La sgretolava, io avevo provato a resistergli, ma alla
fine avevo dovuto cedere.

La metropolitana si fermò e Kurt scattò oltre le porte e mi trascinò con sé, tenendomi strettamente per il polso, come aveva fatto per tutto il
viaggio. Cercai di stargli dietro, e ringraziai di non aver preso la mia chitarra, o stargli dietro sarebbe diventata un’impresa titanica.

A pensarci forse Ellie si sentiva sola, ultimamente avevo poco tempo per lei, e la suonavo sempre meno, essendo continuamente occupato con il
bar o con le folli idee di Kurt.

Mi piacevano le idee di Kurt, però.

Mi ripromisi di suonarla almeno dieci minuti prima di andare ad aiutare Burt quando saremmo rientrati. Glielo dovevo, quella chitarra mi aveva
salvato la vita, e pizzicarle le corde mi mancava immensamente.

Salimmo le scale ed uscimmo da sottoterra. Il cielo era ricoperto di una matassa di nuvole dai colori che variavano dal bianco al grigio, il vento
non era eccessivamente forte, ma abbastanza da sentirsi oltre il maglione di Kurt che indossavo e da scivolare sotto il risvolto della camicia e
solleticarmi la pancia, facendomi venire la pelle d’oca.

Mi diedi un’occhiata in giro e, tra gli alberi che spuntavano a casaccio ed i grattacieli che, come sempre, sovrastavano ogni cosa come silenziosi
guardiani, vi erano delle bancarelle, dei gazebi bianchi sotto ai quali stavano abiti vintage di tutti i tipi. La cosa buffa era che, in questa sorta di
mercato all’aperto, potevo vedere ogni genere di oggetti. Dai cavatappi alla lattuga. L’aria odorava di zenzero, erba tagliata e sandalo. Un odore
che mi piaceva considerare etnico.

Avevo girato per tutta New York, quando vivevo per strada, eppure non avevo mai trovato il mercato della città. Era davvero un posto
incredibile, sembrava di essere finiti all’ufficio oggetti smarriti.

« Perché siamo qui? » domandai, continuando a far saettare gli occhi da una parte all’altra di quel luogo fantastico.

Kurt allargò le braccia ad indicare tutt’attorno a lui.

« Perché è statisticamente impossibile che tu non riesca a trovare almeno un fottuto paio di pantaloni in mezzo a tutto questo. » spiegò, respirando
l’aria dall’odore così particolare a pieni polmoni.

« Okay, e su quali statistiche ti staresti basando? » chiesi, sorridendo ed assumendo un’espressione scettica. Dei piccioni ci volarono a qualche
metro e mi misi le mani sopra la testa istintivamente. Kurt roteò gli occhi e, con un sorriso trattenuto appena, mi prese per un braccio e mi trascinò
per le bancarelle, sicuro di avere finalmente trovato il posto perfetto per riuscire a farmi comprare qualcosa che avrei indossato.

Probabilmente avrei dovuto offendermi, perché alcuni degli abiti vintage che stavano appesi nelle bancarelle sembravano praticamente quelli da
barbone con i quali ero entrato per la prima volta nel bar quando ci eravamo conosciuti. Però, la verità era che quel genere di vestiti mi piaceva,
riuscivo a sentirli miei, invece di percepirli come un corpo estraneo ritagliato ed appiccicatomi addosso.

 

« Ma ti prego, questa felpa sarà stata usata da altre dieci persone prima di te! » esclamò Kurt, rifiutando di accettare le mie intenzioni a comprare una felpa rosso bordeaux con cappuccio ed una cerniera non propriamente fluida da chiudere. Però mi piaceva, e tanto. Profumava come quel mercato, di sandalo, di oriente, e la stoffa, nonostante fosse ovvio che fosse stata usata molte volte – dopo tutto era la bancarella dell’usato – era ancora morbida e discretamente elastica.

« Lo so, ma mi piace. » risposi, sfilandomela e rimettendomi il maglione di Kurt. Consegnai la felpa al venditore dai tratti asiatici e lui la ficcò, con un sorriso soddisfatto, dentro a un sacchetto di plastica, indicandomi i dieci dollari segnati sul cartellino del prezzo.

Mi voltai verso Kurt che, a malincuore, mi passò i soldi che suo padre gli aveva dato per me, e pagai il mio acquisto. L’uomo si mise le banconote in tasca e mi salutò cordiale mentre mi allontanavo e Kurt mi seguiva, sbuffando rumorosamente.
« Perché ti piace così tanto? » domandò, accelerando appena il passo per camminarmi accanto. Avevo in mano già cinque borse, e per me erano sufficienti.

« E’ unica. » spiegai, e lanciai un’occhiata alla felpa ripiegata dentro la borsa di plastica.

« Veramente ce ne erano altre dieci uguali. » borbottò Kurt, scuotendo la testa ed arrendendosi all’evidenza.
Ridacchiai tra me e me e decidemmo di prenderci un panino per pranzare, e sederci vicino ad un corso d’acqua. Fui felice di non essermi portato dietro la chitarra, perché assieme a quelle borse probabilmente sarei rimasto ancorato al suolo.

Il carrettino che vendeva hot-dog ci scambiò per una coppia, e canticchiò una canzone di dubbio gusto mentre ci serviva i panini e sorrideva sotto i baffi. Noi rispondemmo con dei sorrisi di circostanza e ci avventammo sul pane caldo e la carne avvolta dalla salsa.

Continuavo a pensare, il cervello che schizzava frasi su frasi alla velocità della luce, sovrapponendole e creando un puzzle sconclusionato nella mia mente. Capivo quanto avevo, e quanto ora potevo perdere.

Come tutto potesse sfuggirmi dalle dita come un banale filo di lana.

« A che stai pensando? » chiese Kurt, la mano davanti alla bocca per non lasciarmi intravedere ciò che stava masticando. Il vento si alzò di colpo, scompigliandomi gli incastratissimi ricci e spostando la piega dei capelli di Kurt. Era un vento strano, che viaggiava in circolo e alzava le foglie da terra. Quelle foglie arancioni e gialle ormai secche per via della vicinanza con l’inverno. Le forme vorticavano nel cemento, e Kurt ancora aspettava una risposta.

« Il vento è strano. » risposi, morsicando appena il mio hot-dog, senza riuscire a levarmi di dosso una brutta sensazione. Era come se qualcuno mi avesse spalmato della marmellata sulla schiena.
Disgustoso e viscido, ecco esatto.
Ed era arrivata tutta d’un colpo, come il vento, come un’idea. C’era e basta, senza un motivo, ma mi sentivo strano. Come se avessi avuto un ragno che mi si arrampicava sullo stomaco.

« Ehi, è solo vento, hai assunto un colorito da caglio del latte, che succede? » domandò, diventando istintivamente nervoso anche lui. Il cielo, che prima era stato semplicemente nuvoloso e batuffolato, ora era popolato da grosse matasse grigie che si stendevano per tutta New York e che non mi piacevano affatto. Il tutto era montato in un tempo infimo, come quando andavi in montagna e dal sole cocente passavi ad una pioggia incessante in pochi minuti.

« Blaine, che succede? » squittì Kurt, in un tono molto più acuto.

Guardai il cielo che si faceva scuro fino a diventare di una tonalità fango che non avevo mai visto. Mi aggrappai alla panchina, il mio istinto mi disse di cercare di stare ancorato a terra, eppure la testa mi diceva di muovermi, di scappare.

« Non ne ho idea. » risposi.




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Spazio Autrice:
Ho l'altro capitolo già pronto, eeeeh, le cose non si mettono poi bene come pensavo.
Non era in programma per evolversi così, ma c'est la vie!

Per chi volesse ripropongo la mia pagina di facebook:
http://www.facebook.com/pages/Noth-EFP/364038186940771

E il mio canale YOUTUBE.
http://www.youtube.com/user/doyouknowellie

- n
oth
   
 
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