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Autore: Nevannah_    10/08/2012    6 recensioni
«Mi spiace signora, ma sua figlia ha la leucemia.»
Il mondo mi cadde addosso all'improvviso. Io, una leucemia? No, non era possibile.
Genere: Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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GIORNO III
 

Mi alzai di scatto la mattina dopo, ma una mano sul petto mi fece tornare nella posizione di prima.
«Stai giù, Emily»
Era mia madre. Ma dov'ero? Non era la mia camera quella, volevo dire, la mia aveva le pareti arancioni, mentre lì l'unico colore esistente era il bianco. Poi la nebbia dalla mia mente si dissipò, e ricordai tutto. La sera prima persi molto sangue, e mia madre mi portò di corsa all'ospedale. Riuscirono a fermare l'emorragia ma vollero comunque tenermi in osservazione fino al mattino dopo. Se tutto fosse andato bene, un'ultima analisi e poi sarei potuta tornare a casa.
Visto che la pressione e i battiti del mio cuore rimasero nella norma per tutta la notte, mi portarono in una stanza del reparto di oncologia, per farmi un'analisi un po' più accurata di quelle che si fanno di solito. Volevano rifare la conta dei granulociti, linfociti e quelle cose lì per accertarsi un'ultima, definitiva volta che avessi la LAP, perché chissà, magari si erano sbagliati o avevano scambiato le analisi con quelle di un povero sventurato.
Dopo avermi tirato il sangue mi lasciarono in una sala d'attesa. Era piena di persone con bandane oppure completamente calve. La perdita dei capelli era il segno distintivo della chemioterapia, che oltre a farti diventare completamente calvo, sterminava tutti gli anticorpi che avevi nell'organismo, il che ti lasciava completamente a disposizione dei virus che veleggiavano liberi per l'ospedale.
Qualcuno venne a sedersi accanto a me. Era un ragazzo, molto carino e con ancora tutti i capelli. Forse eravamo gli unici in quella stanza ad averli.
Si girò verso di me, e mi ritrovò a fissarlo. Io sorrisi come un'ebete.
«Ciao.» Mi disse sorridendo.
Oddio, mi aveva rivolto la parola. Ero nel panico più totale. Mai nessun ragazzo che si avvicinasse anche lontanamente alla categoria “carini” mi aveva parlato prima d'ora.
«C-ciao.» Dissi io, un po' impacciata.
Cavolo, era davvero un gran figo. Aveva dei capelli castani, e occhi color nocciola. Alto, non molto magro, ma con dei muscoli che si intravedevano sotto la stoffa dei suoi abiti.
«Carina la tua maglietta.» Disse sorridendo, accennando allo strano disegno tutto colorato che c'era sulla mia t-shirt.
«Comunque, io sono Thomas, leucemia linfoblastica acuta.» Mi porse la mano.
«Emily, leucemia promielocitica acuta.» Risposi con un sorriso, mentre gliela stringevo. Era calda e morbida.
«Sei in remissione?» Mi chiese, buttando uno sguardo ai miei capelli.
«In realtà no, me l'hanno diagnosticata tre giorni fa.» Risposi io, abbassando lo sguardo. «Tu, invece?»
«Sì, da quasi due anni. Sto aspettando i risultati delle analisi di routine.»
«Oh, capito.»
Momento di silenzio assoluto.
Ho sempre odiato questi tipi di momenti, in cui non sai cosa dire e pensi che la prossima cosa che uscirà dalla tua bocca sarà una cosa banale e senza senso.
«Ti va di andare a fare due passi fuori?» Chiese all'improvviso, rompendo il silenzio che si era creato.
Mi girai verso mia madre, che fece un cenno d'assenso. Quindi mi rivolsi di nuovo a lui: «Okay, andiamo» e mi alzai dalla scomoda sedia in plastica.
Prendemmo l'ascensore, ma con mia grande sorpresa, il tasto che premette non fu quello del piano terra, ma il ventitreesimo, l'ultimo.
Lo guardai alzando un sopracciglio.
«Tetto.» Rispose lui, accennando un sorriso.
Il resto dei secondi trascorsi nell'ascensore passarono in silenzio, anche perché stavo cercando di capire il motivo del tetto. Voglio dire, con tanti posti, proprio il tetto? E se avesse voluto buttarsi? Oddio, sarei stata testimone di un suicidio.
Le porte in acciaio si aprirono, e il tetto si rivelò essere un ampio spazio con un piccolo giardino.
«Giardino pensile. Non è una trovata magnifica?»
Io continuai a guardarmi attorno stupita. Non mi sarei mai immaginata un giardino sul tetto. Di un ospedale, poi.
«Me l'ha detto Janis questo posto.»
Mi voltai verso di lui «...Janis?»
«È un'infermiera di oncologia. Mi portò qui la prima volta che dovetti fare la chemio. Ebbi una crisi di pianto e non riuscivo a fermarmi. Venire qui riuscì a calmarmi.» Rispose sorridendo.
Non la conoscevo questa Janis, ed era più che comprensibile, visto che avevo “scoperto” il reparto soli tre giorni prima.
Mi incamminai fra le varie piante, sfiorando ogni foglia e ogni petalo che le mie mani riuscivano a raggiungere.
«Questo deve essere nuovo.»
Mi girai, e vidi che stava fissando un piccolo alberello.
«Non c'era l'ultima volta che sono stato qui.» Disse facendo spallucce mentre rispondeva alla mia muta domanda.
Quindi continuai ad aggirarmi tra le varie piante, fino a quando raggiunsi il muro, e mi sporsi oltre. Le persone non erano altro che un puntino, mentre le auto sembravano formiche.
Sentii che Thomas avvicinarsi.
«Che vista da quassù, eh?» Disse mettendosi di fianco a me, mentre appoggiava i gomiti sul freddo cemento. «Si vede persino casa mia.» E mi indico una zona di Los Angeles alla mia destra, quella delle villette che fanno vedere sempre nei film, a due piani, giardino spazioso, strada tranquilla con scarso passaggio di auto, feste periodiche con tutto il vicinato e un albero verde e rigoglioso ogni dieci metri. «Tu invece, dove abiti?»
«Oh, dall'altro lato della città» e indicai qualcosa alle mie spalle.
Dopo qualche secondo di silenzio in cui io contemplai il panorama, mi chiese: «Quando cominci la chemio?»
Presi un bel respiro, prima di parlare: «Mai». Quindi, dopo alcuni instanti di pausa, continuai: «È in uno stato troppo avanzato per fare la chemio, non risolverei nulla. Perderei tempo e basta. E non voglio sprecare gli ultimi ventidue giorni che mi rimangono.»
Tutto quello che mi riuscì a dire fu un «Oh». Era sorpreso anche lui, a quanto pare. Non si aspettava questa risposta. Poi mi abbracciò, e questa volta fui io a rimanere sorpresa. Non mi aspettavo questo gesto. Lo avevo appena conosciuto, e l'unica cosa che sapevo di lui era il suo nome.
Ricambiai l'abbraccio, e mentre ero così, stretta a lui, cominciai a piangere all'improvviso, pensando a tutto ciò che non avevo ancora fatto e che avrei voluto fare.
Cominciò a cullarmi. Mi fidavo di Thomas, forse perchè sapeva quello che stavo passando, o solo perchè avevo disperatamente bisogno di qualcuno.
«Scusa.» Mi allontanai da lui, asciugandomi una lacrima che stava scendendo lungo la mia guancia.
«Va tutto bene, tranquilla.» Rispose, con un timido sorriso.
«È solo che... Avrei voluto fare tante cose.» Gli dissi, come per giustificarmi.
«Tipo cosa?»
«Come andare...»
Il mio cellulare cominciò a squillare.
«Scusa, è mia madre» e accettai la chiamata. «Cosa c'è?»
«Vieni qui, tocca a noi fra poco» Rispose una voce dall'altro lato.
«Va bene, due minuti e sono lì.» Riposi il telefono in tasca. «Devo andare, perdonami.»
Stavo già per raggiungere la porta, quando Thomas mi urlò da dietro: «EHI, ASPETTA!»
Mi girai, e aspettai che mi raggiungesse.
«Dammi il tuo numero» mi disse con un sorriso.
Avevo sentito bene? Aveva chiesto il mio numero? O ero in coma e quello era soltanto un sogno?
«Sì, certo» risposi dopo alcuni attimi, ancora sotto shock. «555-8723»
Lui lo memorizzò sul cellulare. «Okay, domani ti chiamo.»
Io sorrisi, e scesi di sotto, al quarto piano, dove c'era mia madre ad attendermi impaziente.
«Ma dov'eri finita?!»
Stavo già per rispondere, quando la porta dello studio si aprì e ne uscì una signora che sprizzava felicità da tutti i pori. Le avevano dato un'ottima notizia, probabilmente.
«Dai, sbrigati.» Disse prendendomi per un braccio.
Entrammo, e ci sedemmo sulle soffici poltrone di pelle.
Già dalla faccia del dottore si capiva che quella che doveva darci non era una bella notizia. Non bella quanto quella della donna precedente, almeno.
«Salve signora Johnson, ciao Emily.» Ci disse alzando lo sguardo dalle sue carte.
«Salve dottore. Allora, come sono andati gli esami? C'è qualche miglioramento?»
«No, mi dispiace. Quello che ho detto qualche giorno fa non è cambiato. E i valori sono un po' peggiorati, segno che la leucemia sta avanzando verso lo stadio finale».
«Che sarebbe?» Chiese mia madre, anche se avevo il sospetto che sapeva la risposta, ma non voleva ammetterlo a se stessa.
Il medico prese un ampio respiro prima di parlare: «La... morte
Sentii il sangue gelarmi nelle vene, ma cercai di restare forte, di non far trapelare nulla all'esterno, visto che mia madre aveva cominciato a singhiozzare. Le presi una mano, e la strinsi, come per darle coraggio, quel coraggio che non avevo nemmeno io.





Ed eccomi qui, dopo quasi un mese, ad aggiornare **
Ringrazio tutti quelli che hanno recensito, messo la storia tra le preferite/ricordate/seguite, e anche chi l'ha soltanto letta. Davvero, grazie mille.
Non so cos'altro dire, quindi boh, al prossimo aggiornamento c:
- Nevannah

   
 
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