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Autore: Quainquie    07/08/2012    10 recensioni
Quando la vita della sovrana di Camelot viene minacciata, Arthur e Merlin devono affrontare una sfida che potrebbe spingerli a riconsiderare la natura stessa della loro missione e del loro rapporto. Curiosamente, l'aiuto più significativo per impedire ai due di smarrire la via giunge dalla persona più inaspettata: Sir Percival.
***
«L’Isola ha già udito le tue preghiere, Morgana. Se il fato lo vorrà, ci rincontreremo per divenire sorelle di spirito» Inaspettatamente il piglio della bionda Sacerdotessa s’era ingentilito. Con un movimento aggraziato, aveva posato le mani sulla chioma insudiciata di Morgana e le aveva ingiunto, dolcemente: «Abbi fede, Morgana».
Genere: Avventura, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altro Personaggio, Merlino | Coppie: Merlino/Artù
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nel futuro
Capitoli:
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Carissime/i,

So che il capitolo giunge di nuovo con qualche settimana di ritardo, ma si è rivelato per me un osso duro: in parte per la lunghezza – consistente – in parte per la mole di informazioni contenute, che ho dovuto addirittura elencare in un quadernetto per essere certa di non scordarne nessuna. Ma ora, eccolo qui! Ringrazio infinitamente i miei fedeli recensori: le vostre ultime recensioni, così particolareggiate, mi hanno caricato talmente da non poter star seduta! Quindi ecco qui il capitolo in cui ho catalizzato tutta l’energia. Spero sia di vostro gradimento! Naturalmente un pensiero va anche a tutti coloro che la storia la leggono, ma che si tengono i loro pensieri per sé. Spero che prima o poi farete sentire la vostra voce, sono sempre pronta a ricevere consigli!

Stavolta non mi limiterò, come le scorse volte, a rompervi le scatole rinnovando l’invito di dare una lettura propedeutica alla mia one-shot incentrata sul personaggio di Percival, Your enemies are my enemies, ma aggiungo anche un’informazione vitale: comincia da qui, lentamente ma inesorabilmente, a salire il rating. Ammetto che solitamente sono molto cruda (eufemismo), e di certo spararmi due volte di seguito la serie sui Borgia di Canal + con la scusa di migliorare il francese non ha aiutato: però cercherò di fare le cose gradualmente, una volta tanto. Un arancione brillante potrebbe andare, come inizio!

E ora le precisazioni di rito: Merlin e tutti i suoi personaggi sono di proprietà dei loro autori e della BBC.

Buona lettura!

Quainquie

 

Cap. VII – So darkness I became

Florence + the Machine, Cosmic love

 

Listenoise, con le sue basse casupole di pescatori e il suo un onnipresente, fastidiosamente acre odore di acqua lacustre, non avrebbe mai potuto, agli occhi esigenti di Morgana, competere con la maestosa solidità di Camelot.

Le strade erano invase da fanghiglia e resti di marciume quotidiano; i ciottoli che una volta le avevano uniformemente tappezzate erano finiti nelle mura portanti delle casupole, oppure erano spuntati qua e là dal selciato, sospinti disordinatamente dal terreno gravido d'acqua e liquame, come funghi di pietra, nei quali il viandante poco accorto era destinato a inciampare. Nonostante il crepuscolo avesse appena raggiunto la sua pienezza di tinte luminose – che spaziavano dal prugna all’arancio tra screzi di lampone, malva, rosa e lilla – gli usci delle casette che fiancheggiavano la via principale erano tutti sprangati, le piccole aperture quadrate che fungevano da finestre chiuse da massicci scuri. Neppure una luce tremula filtrava dagli infissi; soltanto talvolta Morgana riusciva a cogliere, al suo passaggio, il richiudersi secco di un battente ch’era stato fino ad allora socchiuso, unica testimonianza della presenza di esseri viventi all’interno degli edifici.

L’aria emanata dal Grande Lago era, nel suo tanfo dolce, abbastanza fresca da risultare piacevole, ma non così gagliarda da riuscire a scostare le pesanti ciocche scure dal volto pallido della giovane donna. Nonostante l’apparenza sfatta e il mantello nero che le donavano un’intrigante aria selvaggia, Morgana recava ancora, grazie all’esuberanza della sua piena maturità fisica e magica, tracce di quell’antica e ingenua bellezza che l’aveva caratterizzata da ragazza: gli occhi d’un verde perlaceo, ombreggiati da lunghe e folte ciglia scure vezzosamente inarcate all’insù, erano incastonati sugli zigomi alti; la bocca carnosa, socchiusa per lo sforzo di risalire la strada, pareva perforare, con il suo rigoglio rosato, la pelle trasparente. Tale bellezza, a vedersi innocua, si accompagnava tuttavia ad una sensuale e selvaggia sfrontatezza – che trovava il suo apice nei seni divenuti ormai alti e abbondanti, nello sguardo di vivace indifferenza e nell’ondeggiare seducente dei fianchi – acquisita quasi naturalmente in quegli ultimi anni, trascorsi nel folto delle foreste.

La strega si fermò in quella che doveva essere stata, all’epoca del suo massimo splendore architettonico, la più bella delle piazze della capitale, certamente l’unica pianeggiante in quel guazzabuglio di tane di tassi. Si volse indietro a rimirare freddamente il crepuscolo ormai inoltrato, prima di abbassare il cappuccio sformato e di alzare gli occhi sulla costruzione di mattoni rossi che incombeva, ben visibile anche nell’oscurità crescente, sulla piazza limacciosa.

La rocca dei Re di Listenoise – ora funerea dimora di Hengest e dei capi Barbari che con lui erano discesi dalle terre del settentrione – possedeva una curiosa struttura, quasi incespicante, come se chi l’avesse abbozzata fosse un vecchio dalla mano tremante: i sei muraglioni merlati, per meglio aggrapparsi allo spuntone di roccia sul quale il regio palazzo era venuto a posarsi, avevano formato un esagono di proporzioni sghembe e grottesche, privo di quel parallelismo, quella simmetria e quella armonia di struttura che caratterizzavano invece il castello dei Pendragon. Due torrioni, uno dalla forma cilindrica e snella, l’altro rettangolare, più basso e largo, si fronteggiavano, silenti nella notte, dai due angoli strutturali che davano sulla piazza. La gente del posto li chiamava il Chiodo e il Tozzo, come a voler sbeffeggiare il loro alterco di pietra destinato a rimanere insoluto. Dai due scaturivano due muraglioni portanti, i quali però, stupidamente, non s’incontravano per formare un angolo ulteriore: come se i muratori che le avevano erette avessero sbagliato le misure di addirittura quattro falcate, le due mura erano state costrette a non incontrarsi mai, ad essere parallele nel migliore dei casi, e a venire unite, in modo maldestro, da due mura più piccole, che andavano a formare una rientranza angolare dove era stato ficcato, possente nei suoi decori a croci e leopardi, il portone che conduceva alla corte interna.

Morgana non si sorprese affatto di constatare che le fiaccole ai lati del portone erano totalmente assenti, e che nessuno stava di sorveglianza agli ingressi: evidentemente la ferocia dimostrata negli anni precedenti da Hengest e dagli altri Barbari rappresentava una deterrenza efficace da qualsiasi forma di ribellione che gli abitanti avrebbero potuto ideare, con i loro poveri mezzi di pescatori e tintori. Morgana risalì la breve scalinata e spinse senza cerimonie il portone, che non oppose resistenza alcuna se non quella di un lugubre e prolungato gemito di legno e pietra.

La corte interna, invasa da gramigna e rami spezzati, non offriva una vista migliore della piazza. La sfolgorante residenza che aveva ospitato i cortigiani di Re Pellinore vegetava in completa decadenza: numerose lastre alabastrine che separavano gli ambienti interni da quello esterno erano fracassate, e ne erano sparsi frammenti sul selciato del cortile; alcune pareti di mattonelle erano scrosciate fragorosamente a terra, mentre quelle rimaste intatte erano messe a dura prova dalla corrosione provocata dalle violente intemperie che battevano il Grande Lago in ogni stagione. Morgana attraversò lentamente lo spiazzo, badando a evitare gli ammassi di mattoni, drappi e tegole che lo invadevano, affidandosi completamente al proprio istinto magico per destreggiarsi nell’oscurità asfissiante che era seguita allo svanire del crepuscolo. Salì un’altra ripida rampa di scale dai gradini semicircolari, che si diramava poi in altre due, altrettanto ripide, che portavano ai ballatoi dei piani superiori, sormontati da balaustre di legno intagliato. Morgana si fermò sul pianerottolo dove partiva diramazione delle scale; avvicinò la mano ad una cascata d’edera che si stava impossessando della parete e la scostò, brusca. Un grande affresco sbiadito raffigurava uno stemma – del quale s’indovinava ancora lo scintillio della lamina d’oro che ne componeva il fondo – affiancato a destra da uno più piccolo, obliquo. La vista di Morgana non avrebbe potuto, nel buio, scorgerne i motivi con esattezza; ma la sua mente, abituata sin dall’età più tenera ad apprendere a menadito le formalità necessarie per vivere da gentildonna, avrebbe potuto riprodurli all’istante. Sfondo dorato disseminato di croci azzurre; sfondo purpureo disseminato di croci dorate, sovrastate da un leopardo argentato. Gli scudi di Pellinore, Ultimo Re della Terra dei Laghi, e di suo figlio Aglovale.

Morgana conosceva piuttosto a fondo le vicissitudini che avevano portato alla fine di quell’antico regno di pescatori, poiché per anni era stata promessa al secondo figlio del Re, un ragazzo esile e malaticcio di nome Lamorak, prima che Uther scoprisse che Pellinore, nelle fasi più virulente della Grande Purga, aveva prestato soccorso ad alcune colonie Druide e ad alcuni gruppi di poveri disgraziati appartenenti al Popolo Magico, invitandoli a stabilirsi nelle sue terre. I rapporti tra di due regni si era ulteriormente guastati quando Uther si era rammentato, in uno dei suoi usuali e atroci attacchi di follia, del fatto che ogni figlia maggiore dei Re della Terra dei Laghi veniva affidata sin dall’infanzia alle cure delle Sacerdotesse dell’Isola delle Mele, per divenire Somma Sacerdotessa, titolo tramandato di zia in nipote da generazioni: a quel medesimo ordine era appartenuta, ora Morgana lo sapeva, Nimue, che aveva permesso il concepimento di Arthur barattandolo con la vita di Igraine. Accecato da malvagità e pregiudizio Uther aveva troncato ogni relazione con Pellinore, che era stato accusato di alto tradimento verso Camelot e il suo sire; e quando Cenred, assoldato da Hengest in persona, aveva invaso la Terra dei Laghi, mettendola a ferro e fuoco, sterminando interi villaggi e devastando la capitale, Uther non aveva risposto alle richieste d’aiuto degli ambasciatori del suo reale corrispettivo. Si era limitato a stare stravaccato sul suo trono, senza mostrare il benché minimo rincrescimento per le sorti della famiglia reale che una volta era stata sua alleata, schioccando le dita con un sorriso sardonico ogniqualvolta i messi gli notificavano, con rughe mortifere incise sui volti stremati dalle corse a rotta di collo nei territori in fiamme, la morte di uno dei suoi membri.

Morgana lasciò ricadere l’edera e imboccò la gradinata alla sua sinistra: sulle assi del primo ballatoio si riverberavano, nell’oscurità liquida, dei guizzi di fiamme, di candelabri, forse. Un sorriso, più simile a una smorfia di compiacimento, sformò, fugace come un lampo, il viso della giovane, quando si accostò ad uno degli ingressi che davano sul ballatoio. Voci maschili, baritonali e rauche, quasi afone nei loro gemiti, inframmezzate da risate argentine, miste a lamenti troppo sfrenati e acuti per essere considerati di autentico piacere. Morgana spinse l’anta dell’ingresso, e si fermò nella semioscurità, in attesa, le fiamme blande dei candelabri che, infiacchite dalla corrente d’aria lacustre, baluginarono, minacciando di estinguersi.

La stanza doveva essere stata, un tempo, una sala di ricevimenti diplomatici: le pareti erano ornate di arazzi istoriati con complicati motivi narrativi di battaglie, che recavano tuttavia ampie porzioni mancanti, utilizzate per creare sghembi e angusti cubicoli, ai quali non garantivano intimità alcuna. Il soffitto a cassoni istoriati era sorprendentemente basso, come a voler opprimere l’onta causata a quell’antica sala dal nobile uso da quell’improvvisato bordello di mercenari e barbari.

Morgana avanzò con leggerezza attraverso i cubicoli sussultanti, senza prestare attenzione alle scene di violenta lussuria che talvolta le si paravano dinanzi. Raggiunse l’alcova più ampia, addossata alla parete, e scostò un lembo di tappezzeria che celava alla vista ciò che già la sua mente aveva indovinato: Hengest, il Re Barbaro, impegnato a montare, con colpi di bacino disarmonici e privi d’ogni grazia d’amante raffinato, una delle sue sgualdrine. Questa aveva superato il fiore della propria bellezza da anni innumerevoli: i seni erano cadenti e flaccidi, ondeggianti sotto le spinte animalesche dell’uomo irsuto come un cinghiale che la possedeva; le cosce erano grosse, tipico delle donne nobili non avvezze ad interrompere la loro attività contemplativa di signore pigre e sempre assise se non per soddisfare i desideri carnali del consorte.

«Morgana!» la voce ansimante di Hengest la raggiunse, gioviale nonostante l’evidente sforzo che gli costava compiere quell’atto che di erotico, agli occhi della giovane donna, nulla possedeva.

«Fai pure con calma, Hengest» replicò Morgana con asprezza adamantina, mettendosi a sedere su un cassettone ai piedi del groviglio di coperte che costituiva la rudimentale alcova. «Anche se ho ragione di sperare che non durerà a lungo» soggiunse, mentre la smorfia di cinico sbeffeggiamento ritornava a modellarle le fattezze celestiali.

Hengest rispose con un sorriso che voleva essere malizioso, ma che venne all’istante spezzato da un latrato sonoro, seguito da un ansimare che cresceva in intensità, al pari delle grida stridule della donna: Morgana rimase seduta senza battere ciglio, aggiustandosi le vesti e tentando di liberarsi del fango che le aveva impietosamente inzaccherate, mentre un orgasmo sciorinato travolgeva Hengest, dissolvendosi nei gemiti degli altri amplessi morbosi che in quel momento raggiungevano il culmine in quella stanza gretta come i suoi occupanti.

Dopo essersi rotolato nelle lenzuola, abbandonando le natiche cascanti che fino a quel momento lo avevano ospitato, il Re Barbaro si rizzò, carezzandosi il membro con fare soddisfatto, come a volersi complimentare dell’operosità con la quale questo aveva adempiuto ai suoi doveri. Con lentezza esasperante s’infilò degli spessi calzoni di canapa e una tunica di lino; con un brusco cenno della mano congedò la donna con cui si era sollazzato che, con fare ubbidiente, raccolse le sue vesti e s’eclissò dietro un lembo d’arazzo.

«In cosa posso esserti utile, Morgana?» chiese Hengest con tranquillità, versandosi una copiosa quantità di acquavite dal profumo acre in un boccale dall’orlo sgretolato.

L'espressione di Morgana s’incupì di fronte a quel tono canzonatorio e accondiscendente, che le ricordava il debito d'ospitalità che aveva contratto con il Barbaro quando ne aveva richiesto i servigi.

Dopo il ritorno di Arthur sul trono il regno di Camelot era divenuto per Morgana un territorio colmo di insidie e ricordi terribili. Aveva sperato – ingenuamente, se n’era resa conto – che il suo fratellastro concentrasse tutte le proprie energie in quella farsa che sarebbero stati il matrimonio e l’incoronazione di Gwen; ma pareva divenuto un uomo di rara avvedutezza, o perlomeno un sovrano sostenuto da consiglieri più accorti di lui. Dopo avere bandito Morgana dai territori di Camelot, Arthur aveva diramato tramite i suoi messi più veloci un mandato di cattura in ogni angolo del reame, con la promessa di una lauta ricompensa per chicchessia l’avesse portata al suo cospetto, viva. Ovviamente, pensò Morgana con tetro furore: la magnificenza di sentimenti e la liberalità di cuore di Arthur Pendragon avrebbe dovuto riecheggiare luminose in ogni remoto anfratto dei Territori Abitati: i cantori avrebbero intonato nei millenni a venire le gesta del Re dal cuore nobile e generoso che aveva graziato la sua povera ed animosa sorellastra, che perlopiù recava nel suo spirito nero tracce del male incurabile della magia.

In circostanze a lei congeniali non avrebbe nutrito esitazione alcuna a sfidare il ridicolo bando di Arthur; ma a seguito del loro ultimo scontro le sue condizioni fisiche e spirituali erano troppo fragili per correre un rischio di tali proporzioni. Aveva allora vagato nei boschi dei Regni confinanti a Camelot, confusamente, incapace di servirsi della luce polverosa che filtrava esile dalle chiome degli alberi per orientarsi, di distinguere la notte dal giorno grazie al sommesso e penetrante grido crepuscolare delle civette. E si sarebbe spenta nel buio, come una fiammella percossa da una folata di vento, se non fosse stato per quella creatura nitida e nivea che, con un tramestio d’ali e di foglie secche, aveva infuso in lei il soffio rovente e benefico del suo respiro. Il ricordo risvegliava in lei sentimenti che aveva creduto sopiti e sepolti: gratitudine, speranza, eccitazione.

Quella creatura – un drago, si annotò mentalmente per l’ennesima volta, cercando di accettare, a scapito dello sbigottimento che l’aveva investita, l’identità magica del suo salvatore – era la prova che qualcuno, o qualcosa, credeva nei suoi propositi di ristabilire l’egemonia delle arti magiche, o che perlomeno era riuscito a leggere nel profondo delle sue azioni. Da Morgause aveva appreso che i draghi non erano, al contrario di ciò che narravano le credenze popolari con cui era cresciuta, esseri selvaggi, brutali ed indomabili, ma creature estremamente raziocinanti, che assecondavano con intense devozione e ubbidienza la volontà del loro Signore. Il pensiero, fremente di speranza e di desiderio, che da qualche parte, nelle terre della Britannia, il Signore dei Draghi, l’ultimo della sua stirpe gloriosa, avesse seguito nello spirito le sue orme errabonde e disperate – con solidale apprensione, forse – e avesse deciso di inviarle quella creatura alata dal respiro rovente e prodigioso perché le impedisse di spegnersi nell’umida solitudine del sottobosco nebbioso, aveva sostenuto Morgana nei cicli di luna a seguire, l’aveva spronata a rimettersi in forze, aveva alimentato il suo bisogno di giustizia per tutte le creature del Popolo Magico costrette a vivere ai margini di ogni civiltà e affetto, evitate come gli appestati.

Guarita la debilitante ferita all’addome, Morgana aveva atteso, con una pazienza così insolita per la sua tempra fervente, che il suo corpo si riprendesse, vivendo perlopiù nei boschi, cibandosi di bacche, radici e cortecce, facendo sosta talvolta presso la capanna di uno dei tanti legnaioli che popolavano quelle foreste ricche di legna pregiata e solida per chiedere un po’ d’acqua di fonte. Nei giorni più propizi il taglialegna in questione aveva una moglie o una figlia che si preoccupavano di allevare oche, galline o capre: e allora la buona gente le offriva, senza chiedere nulla in cambio, latte e formaggio, uova e carne insaporita da cipolla selvatica.

La giovane si era in seguito diretta verso settentrione, virando leggermente verso occidente: man mano che il suo solitario viaggio proseguiva, i boschi s’infittivano, paludi e acquitrini che emettevano un lezzo insalubre comparivano copiosi, mentre la terra secca e solida dei Territori meridionali lasciava spazio a quella umida e densa delle terre del settentrione. In un mattino impregnato d’uggia e di bruma talmente spessa da farle dubitare della sua natura acquea Morgana era stata svegliata da un odore intenso, inconfondibile e sgradevole d’acqua lacustre. Aveva allora compreso di aver raggiunto, dopo tanto peregrinare smarrito, la Terra dei Laghi: la superficie ai suoi occhi immensa e immota dello specchio d’acqua – ma che in realtà era infranta dagli uccelli pescatori che, saettanti, s’abbassavano inaspettatamente per afferrare nei becchi uncinati una trota – le si era parata dinanzi, grandiosa e lugubre come il cielo plumbeo che la sovrastava. Nei giorni a seguire lo stupore causato da questa massiccia e greve visione sarebbe scemato, perché essa si sarebbe rivelata la prima di molte, tutte medesime e altrettanto cupe. Le capanne dei taglialegna erano state sostituite da catapecchie di fango e sasso abbarbicate con palafitte pericolanti alle rive del lago, nelle quali dimoravano per la maggior parte dell’anno i pescatori, povera gente dalla pelle tirata e grigiastra e dalle mani callose.

Erano ormai trascorsi numerosi cicli di luna dall’ultimo scontro che aveva avuto con Arthur. Ma ora che si trovava lontana da lui e da Camelot, il livore vendicativo e cieco che le aveva consunto le membra si era trasformato radicalmente, si era fatto più sfaccettato e latente, senza tuttavia perdere né in vigore né in acuità. Ciò che invidiava ad Arthur non era il fatto che lui fosse un sovrano potente, come molte sue azioni, di cui ora deplorava l’avventatezza e la stolidità, avevano condotto a pensare i più, bensì il privilegio, accordatogli da chicchessia lo circondasse, di essere accettato e perdonato incondizionatamente, nonostante la sua immaturità e la sua superbia, in passato, lo avessero portato a compiere errori, anche al limite dell'irrimediabile. Morgana aveva creduto che tale accettazione e tale perdono scaturissero dal potere regio che Arthur aveva acquisito in quanto erede di un regno ricco e vasto: a quel potere aveva ricondotto la reverenza che ogni cittadino, nativo o straniero, dimostrava ad Arthur, convincendosi che si trattasse non tanto di un sentimento spontaneo, genuino, quanto di un timore ossequioso indotto dal potere temporale incontrastato del sovrano di cui il suo fratellastro era investito. La donna aveva compreso, a suo tempo, di essere stata in fallo: e lo aveva appreso percorrendo la via più oscura, dura e amara. Aveva occupato il trono di Camelot per ben due volte e, nonostante il potere che le derivava dalla corona posta sul suo capo, era stata rigettata, rimandata nei boschi come una fiera pericolosa e rabbiosa. Non soltanto dal popolino ignorante, dai nobili e dai cavalieri del popolo scevro di magia: anche Iseldir, la Guida Druida, le aveva negato ospitalità presso la sua Famiglia. Il cuore di Morgana, aveva detto con un rammarico insopportabile, era troppo nero d’odio per contaminare qualcosa di così puro come il popolo Druido.

In quei mesi trascorsi in una solitudine quasi completa, ma di certo carica di riflessioni, attimi di sollievo e di bieca disperazione, Morgana aveva apprezzato la lontananza di quel mondo terreno fatto di giostre e ambizioni, e nel contempo aveva provato, nel profondo di sé, una fitta di nostalgia, il desiderio vivido di avere accanto esseri umani a lei simili, che condividevano le sue speranze, le sue paure, le sue amarezze. E di colpo, folgorata, aveva compreso perché Arthur era così amato e riverito nonostante tutte le sue pecche: perché viveva tra uomini e donne che come lui commettevano errori e che come lui speravano nella completa assoluzione. Che, come lui, avevano paura della magia, e che non sarebbero mai stati disposti a perdonare Morgana con lungimirante immediatezza per ciò che era, semplicemente perché Uther, nella sua stolida malevolenza, aveva insegnato loro a temere ogni creatura che manifestasse poteri sovrannaturali. Il mondo in cui era nata, aveva compreso inoltre Morgana, percuotendosi il petto per liberarlo dalla morsa del panico, non era il mondo in cui avrebbe potuto vivere con tranquillità e comprensione.

Quante cose le aveva fatto comprendere quel semplice battito d’ali, quell’alito caldo e salutare!

Carica di nuove consapevolezze si era diretta verso la Terra dei Laghi, appunto, alla ricerca di esseri a lei consimili. Morgause le aveva parlato a lungo, con sospiri pieni di aspettativa, dell’Isola delle Mele e delle Sacerdotesse che ivi abitavano, raccolte nella quiete della meditazione e dell’erudizione, grazie alla quale apprendevano ogni segreto della natura. Morgana all’epoca non aveva compreso perché la sorella anelasse a una vita di volontaria reclusione; ma ora, sola nelle selve incolte, con la cognizione che i suoi straordinari poteri nulla avrebbero potuto contro l’abbandono in cui viveva, riconosceva nei propri occhi, quando occasionalmente si specchiava sulla superficie acquea ed eterea di uno dei Laghi, il medesimo desiderio.

Le Sacerdotesse erano giovani donne, come lei, che vivevano coltivando i propri poteri, per apprenderne ogni uso, per entrare in contatto con ogni profonda fibra magica che la natura aveva loro elargito: erano rinomate orefici e guaritrici e apprendevano le arti del canto e della musica, della poesia e della danza. Era risaputo che, nei tempi passati, molte fanciulle di nobili natali, provenienti da tutta la Britannia, venivano condotte sull’Isola per ricevere un’eccellente educazione nelle arti femminee, di cui avrebbero fatto tesoro dopo il loro ritorno in patria e dopo aver intrapreso la vita coniugale: la seduzione, l’eleganza, la grazia, la capacità di intrattenere vivacemente gli ospiti. Alcune di loro non avrebbero mai più fatto ritorno nella civiltà, ma avrebbero preso i voti presso la Somma Sacerdotessa, per dedicare la propria vita al servizio dell’Antica Religione.

Con la speranza di poter a sua volta entrare nell’ordine Morgana aveva raggiunto l’arcipelago delle Isole Bianche. Quando i suoi piedi, sanguinanti a causa dei calzari troppo stretti e provati dal lungo e tormentoso viaggio, si erano appoggiati sull’arenile candido, puntinato di scintillanti granelli di ghiaino finissimo, erano sprofondati in un calore tiepido e invitante. La superficie del lago era una lastra di ossidiana, immota e silente, coronata di bruma opalina. La giovane, che di fronte a tale terribile e nel contempo superbo paesaggio aveva provato un inspiegabile e serpentino guizzo di inadeguatezza, si era inginocchiata sulla sabbia mite, tendendo le braccia dinanzi a sé, i palmi rivolti verso l’alto, la fronte imperlata di sudore e sudiciume che attirava i sottili grani d’arenaria, come a invitarli a cingerle il capo con una povera corona. Morgana aveva atteso per ore che accadesse qualcosa, ma invano. L’acqua lacustre era rimasta immota, e dolce, in stridente contrasto con le lacrime salate di rabbia e inadeguatezza che le rigavano il volto. Dopo due giornate di intensa e fervente meditazione – o almeno, la luce pallida del sole al di sopra della bruma diamantina pareva essersi risolta in due archi distinti agli occhi stanchi e brucianti di Morgana – un brusio si era finalmente levato dal lago; l’acqua era ora striata di rosso scuro e intenso come il sangue di un innocente, una lastra di ematite, attraente e gagliarda, e la bruma era divenuta grigiastra, compatta.

Due figure erano emerse dal lago, minute e perfettamente in equilibrio su di una rudimentale zattera di tronchi d’albero intrecciati con una spessa corda fibrosa, che scivolava sinuosa sulle acque che, stranamente, non producevano il morbido e familiare gorgoglio delle onde. La prima delle due figure, di cui s’indovinava la corporatura fragile e ingobbita anche attraverso le vesti ampie che le ricadevano addosso in pieghe increspate e scomposte, reggeva il remo di governo. La seconda era esile e elegante; la veste color zafferano a intricati motivi di mele e fiori di guado, così come il pendente a forma di mela intrecciato tra le ciocche, in una sinfonia quasi cacofonica di oro e bronzo, avevano permesso a Morgana di identificarla all’istante come Sacerdotessa, nonostante la bruma si fosse ora decisamente fatta più densa e grigiastra.

Morgana aveva sollevato appena il capo, il cuore che le riecheggiava ritmicamente nel petto quasi a voler sostituire le onde assenti, quando aveva veduto la Sacerdotessa smontare con un lieve balzo dalla zattera attraccata ad uno spuntone di roccia che, solitario, occupava la riva. Aveva atteso che, come da costume ospitale, la Sacerdotessa le tendesse una delle mani bianche e le offrisse rifugio.

Ma la richiesta non era venuta.

Morgana si era infine sollevata, mentre lacrime d’ira e d’umiliazione avevano ripreso a striarle le guance: com’era misera, e mostruosa, rispetto alla donna d’oro che, con le mani raccolte sotto il seno, la fissava con i suoi occhi gelidi, simili a quelli di una faina, dorati anch’essi. Nei tempi andati, quando era stata la pupilla di Uther, Morgana avrebbe di certo superato e mortificato con la propria sfolgorante e passionale bellezza l’avvenenza aristocratica e delicata di questa giovane donna. Tale convinzione, vana ma consolante, si era consolidata in Morgana quando s'era accorta dello sfregio roseo che deturpava la mandibola della Sacerdotessa, scendendo implacabilmente sino al seno.

La voce di Morgana, arrochita per le interminabili lune di silenzio, aveva allora lacerato l’aria: «Vi prego, sorella, abbiate pietà di me. Portate la mia richiesta alla vostra Signora, perché ella possa venirmi in soccorso».

La Sacerdotessa aveva scosso lievemente il capo in segno di diniego e replicato, in tono glaciale: «Morgana Pendragon, con quale alterigia ti presenti a questi liti?» Come a voler sottolineare la solenne asprezza con la quale la Sacerdotessa aveva proferito queste parole, l’accompagnatrice sbilenca e grigia come la nebbia cinerea che le circondava aveva mosso bruscamente il remo nell’acqua, producendo uno sciabordio infastidito. Dopo che questo si era chetato, la Sacerdotessa aveva proseguito: «La Somma Sacerdotessa non intende accordarti il permesso di solcare queste acque sacre. Ma anche se volesse, le ceneri degli antichi hanno espresso con forza il loro rifiuto, che non può essere revocato neppure dalla Somma tra le Sacerdotesse dell’Isola delle Mele».

Morgana aveva scosso la testa, violentemente, incapace di comprendere: «Sono una figlia dell’Antica Religione, sorella…!»

La Sacerdotessa l’aveva fissata con straordinaria durezza, il bagliore aureo dei suoi occhi quasi pungente: «Sorella, mi chiami, quando né tu né la scellerata sorella tua di sangue avete portato rispetto per le sacre vestigia di quest’isola?» Non aveva atteso la supplichevole replica di Morgana, i cui occhi folli tradivano l’ignoranza di cui, seppur con amarezza, si trovava vittima in quel frangente: «Hai fatto uso della Coppa della Vita, iniquamente e vilmente sottratta a queste terre! E per cosa? Non certo per la causa di quella che tu definisci la nostra comune Religione. Avidità ti mosse, Morgana, avidità di potere terreno, meschino e frivolo, destinato a svanire ancor prima di consolidarsi. E questo tu chiami amore fraterno? Perciò di nuovo ti chiedo: con quale alterigia ti presenti a questi liti?»

I singhiozzi di Morgana l’avevano costretta a terra, un fagotto nero scosso da singulti violenti, incontrollati. La Sacerdotessa aveva atteso con pazienza una risposta che non era venuta; poi si era voltata con grazia e aveva teso la mano alla zattiera, affinché questa l’aiutasse a salire agevolmente sulla sottile imbarcazione.

«Non conoscete la pietà, voi isolane?» La voce di Morgana, isterica, era prorotta rabbiosa. «Io farò qualunque cosa, qualunque cosa!» aveva poi aggiunto, con più risolutezza, nonostante gli occhi verdi fossero iniettati di sangue pallido. «Qualunque cosa per il perdono della Signora e per la grazia della vostra ospitalità».

Come se avesse atteso con ansia quelle parole, la giovane Sacerdotessa era tornata a volgersi verso Morgana.

«Vedi le ceneri dinanzi a te, Morgana?» le aveva chiesto, in tono sorprendentemente dolce, cadenzato come i suoi passi aggraziati sulla battigia. Aveva indicato la densa bruma grigiastra e aveva incalzato la giovane donna mora: «Vedi queste ceneri?» Al cenno di diniego di Morgana, che null’altro scorgeva che una nebbia umida e insistente, la Sacerdotessa aveva proseguito, come se la sua interlocutrice le avesse risposto affermativamente: «Appartengono agli antichi. Esse rappresentano la barriera che protegge, meglio di qualunque armata terrena, la nostra Isola, e nel contempo l’unico varco che ne permetta la comunicazione con il mondo scevro di magia. Si manifestano ai figli dell’Antica Religione, e a coloro che con loro sono in cammino, quando questi solcano queste spiagge deserte in cerca di protezione e ristoro, ma ad una condizione: essi devono essere loro totalmente devoti, anzi, devono condurre una vita devotamente esemplare» La giovane donna aveva fatto una pausa. «Non è il perdono della Somma Sacerdotessa che devi ottenere, Morgana, ma delle antiche ceneri. Ma non basteranno di certo le lacrime e le grida di disperazione con cui hai profanato la tranquillità di questi luoghi a renderti degna di tale indulgenza, considerato l'impudente peccato che hai commesso».

Morgana aveva ascoltato, con rapita attenzione, mordendosi le labbra, ogni parola. Ma più il tono della Sacerdotessa si faceva freddo, più una pietra greve e acuminata sprofondava nel suo petto ansante.

«Tuttavia… » La Sacerdotessa aveva lasciato che la propria voce rimanesse sospesa, densa di aspettative, come la bruma cinerea che le circondava: se Morgana avesse posto più attenzione a quella cadenza carica d’attesa ed esitazione, avrebbe compreso che essa in realtà rasentava la malizia. «Puoi tentare di ottenere la grazia, Morgana, rendendo ciò che è stato sottratto all’Isola con l’inganno dall’avarizia degli uomini».

Gli occhi dell’altra erano divenuti due fessure baluginanti di speranza: «Dovrei quindi riportare la Coppa della Vita agli antichi?»

La Sacerdotessa aveva abbozzato un cenno d’assenso con un gesto elegante delle sue affusolate mani bianche, facendo ondeggiare l’ampia manica della veste: «Se riporterai umilmente la Coppa della Vita alla Somma Sacerdotessa, dimostrando che sei pentita di averne fatto uso in modo così avido, gli antichi te ne saranno grati. Essi ti offriranno in cambio la possibilità di dialogare con loro, per poi avere accesso all’Isola, dove potrai trovare finalmente la tua pace».

Morgana aveva taciuto per qualche breve istante, poi aveva chinato il capo con un’obbedienza genuina che le era stata, per molti anni, estranea: «Farò tutto ciò che mi è richiesto per ottenere il perdono delle ceneri dei nostri antichi. Soltanto… » La fermezza della sua voce era tornata ad affievolirsi: «Non so quale sia stato il destino della Coppa, sorella».

La Sacerdotessa le aveva allora concesso una risata argentina, che in realtà fungeva, Morgana lo aveva subito compreso, da implacabile cenno di congedo: «Morgana, non puoi pretende di ottenere ciò che desideri senza caparbia e sacrificio. E, inoltre, non ho mai detto che la tua impresa è destinata ad avere buon fine, o che essa verrà compiuta in tempi brevi».

«Ti prego… »

«L’Isola ha già udito le tue preghiere, Morgana. Se il fato lo vorrà, ci rincontreremo per divenire sorelle di spirito» Inaspettatamente il piglio della bionda Sacerdotessa s’era ingentilito. Con un movimento aggraziato, aveva posato le mani sulla chioma insudiciata di Morgana e le aveva ingiunto, dolcemente: «Abbi fede, Morgana».

Un calore intenso, piacevole e rassicurante, era scaturito dal punto in cui la Sacerdotessa aveva posto le sue mani candide, e Morgana aveva percepito una fitta di pace e gratitudine pervaderla. Aveva chiuso gli occhi, lasciandosi cullare dallo sciabordio dell’acqua e da quell’inebriante calore. Quando s’era risvegliata – minuti, ore, giorni dopo? – la Sacerdotessa e la zattiera erano svanite. Le acque era ridivenute immote, di nuovo luminose come ossidiana, scintillanti nella luce timida che cercava invano di farsi strada nella bruma. Nelle ceneri, aveva rammentato Morgana, rammaricandosi di non poterle ancora distinguerle come tali.

Aveva tentato di mettersi alla ricerca della Coppa della Vita nel modo più rapido e efficiente possibile, e di ottenere, invano, informazioni preziose dai pochi e discutibili alleati che le erano rimasti nei Regni – mercenari, perlopiù, o guaritori ciarlatani. Nonostante Morgana avesse tentato di mantenere la propria apparenza di crudeltà e sicurezza, man mano che le lune passavano ed alcuna notizia della Coppa giungeva, aveva cominciato a provare irrequietezza e disperazione. Sospettava, in realtà, che la Coppa si trovasse a Camelot: tuttavia il bando emesso da Arthur e la propria debilitazione, stavolta di natura spirituale, l’avevano indotta, di nuovo, a desistere di recarvisi di persona.

A quei momenti di buia incertezza risaliva la sua alleanza con Hengest. Non che il Re Barbaro offrisse servigi di tale prestigio da risultare alleato imprescindibile per Morgana: non era un condottiero di particolare acume militare e neppure un compagno piacente. Tuttavia i territori sui quali spadroneggiava erano gli unici a essere sottoposti alle leggi barbare. Dopo la caduta del regno di Listenoise, infatti, ogni alleanza civile tra questo e i rimanenti Regni della Britannia s'era dissolta, permettendo ai mercenari di Hengest di imporre il proprio arbitrario volere. Il regno era diventato un ricettacolo non solo di soldati e prostitute al loro seguito, ma anche di personaggi d'infima e meschina risma – strozzini, ladruncoli, briganti, ciarlatani, assassini e stupratori, traditori – che ivi vivevano indisturbati e dediti alle peggiori dissolutezze. Non era forse il luogo che Morgana aveva desiderato per se stessa – poiché ben lontano dalla pace meditativa dell'Isola delle Mele – ma rappresentava un rifugio sicuro: a nessuno di quei manigoldi importava se lei era stata la figlia traditrice di Uther, che aveva tentato di usurpare per ben due volte il trono di Camelot. In realtà, a nessuno importava in primo luogo di una donna, specie se posseduta da manie di grandezza e potere. Nessuno l'avrebbe venduta ai Cavalieri di Camelot, perché nessuno di loro la identificava come pericolosa per i propri affari: sapeva che, di sottecchi, Arthur era oggetto di dileggio, poiché con i suoi bandi aveva dato a vedere di temere una donnicciola.

La corte di Hengest, barbara anch'essa, disgustava Morgana, che tuttavia si era adeguata alle usanze praticatevi di buon grado. S'era rassegnata a tentare di sedurre Hengest, ma con sollievo intimo s'era accorta che, su di un barbaro delle montagne, la sua bellezza procace e sensuale, tutta dispiegata, messa in mostra, non sortiva alcun effetto: i Barbari preferivano, per ragioni a Morgana oscure, donne longilinee e secche, dagli occhi felini e dai visi aguzzi e sgraziati, solitamente giovinette che lavoravano nei campi e che erano ancora acerbe come il loro fisico.

Morgana s'era allora accostata a Hengest come guaritrice: ossessionato dalla paura di invecchiare e di perdere la sua selvaggia virilità, non era stato difficile convincerlo ad essere curato da rimedi magici efficaci anziché decotti disgustosi che non sortivano alcun effetto. Mentre i pochi, fidi messi di Morgana andavano e venivano dalla Terra dei Laghi portando notizie di scarsa rilevanza, questa tentava di ingraziarsi Hengest, nel caso il momento propizio si fosse presentato.

Hengest si era subito accorto dei vantaggi che un'alleanza con Morgana avrebbe comportato. Da quando si era insediato a Listenoise da regicida, l'Isola delle Mele gli era stata preclusa, così come le sue ricchezze e il suo appoggio politico – ciò non era affatto sorprendente, aveva riflettuto Morgana, considerando che Hengest aveva sterminato la famiglia della Somma Sacerdotessa. Tuttavia, aiutare Morgana a riportare la Coppa della Vita all'Isola avrebbe potuto rappresentare concretamente una svolta per i rapporti tesi tra le Sacerdotesse – che non avrebbero potuto rifiutarsi, per cerimoniale, di rendere omaggio a Hengest nel caso questi avesse riportato loro il prezioso Calice – e Hengest – che abbisognava dell'appoggio dell'Isola per mantenere il proprio controllo sugli abitanti dei territori della Terra dei Laghi. Forte dell'appoggio del Re Barbaro – che aveva inviato spie in ogni angolo della Britannia non appena gli accordi tra loro erano stati formulati – Morgana aveva permesso a se stessa di sperare nel successo di quell'impresa.

Una mattina uggiosa – fatto non insolito per la Capitale – una delle spie di Hengest aveva varcato trafelata il portone sbilenco della saletta delle udienze, divenuta ormai più che altro una sala di piacere e giochi di carte, portando notizia di un attentato alla vita della giovane Regina di Camelot. Le voci a riguardo si rincorrevano come puledri imbizzarriti per i Regni, bisbetiche e cangianti: la Regina Guinevere, si diceva, era caduta vittima di un potente incanto mortifero al tocco di una collana d'oro e rubini. Ogni tentativo di guarire la sventurata sovrana s'era rivelato inconcludente.

Morgana si era sorpresa di non aver provato alcuna gioia nell'apprendere la notizia. Non aveva d'altro canto neppure provato compassione per Arthur o per la sua serva, perché ancora non aveva loro perdonato l'incapacità di comprendere quanto desiderasse essere sostenuta ed accettata: anche se le sue stesse azioni erano state deplorevoli e spesso la sua collera cieca e ingiustificata, Morgana sapeva che Arthur non aveva ancora legalizzato la magia a Camelot, pur esercitando i poteri regi nella loro forma più completa e pur vantandosi d'essere un Re aperto e giusto. Come poteva essere diverso da Uther, se non aveva neppure il coraggio di infrangere le catene con cui questi aveva avviluppato il popolo magico? O anche solo di dare inizio a tale liberazione? E Gwen, la graziosa consorte, perché non aveva intercesso presso il marito per ottenere giustizia per gli oppressi, lei ch'era la figlia di un povero fabbro, ucciso dalla bigotteria di Uther?

La giovane donna aveva inoltre rimuginato per lunghe ore, trascorse nella solitudine del palazzotto ai limiti della Capitale che Hengest le aveva adibito, sull'identità di colui o colei che aveva eseguito quell'incanto tanto potente sul monile. Non c'era dubbio che si trattava di una creatura magica potente: quel maleficio era praticamente indissolubile senza far ricorso alla magia, il che testimoniava la grandezza di chi lo aveva eseguito. Morgana conosceva soltanto un altro stregone che fosse abbastanza talentuoso per poter riuscire in una simile impresa, a parte se stessa: Emrys, che tuttavia non aveva nessun motivo per scagliarsi contro Arthur, del quale era protettore. A meno che... e se fosse stato a sua volta deluso della codardia del giovane Pendragon? Stanco di attendere una risoluzione? Quale che fosse la ragione, Morgana non ne sarebbe venuta di certo a capo da sola. Ma se Emrys fosse davvero divenuto ostile ad Arthur, forse sarebbe potuto divenire alleato di Morgana: e tale pensiero bastava a inebriare in modo eccitante e convulso la mente della giovane strega.

Morgana aveva però allontanato dalla mente tutta la vicenda poiché, credeva, essa non avrebbe potuto aiutarla nella sua ricerca. O almeno, aveva continuato a crederlo finché le spie di Hengest non avevano cominciato ad accorrere sempre più concitate da Camelot, portando notizie degli sviluppi che circondavano la condizione di Gwen. Le notizie erano sempre piuttosto inattuali, considerata la distanza notevole tra i due regni, nonostante l'impegno incessante delle staffette: perciò, quando aveva appreso che Arthur aveva emesso numerosi bandi affinché la Coppa della Vita venisse portata al suo cospetto, Morgana si era sentita svenire, assalita da rabbia e disperazione: se la notizia giungeva alla corte di Hengest ora, Arthur era in vantaggio di quasi una luna nella ricerca. I suoi timori furono confermati una luna di agonia dopo, quando notizie del ritrovamento della Coppa e dell'arrivo di una Famiglia Druida a Camelot erano giunte a Listenoise. Chiacchiere volevano anche la presenza di una Sacerdotessa dell'Isola delle Mele nel drappello, alle quali Morgana dava però poco credito, considerato che le Sacerdotesse in carica potevano lasciare l'Isola soltanto nel caso dovessero contrarre un matrimonio politico su ordine della Somma Sacerdotessa. Ma tali occasioni avvenivano in pompa magna, e Morgana non ne aveva avuta notizia alcuna.

Hengest aveva mostrato un'insospettabile lucidità caratteriale nell'apprendere quelle nuove così infauste per la loro causa, Morgana gliene aveva dovuto dare merito. Non tutto era perduto come appariva, le aveva fatto notare, sfatando il mito della burina ignoranza dei Barbari: se Arthur aveva richiesto l'uso della Coppa per salvare la sua consorte, avrebbe dovuto pagarne, come voleva la legge che tutte le cose del mondo governava, il prezzo. Quale fosse, era a Hengest ignoto; ma i Druidi, considerati i frequenti abusi avvenuti in quel secolo ai danni della Coppa, avrebbero senz'altro pregato il sovrano di Camelot di ricondurla alla Sacra Isola sulla quale era stata forgiata. Con un poco d'accortezza strategica avrebbero potuto intercettare il drappello di Camelot nei territori di Listenoise, che non offrivano alcun riparo alla vista delle vedette, sopraffarlo con la superiorità di uomini e mezzi e appropriarsi della Coppa.

Era proprio lo sviluppo di quel piano che Morgana intendeva discutere quella sera. La donna si stizzì quando vide che Hengest, ancora accaldato dal suo amplesso, pareva dimentico dell'importanza di convenire i dettagli finali del recupero.

Morgana s'impose di rispondere con voce carezzevole, ignorando il petto villoso di Hengest che ancora si abbassava e alzava convulsamente: «Non ho più ricevuto tuoi messaggi, Hengest. Il drappello di Camelot è partito da ormai una settimana, e ancora non sappiamo come agire».

Hengest soppesò distrattamente le parole di Morgana, trincò un sorso d'acquavite e rispose con voce roca: «Dai tempo al tempo, bambina» Morgana sussultò a quel nomignolo cantilenante, che suscitava in lei il più profondo ribrezzo. «Le vedette non hanno ancora avvistato nulla. Magari Arthur e le sue donnette sono più lenti e inesperti di quel che si crede» Ridacchiò, soddisfatto della propria valutazione dei fatti. «Nessuno di loro conosce queste terre. Saranno rallentati, con le loro bestiacce» Lo sdegno tipico dei Barbari per le cavalcature delle terre meridionali trasparì da quella considerazione. «Oppure sono sprofondati in una palude... » La risata divenne gutturale e isterica.

Morgana s'infervorò, sporgendosi in avanti, gli occhi verdi divenuti due fiamme oscure: «Tu, pezzo di zotico! La Coppa deve giungere in queste terre integra, e non finire in una qualche palude dimenticata dagli dei assieme ad Arthur e i suoi!»

Hengest contrasse i muscoli del viso, posando il boccale. Morgana sentì una fitta di desiderio pervaderla, suscitata dalla fisicità, violenta e animalesca, emanata dal Re Barbaro. Quando questi parlò, la sua voce risuonò bassa e carezzevole: «Morgana, ci sono cose che non sono di tua competenza. Tu farai la tua parte, io la mia» Si sollevò pesantemente. «C'è altro che possa fare per te, stanotte, Morgana?»

Morgana si morse un labbro. A chicchessia sarebbe parso un gesto sensuale; esso esprimeva invece una profonda preoccupazione, che la donna si affrettò a celare: «Voglio una promessa, Hengest» esordì infine. «Non voglio inutili spargimenti di sangue».

Hengest emise un breve fischio di scherno, allontanandosi: «Paura delle Sacerdotesse, mia povera bambina? Oppure è il tuo rimorso patricida? Se quelle streghe ti hanno offerto una possibilità dopo tutto il sangue inutile che hai versato, perché non dovrebbero continuare a farlo per una qualche altra goccia?»

Morgana rimase sola nell'alcova affollata di ombre e gemiti, mentre una fitta la colpiva allo sterno. Nonostante tentasse di convincersi che tutti i segni puntavano a suo favore – cos'altro potevano significare l'avvelenamento di Gwen e il ritrovamento della Coppa, così provvidenziali? – qualcosa di indefinito, per la prima volta da molti anni a questa parte, la turbava.

Non ho mai detto che la tua impresa è destinata ad avere buon fine.

Le parole della Sacerdotessa d'oro risalirono, vorticando, dagli anfratti della sua memoria. Improvvisamente la testa prese a girarle in modo vorticoso, preannunciando una visione, e un intenso e lancinante dolore le esplose nella fronte, familiare e terribile. Senza farsi attendere, una voce femminea e tonante, che pareva provenire da un altro mondo, costellato di bruma, gridò, imperiosa, stordendola.

Morgana la Fata, rendi ciò che è stato sottratto.

Morgana cadde in avanti, lacerandosi le vesti. Si aggrappò senza successo alle coperte dell'alcova, annaspò alla ricerca d'aria pulita. In preda all'isteria, la giovane donna attraversò la sala, avanzando a tentoni e inciampando più volte.

Sei la mia unica speranza. Giurami che renderai ciò che è stato vilmente sottratto!

L'aria fredda e umida della notte si infranse sul volto contratto di Morgana quando questa raggiunse il ballatoio. Inspirò rumorosamente, aggrappandosi alla staccionata. Rinnovò per l'ennesima volta il proprio giuramento, e poi svenne, cogliendo nel vasto cielo oscuro che la sovrastava, cieco e dimentico della dolcezza del crepuscolo, un fulmineo frammento infuocato: la scia di una cometa a tre punte, di un carico color vermiglio.

*  *  *

A molte leghe di distanza, avvolto nel tepore del sonno, Merlin rinnovò a sua volta, con voce impastata, il medesimo giuramento, mentre guizzi di rosso e d'oro gli danzavano dietro le palpebre serrate, in una danza incalzante e primitiva.
 

 

Ebbene sì, il capitolo si concentra sul personaggio del ciclo arturiano che amo di più: Morgana. Non riesco ancora a capacitarmi di come gli autori di Merlin l’abbiano trasformata in una megera, dai capelli unti e dalle strane tendenze sadomaso (vogliamo davvero parlare delle scene della quarta stagione in cui fa “cantare” Gwaine? No? Concordo) e, come se non bastasse, schiumante di rabbia verso ogni cosa che respira. Credo che avessero per le mani un personaggio abbastanza complesso, che certo meritava più di caratterizzazione (ma dopo Guinevere la Piatta tale negligenza non mi sorprende). Ho voluto tentare di ridarle spessore: se davvero la vogliono tutta vestita di nero e con dei capelli che sono quasi dei rasta, va bene. Ma ci metto del mio per salvarla dallo scempio. Per dirla alla Barney Stinson: challenge accepted. Aspetto impaziente i vostri pareri sul risultato: la grande difficoltà è consistita, per me, appunto nell’introdurre e tematizzare Morgana in modo plausibile.

Grazie alla comparsa di Morgana ho potuto inoltre fornire una biblica digressione sul regno di Listenoise, verso il quale la nostra cricca amatissima è diretta. L’ho ritenuto necessario, in parte perché ora l’azione si sta decisamente spostando e a me davvero urta quando il lettore viene messo di fronte a scenari troppo sfumati: preferisco fornire un buon background, particolareggiato, anche per ragioni di credibilità (insomma, nessuno di noi amerebbe Tolkien, Martin o la Zimmer Bradley se non fossero precisi nelle descrizioni di luoghi e personaggi. Non che voglia mettermi al loro sommo livello, per carità: ma un discepolo fedele prende sempre esempio). Una seconda ragione che giustifica tutta questa digressione è data dal fatto che il personaggio principale – Percival – proviene da questo ambiente; Blanche e le Sacerdotesse, che decideranno della sorte di Arthur, pure. Anche in questo caso vige la norma, mia personalissima, di non far balzar fuori ambienti o personaggi dalle pagine scritte come se venissero dal nulla. Come si vedrà più avanti, la Coppa è legata personalmente a tutti questi personaggi e sarebbe sciocco tralasciare la descrizione dell’ambiente in cui operano. Una terza ragione concerne la struttura della fabula: ogni dramma ha bisogno di un cattivone dichiarato. Qui ne abbiamo due: Hengest e Morgana, la strana coppia. Insomma, mica pensavate che la quête dei nostri eroi sarebbe stata facile? Insomma, fatemi sapere cosa ne pensate nel complesso! O almeno, ditemi se vi è suonato plausibile. Diventerò molto meno prolissa nel caso me lo chiediate.

Gli stemmi che Morgana ricorda nel cortile del castello, quelli di Pellinore e Aglovale, non sono naturalmente una mia invenzione. Nei codici miniati ogni cavaliere del ciclo è perfettamente riconoscibile, anche quando coperto dall’armatura, proprio in virtù di questi stemmi. Il motivo disseminato a croci è ovviamente un riferimento cristiano; in questa sede l’ho tuttavia omesso, mi farò venire un’idea quando tematizzerò – se lo farò – lo stemma di Perce, che a sua volta è disseminato di croci.

Quanto alla fugace apparizione di Aithusa, nei ricordi di Morgana, l’ho percepita come necessaria. Nel corso della storia tenterò di dare la mia spiegazione al suo salvataggio di Morgana. Perché se la mia prima reazione vedendo Aithusa gorgogliare tutto allegro a Morgana è stata “Wtf?”, la seconda è stata: “Potenziale narrativo!”. Smisurato, per altro. State sintonizzati.

Scusatemi inoltre se ho eliminato – forse in modo affrettato e inadeguato – tutta quella ridicola storia del “Voglio diventare la Regina di Camelot, subito!”. Anche lavorando fervidamente d’immaginazione, non riesco proprio a concepire come, a quell’epoca, una donna potesse avanzare pretese su un trono nel modo in cui gli autori della serie ci hanno presentato: nel caso di Morgana è ancora più difficile, perché non solo è una donna, ma per di più una figlia illegittima, senza basi giuridiche quindi per pretendere il trono di Camelot. Neanche a inventarle suonerebbero plausibili! Come ho già detto, la storia di Morgana schiumante di rabbia la posso accettare: però preferisco inquadrarla in una dimensione più umana (il problema ricorrente dell’accettazione della magia e del fatto che Morgana, in quanto essere magico, è emarginata socialmente) e meno politica. Spero di aver liquidato degnamente il nonsense dinastico degli autori di Merlin. Fatemi sapere che ne pensate!

Nel complesso il capitolo non mi soddisfa affatto, ma siete voi lettori a doverlo giudicare con la severità che merita: spero che la struttura narrativa vi risulti solida. Spero inoltre di aver aggiunto un po’ di polpa misteriosa alla vicenda della Coppa e dell’avvelenamento di Guinevere. Poi, siccome sono una fan sfegata delle voci misteriose, ci tengo a sottolinearne il gradito ritorno! Vi ricorda qualcosa?

So che la mancanza di Arthur, Merlin e Percival farà probabilmente scendere il rating di gradimento del capitolo e della storia. Ma il capitolo era davvero lungo e denso di funzioni narrative (introdurre Morgana, Hengest, addensare il plot) così com'era, non me la sono sentita di allungarlo ulteriormente. Se è una schifezza, vi prego, ditemelo gentilmente.

Come di consueto, mi scuso vivamente per qualsiasi errore troviate nel testo, e vi prego di segnalarmelo in maniera impietosa!

Credo che il prossimo aggiornamento non si farà attendere così a lungo. Per rassicurarvi, vi comunico che le linee guida dei capitoli VIII, IX e X sono già state stese e che gli elementi narrativi sono stati “incastrati” tra loro il meglio possibile; unica pecca è che, con il procedere della storia, sento sempre più l’assenza di brainstorming e l’aumento dell’ansia da errore, per cui tendo a rielaborare il tutto mille volte. Ma tutto sommato manca solo la stesura, il che mi fa ben sperare per un aggiornamento in tempi ragionevoli!

Il prossimo capitolo sarà dedicato totalmente a) all'azione (un po' di budella qua e là, finalmente!); b) all'interazione tra i nostri beniamini. A questo riguardo ringrazio tutti coloro che hanno commentato l’idea del quadrato amoroso, e annuncio che ormai è un pentagono.

Recensori (e lettori): vi adoro, vi amo, vi venero!

 

Da ultimo: care/i lettrici e lettori – esonerati le/i mie/i fedelissime/i che mi lasciano sempre le loro stupende recensioni – vi prego: so che ci siete, o almeno lo spero. Lasciatemi un commento, anche solo per comunicarmi cosa secondo voi non va nella storia, cosa apprezzate, gli aspetti che potrei migliorare, le vostre aspettative, i vostri commenti. Insomma un vostro aiuto “verbale” mi spronerebbe, più che a scrivere, a migliorare, perché diciamocelo: le persone che scrivono e pubblicano, nonostante spesso dicano di farlo per sé, in realtà lo fanno per condividere qualcosa di sé con gli altri. Mi piacerebbe avere un dialogo con tutte/i voi!

 

A presto!

Quainquie

  
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