LA BIRRA LA
DANNO A 1,99
Il
supermercato Ennegì è situato nella zona
periferica, accanto alla tangenziale che circonda la città e
conduce all’ospedale, alla stazione dei carabinieri o ai
quartieri residenziali, a seconda di cosa si preferisce. Angelo va
sempre a far la spesa lì quando può
permetterselo, perché è il supermercato che ha la
roba buona e continua ad essere rifornito, a differenza
dell’altra catena che, ormai in fallimento, non conta
più nemmeno una decina di macchine alla volta nel
parcheggio. Angelo è fuggito a bordo della sua utilitaria
per farsi un giro, tenendo in tasca i venti euro a disposizione; a dire
la verità, una piccola parte di sé ha deciso di
optare per quella meta anche per passare una mezz’ora scarsa
in un locale con aria condizionata. Il tempo fuori è brutto:
ci sono le solite nuvole scure a circondare i palazzi e
l’aria si fa sempre più pesante e afosa ogni
secondo che passa. I cambiamenti metereologici lo hanno sempre
scombussolato, non è la prima volta che sente venirgli
addosso una sensazione di soffocamento che lo ha costretto a
scaraventarsi fuori di casa, lasciando sua madre addormentata davanti
alla televisione. Angelo
sceglie un parcheggio che sia vicino all’entrata, spegne il
motore e va alla ricerca della banconota che ha in tasca. La tasta, se
la fa scorrere fra le dita, poi la estrae e la guarda meglio. Pensa che
non è stato un vero e proprio furto, è stato come
investire quei soldi in delle medicine: aveva un disperato bisogno di
mettere il naso fuori di casa e la vista di quei venti euro sul
cassettone della stanza da letto lo ha tentato in maniera
irresistibile. Sua madre non se ne accorgerebbe comunque: Angelo si
stupisce che a novant’anni suonati riesca ancora a ricordarsi
di cose come la necessità di indossare la canottiera
– «perché se no sudi e ti prendi un
malanno» – oppure il tempo di cottura delle
melanzane. Per un
momento solo si sente una persona orribile, poi il suo sguardo incrocia
il riflesso dello specchietto retrovisore e si rende conto di essere
orribile sul serio: gli sono rimasti pochi capelli e l’aria
malaticcia non pare volerlo abbandonare, senza contare il colorito
giallognolo e i peli grigi che spuntano da sotto la camicia. Angelo
pensa che in queste condizioni non ci si può preoccupare di
essere moralmente retti, è già tanto se si riesce
a sopravvivere. Infine varca
la soglia delle porte automatiche e si bea della frescura artificiale;
comincia a redigere nella sua mente la lista delle cose di cui ci
sarebbe bisogno a casa. Tanto per cominciare qualcosa da mangiare che
non sia inscatolato o surgelato, qualcosa di fresco e profumato come
duecento grammi di prosciutto cotto, poi un litro di latte con cui
campare almeno per qualche mattina; se si prende il latte,
però, tocca comprare anche i biscotti, perché ad
Angelo non è mai piaciuto berlo senza aggiungere niente.
Quanti soldi sono rimasti per il pancarrè e la crescenza da
spalmarci sopra? Angelo si
ferma davanti al banco dei salumi e dei formaggi. Osserva le forme di
prosciutto e di mortadella che vengono affettate, le mozzarelle
imbustate che le commesse porgono ai clienti. «Come
posso servirla, signore?» gli domanda una di loro. «No,
grazie, non prendo nulla… ho cambiato idea.» «Come
preferisce.» Si allontana
subito da quella zona, pensando che non può spendere tutti i
suoi soldi in affettati e latticini che, per quanto siano buoni, non
resistono bene all’usura del tempo e vanno consumati in
fretta, così da vanificare immediatamente il possesso di
quella banconota. Gli viene in
mente che ci sarebbe da comprare il nuovo pacco di pannoloni per sua
madre, ma quell’attimo passa subito ed ha un potente sussulto
di orgoglio; no, è uscito di casa per rivitalizzarsi, non
per mettersi a fare il galoppino – quello l’ha
già fatto troppo a lungo. Nei momenti peggiori, quando il
tempo fuori è più nero della pece e la
frustrazione si fa più acuta, lo attraversano pensieri
cattivi di cui in seguito non può che pentirsi:
indubbiamente sua madre è una palla al piede e Angelo
ritiene che, data l’esiguità delle sue funzioni
vitali, non farebbe danno ad alcuno se piombasse improvvisamente
sottoterra, ma in fondo le vuole bene, sente un piacevole moto di
gratificazione quando la imbocca e riceve una smorfia sdentata; a
pensarci bene si sarebbe potuto adoperare per trovare una dentiera
economica, implorare qualche medico di abbassare i prezzi, ma la sua
premura non è in grado di spingersi più lontano
di così. Sta
considerando l’acquisto di una bottiglia di sciroppo quando
sente il cellulare squillare; è quasi inorridito quando si
accorge che è la madre che lo sta chiamando e subito pensa
che si sia accorta della sparizione dei soldi. «Mamma?» Non sente
alcuna voce provenire dall’altro capo. A quel punto il suo
timore si incanala in una direzione più sinistra. «Mamma?»
riprova, più forte. «Mamma, rispondi?» La chiamata
prosegue e Angelo si domanda se è possibile che la vecchia
debba schiattare proprio in quel momento, proprio quando lui
è riuscito a concedersi un po’ di tempo per
distrarsi. «Mamma?» Fortunatamente,
tenendo l’orecchio incollato al telefonino, capta un rumore
brusco che interrompe l’inquietante silenzio. Allora si
distende e maledice quel telefonino tenuto nella tasca della veste:
dev’essere scivolato sulla poltrona e sua madre deve aver
inavvertitamente fatto partire la chiamata, schiacciandolo con una
natica. Lo ripone,
non del tutto rassicurato; ha comprato a sua madre un cellulare da
quattro soldi in cui ha memorizzato solo il suo numero e le ha spiegato
che basta premere il pulsante verde per far partire la chiamata, quello
rosso per spegnere l’aggeggio. L’intento
è di fare in modo che per ogni minimo problema Angelo possa
essere reperibile, ma finora non è servito
granché e non sa se gioirne o rammaricarsi. Dopo aver
vagato un altro po’ fra gli scaffali con in tasca il
biglietto da venti e la sensazione di onnipotenza che, a discapito di
esigenze più pressanti, gli ha fatto immaginare di poter
comprare qualsiasi cosa, anche la più inutile e sciocca,
Angelo afferra una scatoletta di tonno sott’olio, un pacco di
bastoncini di pesce e muove i piedi in direzione del reparto bibite. Fa
per andare a scegliere la cassa di acqua minerale più
economica quando si accorge dello scaffale su cui sono poggiate le
birre. Tante
confezioni da tre, di tutte le possibili marche, bottiglie di vetro dal
collo allungato con colorazioni che vanno dal verde scuro al marrone.
Angelo s’incanta. Sente di avere sete, la gola gli prude e
decide che un bel sorso di birra fresca è proprio quello che
ci vuole. Lascia perdere l’acqua e comincia ad accarezzare
con lo sguardo lo scaffale. È
quello lo scatto volitivo che cercava, quella birra la ragione per cui
ha rubato venti euro a sua madre. Mentre allunga la mano per afferrare
il tris più vicino, gli viene in mente che ha già
messo da parte un po’ di cose e forse non riuscirà
a coprirne la spesa; guarda il carrello: pane, surgelati, pasta, il
latte, i biscotti secchi, senza contare la cassa di acqua che
è costretto ad includere. Le birre non rientrano nel budget
a sua disposizione. Angelo
vorrebbe tirare un calcio a qualcosa, qualcosa di fragile, e ascoltarne
l’infrangersi senza curarsene. Quando sta per rassegnarsi,
nota una confezione a cui mancano due pezzi. Una birra solitaria pare
aspettare proprio lui. La targhetta
posta sotto segna uno e novantanove, ma ad Angelo viene in mente che se
altri prima di lui hanno trafugato le due birre nessuno avrà
da ridire se anche l’ultima rimasta viene tolta di mezzo,
così da riportare tutto in parità. Non dovrebbe
essere troppo difficile: basta infilarsela da qualche parte, nei
pantaloni, fra il petto e la camicia, nasconderla tra le buste
all’ultimo momento. Non ha il
tempo di agire, perché riceve una botta allo stomaco
provocata da qualcosa che gli ha spinto contro il carrello. Si tratta
di una ragazza che, distratta, non ha saputo evitare lo scontro. «Mi
scusi! Ero con la testa per aria e non guardavo… si
è fatto male?» «No,
no, non si preoccupi, non è niente.» Angelo si
risistema in fretta, poi afferra il carrello e lo spinge verso le casse
d’acqua; ne sceglie una e poi si allontana il più
possibile dal reparto, va di corsa verso l’uscita. Che idea
stupida, si dice: non è stato capace di rubare i soldi alla
madre rimbambita per poi usarli in maniera scellerata ed ora voleva
fregare una birra? Se avesse
avuto tutta questa risolutezza, pensa, non si troverebbe a
cinquant’anni passati a vivere, disoccupato, con la madre;
dà un’ultima occhiata alla ragazza che
l’ha urtato, ma evita di domandarsi per l’ennesima
volta perché non abbia una fidanzata. Dopo qualche passo gli
viene da ridere ed è costretto a trattenersi;
l’idea di poter veramente rubare qualcosa suona strana
perfino a se stesso. Alba si
risistema gli occhiali sul naso e guarda andar via quel signore dalla
camminata malferma; pensa anche di domandargli se per caso non si senta
male, poi lo lascia andare, rimproverandosi ancora per la sua
sbadataggine. Non le capita spesso di essere tanto goffa, ma oggi
è costretta a convivere con l’agitazione in cui
l’hanno gettata le parole di Noemi. «Io
preparo qualcosa di buono per cena, tu vai a scegliere il gelato, che
ne dici?» le ha detto, accarezzandole la guancia con una mano. Alba non ha
potuto nulla contro quei penetranti occhi scuri e l’emozione
che le provoca ogni volta la vicinanza della ragazza, così
è subito partita alla ricerca, salvo poi passare il tragitto
ad interrogarsi sullo scopo per cui Noemi pretende il gelato. Alba ha
pensato subito che volesse concludere la cena con un dessert
rinfrescante, ma poi quell’aria maliziosa e quella frase
soffiata a pochi millimetri dalle sue labbra, capace di farle rizzare
anche la rada peluria sul viso, l’hanno indotta a considerare
la possibilità che Noemi abbia in mente usi a lei
sconosciuti del dolce. Per non apparire una stupida ha finto di
cogliere l’allusione, ma è giunta al frigorifero
ed ancora tenta di cogliere il nesso fra una coppetta di gelato
– freddo, appiccicoso, calorico – e quella faccia
furba che è tutto un programma. Non sa che
cosa scegliere, ma a casa sua c’è una bellissima
ragazza che le sta preparando la cena, ha preteso un gelato e lei non
ha alcuna intenzione di lasciarsela scappare. Che razza di figura
sarebbe se si presentasse a mani vuote, pensa, eppure non le pare il
caso di scegliere la prima confezione che capita. Si tratta di
stabilire che cosa Noemi cerchi in quel gelato. Che cosa significa, a
che cosa serve? Tanto per
cominciare, Alba mette la mano nel congelatore e ne estrae uno.
Cioccolato, il più semplice che c’è e
per questo subito scartato; anche se a lei piace molto, non crede che
il cioccolato sia proprio quello che Noemi ha in mente, altrimenti
avrebbe potuto commissionarle una tavoletta, una merendina. Alba ci
tiene a fare bella figura e non vuol mostrarsi sprovveduta, ma deve
ammettere che quella storia del gelato l’ha mandata un
po’ in confusione. Rivede ancora la faccia di Noemi al
momento di lasciarla andare, uno sguardo intenso che lascia intravedere
la possibilità di un dessert ben più succulento. «Che
razza di idea, il gelato» borbotta fra sé,
aggirandosi ancora attorno al frigo. Precisamente
non sa come accade, ma a un tratto la sua testa comincia a lavorare, le
immagini si intersecano e si confondono, finché non giunge a
immaginare che quel gelato, forse, non dev’essere introdotto
in un bicchiere e poi mandato giù per la gola,
dev’essere spalmato da qualche altra parte. Diventa tutta
rossa e per fortuna non può vederla nessuno mentre fa dei
passi più nervosi e comincia ad esaminare i barattoli con
più attenzione. Alba si
darebbe della stupida per non averci pensato, ma si autogiustifica
asserendo che quelle cose si fanno con la crema al cioccolato, con lo
champagne, non con il gelato. Tuttavia, se Noemi ha dei gusti
così particolari, non può che accontentarla. Le
si affacciano alla mente numerosi dubbi tecnici: sarà troppo
freddo a contatto con la pelle? Bisognerà lasciarlo fuori
dal freezer per un po’. E se invece di una scenetta romantica
il tutto finisse in una gran risata? E se si imbrattano le lenzuola? Il
materasso sarà appiccicoso per tutta la settimana. Abbandona
presto quei pensieri per concentrarsi su qualcosa di più
pratico e immediato: la scelta del gusto. Scarta il pistacchio
perché il verde le pare davvero troppo strano a vedersi
sulla pelle e la stessa sorte è riservata al melone; indugia
per più di qualche secondo sulla nocciola, rifiuta
decisamente la stracciatella o il fiordilatte, onde evitare
associazioni poco appropriate, infine si ritrova con due finalisti fra
le mani: la fragola e il tiramisù. Opta per il
secondo, invogliata soprattutto dai pezzi di savoiardi che vede
adagiati sul fondo e dal prezzo più economico. Contenta di
aver adempiuto al suo dovere, fa per tornare sui suoi passi e dirigersi
verso la cassa. Mentre fa la fila le capita di posare gli occhi su una
scatola di preservativi, una di quelle che promettono un piacere
prolungato in virtù di non si sa bene quale frutto o
proprietà chimica. La testa di Alba comincia a lavorare di
nuovo. Si domanda
se per caso quella sera le sue sinapsi non abbiano qualche problema;
fra meno di un’ora sarà nel suo appartamento
insieme a Noemi e, a giudicare dal preludio, l’aspetta una
serata decisamente movimentata. Faranno l’amore sdraiate sul
suo letto – o sul divano, questo ha poca importanza
– e useranno quel gelato che tiene in mano, quella roba per
metà gialla e metà marrone che non
s’aspetta minimamente di finire spappolata su un paio di
tette o in qualche altro posto, meno convenzionale rispetto allo
stomaco. Faranno l’amore quella sera e Alba
s’immagina la faccia che farà Noemi al momento di
lasciare da parte la tovaglia e le posate; faranno l’amore e
se c’è una cosa che la terrorizza è il
pensiero di non essere all’altezza. Non che Alba sia
un’innocente ragazzina, ma quella faccenda del gelato
l’ha agitata non poco. D’improvviso
cambia idea, abbandona il suo posto nella fila per la cassa e fa rapidi
passi verso il reparto in cui sono esposti i prodotti per la cura
dell’igiene personale. Non ricorda di preciso
quand’è stata l’ultima volta in cui ha
fatto la ceretta, né tantomeno se il suo corpo è
in condizioni tanto trascurate da obbligarla a depilarsi. Non
può comprare la crema, perché teme che il cattivo
odore si diffonda per la casa, non la incoraggiano i rasoi
perché ha paura che la pelle rimanga ruvida al tatto, dunque
non le resta che scegliere una nuova confezione di strisce. Alba si
domanda perché dev’esserci così tanta
differenza di prezzo fra quelle che sono imbevute di aloe e quelle che
invece sono più semplici; sta per preferire quelle
più efficaci, in barba al risparmio, poi osservando gli
altri prodotti esposti le sorge un nuovo dubbio: è il caso
di comprare un profumo? Di solito
non è mai così nervosa, però Noemi le
piace proprio tanto: ci tiene a far bella figura e a non rovinare
tutto. Vada per il profumo, si dice, non si sa mai che effetto potrebbe
avere la fragranza giusta sugli ormoni di due ragazze giovani e
attratte l’una dall’altra. Il buonsenso
le suggerisce di non fidarsi dei prodotti dozzinali in vendita al
supermercato, però lo sguardo le cade sulla fila dei
deodoranti e pensa che lì un’occhiata
può anche darla. Ce ne sono dei più semplici,
dall’odore neutro, altri impreziositi da aromi particolari
che costano un po’ di più. Alba li stappa, li
annusa, li rimette a posto e sta quasi per decidersi al riguardo di uno
che profuma di lavanda quando nota una fila di prodotti dalla forma
dubbia. Con la curiosità irresistibile e vergognosa di chi
ha pensieri impudichi in luoghi pubblici ne prende uno fra le mani:
è piccolo, dalla forma allungata ma non spigolosa. Pensa a
Noemi, al suo tono di voce invitante, al gelato, a una camera buia ed
un letto; pensa che forse alla ragazza, oltre al gelato, potrebbe far
comodo usare qualche altra cosa che possa alleviare le fitte al
bassoventre, senza contare che già al solo pensiero si sente
un po’ accaldata, figurarsi più tardi, quando
saranno faccia a faccia nel suo appartamento. Afferra il deodorante e
va verso la cassa. Per quanto non ce ne sia assolutamente bisogno, Alba
dispone accuratamente il gelato sul nastro trasportatore e il
deodorante subito accanto, quasi a nasconderlo dall’occhiata
della cliente prima di lei. Si vergogna come una ladra e, come spesso
accade, ha l’impressione che tutti quanti, anche la cassiera,
stiano commentando l’acquisto di quel coso che assomiglia
decisamente più a un giocattolo erotico che a un prodotto
per l’igiene personale. «Prende
anche questo?» le domanda la cassiera, afferrando il
famigerato deodorante. «Eh?
Sì, sì, anche quello!» Alba
arrossisce di botto, presentendo la figuraccia. «Sa,
un deodorante…» le scappa di bocca la
precisazione, prima ancora che riesca ad arginarla. «Era il
più economico.» La cassiera
non dà segni d’interesse, più
preoccupata di batterle lo scontrino. «Ha
la carta?» «Che
carta?» Presa
com’è dalla vergogna e dal pensiero che Noemi
dovrà darle una ricompensa adeguata per tutta quella
faccenda, rimane per un secondo interdetta. «La
tessera del supermercato, così le faccio lo
sconto» le risponde la cassiera sillabando lentamente le
parole. «Ah!
No, no, non ce l’ho.» «Perfetto.
Sono sei e settantaquattro.» La cassiera
dà un’occhiata rapida in direzione
dell’uscita e, mentre Alba traffica con la borsa, cercando il
portafoglio e gli spiccioli e sperando che salti fuori una dannata
banconota da dieci, fa un verso annoiato. «Mi
scusi, davvero, non riesco a trovarlo» si giustifica Alba. «No,
si figuri! Non è per lei, no.» «Ecco,
a lei.» Getta sul
ripiano una manciata di monete, precipitandosi a nascondere la spesa
compromettente nella busta. Quando ha raccolto anche lo scontrino fa
per andarsene, ma viene richiamata indietro dalla signorina alla cassa. «Mi
ha dato spiccioli in più!» «Scusi,
mi scusi, sono proprio sbadata. Arrivederci.» Alba esce
dal supermercato a passo di marcia, pensando che Noemi dovrà
elargirle una bella e sostanziosa ricompensa, sì. Alle porte
automatiche incrocia un ragazzino dalla pelle colorita e
l’aria furba, proprio uno di quelli abbastanza sfacciati da
metterti in imbarazzo con quattro parole, ma per fortuna non sembra
avercela con lei. Cortesemente la lascia passare per prima, poi
s’intrufola nel supermercato attraverso la porta adibita
all’uscita. Il ragazzo
si avvicina alle casse, trascinandosi su un carrello vuoto,
l’aria annoiata e assente; ad un tratto si ferma in
corrispondenza di una postazione e scopre i denti in un ghigno. «Luciana?»
chiama. Non ottiene
nessuna risposta, se non l’attenzione della cliente anziana
che sta in quel momento pagando il conto. «Luciana?» Il ragazzo
tiene gli occhi fissi sulla signorina alla cassa, una specie di sfida
personale che sembra aver preso con molta serietà. Incurante
delle occhiate stupite che attira, persevera nel suo richiamo. «Luciana?» «Vattene
via» gli sibila sottovoce la ragazza alla cassa. Lui finge di
non aver nemmeno ascoltato e si fa più vicino. «Luciana?» Quando vede
la ragazza scusarsi con la signora e spiegarle che è un
poveretto in cerca di attenzione allarga il suo ghigno e si sente
ancora più motivato. «Luciana?» Finalmente
la signorina alla cassa si volta verso di lui con un’occhiata
che sa di rimprovero e disprezzo insieme; lo trapassa da parte a parte
e non c’è bisogno di parole per capire che
l’ha freddato. Tuttavia il ragazzo non è tipo da
darsi per vinto e poi, pensa fra sé, una volta lì
può anche permettersi di perdere un po’ di tempo a
divertirsi, non fa differenza. «Luciana?»
prova ancora. «Luana.
Mi chiamo Luana. Che vuoi?» Il ragazzo
fischia sommessamente. Si nota che è compiaciuto per la sua
risposta, pur se sgarbata. «Luana»
ripete. Luana rotea
gli occhi e volta la sedia in direzione del prossimo cliente,
chiedendosi per quale motivo debbano capitare tutte a lei. Non le basta
il terrore giornaliero dato dalla possibilità di essere
licenziata, non sono sufficienti le quattro fermate d’autobus
che deve sorbirsi per tornare a casa, le tocca anche sopportare
quell’irritante ragazzino. Si domanda perché mai
si sia intenerita il primo giorno che l’ha visto seduto fuori
dal supermercato ad elemosinare, perché gli abbia regalato
tutti gli spiccioli che aveva in tasca. Sa benissimo che quelli come
lui, non appena fiutano una possibile anima pietosa, le si accollano
come api al miele ed è difficile vederli desistere a meno di
non dar loro ciò che vogliono. Il punto, in effetti,
è proprio questo. Da quando il
ragazzino ha cominciato ad aggirarsi attorno alla sua cassa Luana
è sempre più nervosa e non vede l’ora
che arrivi l’orario di chiusura. Ha provato più
volte a fargli capire che deve sloggiare, lo ha preso a male parole,
gli ha ficcato in mano il resto appena ottenuto, eppure lui
è ancora lì e non sembra avere
l’intenzione di andarsene. Anzi, col tempo pare farsi
più audace. I primi
giorni si limitava a fissarla da lontano senza sorridere, ancora
timido; poi ha preso coraggio e si è fatto avanti, cercando
di captare il suo nome in mezzo alle conversazioni fra colleghe; ora se
ne sta lì in attesa di qualcosa, con la faccia di chi sa
già di aver vinto prima ancora di buttarsi nella mischia.
Non ha nulla del ragazzino impaurito che aveva fatto compassione a
Luana il primo giorno. Approfittando
della mancanza di un cliente successivo, Luana si sporge verso di lui. «Allora,
che cosa vuoi? Dei soldi? Se vuoi dei soldi è inutile che te
ne stai qui in giro, non posso darteli davanti a tutti. Se vuoi dei
soldi» abbassa la voce, temendo di essere udita,
«devi aspettare che finisco il turno. Aspettami fuori e ti do
quello che posso, eh?» Il ragazzo
non risponde, ma la guarda dritta negli occhi. «Va
bene, facciamo così?» riprova lei. Lui sembra
piuttosto concentrato, probabilmente in cerca di una battuta per fare
colpo. Alla fine se ne esce con un: «Di
che colore hai le mutandine?» Luana sgrana
gli occhi e arrossisce, più per la paura che qualcuno abbia
colto la loro conversazione che per imbarazzo. «Ma
per chi mi hai preso? Ma che domande fai?» «Non
ti arrabbiare! Scherzavo, era per dire…» «Sparisci.
Ora.» Ha da
servire un’altra cliente e prima di rivolgersi alla signora
gli scocca uno sguardo che significa: niente scherzi, mi raccomando. Il
ragazzo resta lì, attento. Luana spera che non abbia ancora
voglia di prendersela con lei; vede già che più
persone lo guardano con curiosità e qualcuno pare
impensierirsi al riguardo di quel giovanotto così
inequivocabilmente proteso nella sua direzione. Ci manca solo che
qualcuno creda che stia tentando di rapinarla e cominci a dargli
addosso, Luana si vede già presa da parte e spedita a casa
col benservito. «Guarda
che scherzavo, prima» le dice il ragazzo. Ha la faccia
improvvisamente seria, sente il bisogno di ribadire il concetto. Luana
pensa che potrebbe anche intenerirsi se solo la situazione non fosse
già abbastanza delicata. Vede con la coda
dell’occhio il signore che sta servendo lanciare una brutta
occhiata nella sua direzione e le sembra proprio che stia per dire
qualcosa. «Sono
trentanove e sessantacinque» gli comunica, per distrarlo. L’uomo
apre il portafoglio ed estrae una carta di credito, ma non smette di
tenere lo sguardo fisso sul ragazzo che, accortosi di lui, ricambia con
altrettanta insolenza. «Bancomat
o carta?» «Bancomat.» Luana
ringrazia che sia giunto il momento di inserire il codice PIN e ne
approfitta per dare un’altra occhiata eloquente al ragazzino,
intimandogli senza tanti complimenti di smammare. Lui fa una specie di
sbuffo seccato, poi si allontana dalla cassa e va verso le porte
automatiche, trascinandosi sul carrello. Una volta uscito Luana si
permette un sospiro di sollievo e il cliente che sta servendo,
notandolo, alza entrambe le sopracciglia. «Le
stava dando fastidio?» domanda, piuttosto brusco. È
chiaro però che la sua non è tanto cortesia nei
confronti di lei quanto diffidenza non troppo celata nei confronti del
ragazzo. Luana nega col capo. «Si
figuri, è solo un ragazzino. Ne vedo tanti altri, magari
ubriachi, qua fuori…» «Questi
zingarelli però sono furbi. Basta un niente, un attimo di
distrazione, che ti scippano il portafoglio e i documenti. A mio
cognato è successa una brutta storia con un gruppo di
questi.» Luana fa
spallucce e non si mostra interessata a proseguire il discorso,
preferendo consegnare al signore le buste in cui infilare la sua spesa.
Pensa che non le importa tanto il problema dell’integrazione
della comunità rom nella città, spesso fonte di
accesi dibattiti riguardo le condizioni in cui se ne stanno
lì al campo, gli pneumatici che puntualmente bruciano,
l’elemosina che richiedono sui sagrati delle chiese o fuori
dai supermercati; temeva soltanto che potesse scattare qualche diverbio
fra il signore e il ragazzo proprio lì, di fronte a lei
– perché anche se Luana gli dà
più o meno quattordici anni, si vede che ha la faccia di uno
spavaldo, che non ha molte remore a rispondere agli adulti –
ed è felice che invece abbia ascoltato il suo consiglio e se
ne sia andato via. Un po’ le dispiace di averlo cacciato in
quel modo, perché fintantoché si limita a star
lì e guardarla non combina nulla di male. Si sporge in
avanti per dare un’occhiata oltre le porte
dell’uscita e lo vede, seduto sulla bassa recinzione, che
alza lo sguardo ogni volta che passa qualcuno. Tranne che
per quel potenziale incidente il turno di lavoro fila liscio come al
solito e i clienti sono meno del solito; ogni tanto
dà un’occhiata all’uscita, ma non vede
più il giovane zingaro aggirarsi nei dintorni. Con un
sorriso divertito pensa che il rimprovero deve aver sortito il suo
effetto, se non si è nemmeno più azzardato a
rimettere piede nella struttura. Quando
è ora di chiusura Luana ringrazia che sia andato tutto bene,
senza sapere nemmeno di preciso a chi rivolgersi; sa che non ha la
certezza del posto di lavoro, ma finché le cose nella catena
di cui il supermercato fa parte vanno bene, la merce è
richiesta e si viene riforniti, non dovrebbero esserci grossi problemi. Ha da
prendere il pullman un centinaio di metri più avanti, ma
siccome la fermata è deserta e aspettare lì da
sola le mette sempre addosso un po’ di paura, decide che
può permettersi una deviazione. Fa il giro
dell’edificio e poi lo trova, sbirciando fra i parcheggi.
È seduto su un muretto basso fra un’auto di colore
verde e una bicicletta, che Luana presume appartenergli. «Che
fai qui?» gli domanda. Il ragazzo
la vede e subito salta in piedi, come scottato. Incespica un
po’ per tenersi dritto e si tira su i pantaloni,
l’aria stranita. Dopo il momento di sorpresa si riassesta. «A
quanto vai?» domanda. «Che
cretino» commenta Luana, senza scomporsi, «ti credi
chissà chi, vero? Almeno sai di che cosa stai
parlando?» «Sì
che lo so. So le strade dove vanno le puttane» il ghigno
scompare, sostituito dalla necessità di apparire credibile.
«Ci sono anche stato.» «Sì,
come no. Magari con quella» lei accenna col capo alla
bicicletta stesa per terra. Il ragazzo
sembra rimanere interdetto. Luana lo vede spostare lo sguardo sulla
bici, poi portarlo sulle proprie scarpe e poi sulle sue. «Guarda
che scherzavo, prima. Ti sei offesa?» A Luana
viene quasi da sorridere e ora sì che le dispiace di averlo
mandato via. «Ma
no, figurati. Per così poco? C’è chi mi
chiede di toglierle, almeno tu ti sei limitato a domandare il
colore.» «Chi
ti chiede ti toglierle?» «Certi
cretini. Gente così.» «E
tu che gli dici?» Stavolta il
sorriso le sfugge prima ancora che possa provare a trattenerlo. «Queste
sono cose che non ti riguardano.» Nonostante
gli stia sorridendo bonaria nota che c’è rimasto
un po’ male, così dirotta il discorso su altri
argomenti. «Mi
dispiace se oggi ti ho mandato via. È solo che non puoi
metterti lì tutto il tempo, capisci? Per me non ci sarebbe
nessun problema, però…» «Sì,
sì. Ho capito» taglia corto lui e pare aver
compreso sul serio. «Se
vuoi che a fine giornata ti lascio qualcosa basta che mi aspetti. Non
c’è nemmeno bisogno che stai tutto il pomeriggio
là fuori, vieni all’orario di chiusura e vedo se
posso darti qualcosa.» «Ci
devo stare per forza, tanto.» Il sorriso
di Luana si intristisce e questo basta per farle mettere la mano nella
borsa; dopo aver frugato un po’ tira fuori delle monete,
alcune più scure, altre più grandi. Le raccoglie
e fa per mettergliele in mano. «Ecco,
tieni.» «No
no, non le voglio» si ritrae lui, mettendo decisamente le
mani dietro la schiena. «Perché
no?» «No,
non le voglio» ripete. Luana nota
che sta fissando la sua mano piena di soldi con aria strana e non
sembra del tutto indifferente alla presenza di quelle monete; al
contempo, però, rimane dov’è e rifiuta
di prenderle. Allora gli prende un polso e gliele mette in mano di
forza. «Prendi
e basta, prima che cambi idea.» Il ragazzo
non si oppone. Guarda prima lei e poi le monete. «Ti
ci compro qualcosa» dice poi, risoluto. A quel punto
Luana ride di gusto, cominciando ad allontanarsi. «Ah
sì, ci credo proprio!» Mentre pensa
che probabilmente quei soldi finiranno nel registratore di cassa di una
paninoteca si vede affiancata da una bici. «Sei
a piedi? Vuoi che ti accompagno?» domanda. Stavolta il
suo sorriso non è un ghigno e non c’è
la minima traccia di arroganza o malizia nella sua voce: è
splendidamente spontaneo, proprio come dovrebbe essere un ragazzo della
sua età, pensa Luana. Per un momento è tentata di
rispondere affermativamente, poi si ricorda che non si sa mai,
è del tutto indifesa e di notte, in una strada poco battuta,
potrebbero venirgli delle idee strane. «No,
mi vengono a prendere.» Se il
rifiuto lo ha rattristato, non lo dà a vedere. La saluta in
modo spiccio e prende la direzione opposta, allontanandosi fino a
scomparire nel buio. Qualche
metro più avanti riconosce un amico che si è
seduto su un marciapiede; quando è abbastanza vicino da
poterlo guardare in volto, nota che ha accanto a sé una pila
di giornali tenuti insieme da un elastico. «Che
cos’è?» «Fumetti»
risponde il ragazzo, «me li ha dati uno. Dice che doveva per
forza venderli.» «Chi
era?» «Che
ne so, uno. Uno con la camicia, vecchio. Non so che ci faceva qui
intorno, non l’ho mai visto. Ha detto che per questi ne
voleva venti e che voleva essere pagato per forza con una
banconota.» «E
tu gliel’hai data?» «Sì.
Tanto le banconote che ci capitano fra le mani le credono sempre false.
Per fortuna avevo un po’ di soldi, me li sono fatti cambiare
e li ho presi.» «E
che te ne fai?» «Li
rivendo sabato al mercato.» Il ragazzo
scende dalla bici e la posa per terra, sedendosi accanto
all’amico. Questo nota che, nel muoversi, le tasche dei suoi
pantaloni hanno tintinnato. «Ma
hai dei soldi?» Subito fa
per estrarli, ma il ragazzo si difende e lo spinge via. «Sono
miei, mi servono.» «Quanti
sono?» «Non
lo so.» «Vediamo
quanti sono, dai.» «Ho
detto di no, sono miei!» L’amico
si ritrae, stupito da tanto animo. Si stringe nelle spalle e torna a
guardare dritto davanti a sé. «Va
bene, tieniteli, chi cazzo te li tocca.» Rimangono in
silenzio, attendendo che sia l’ora giusta per tornare a casa.
Il ragazzo infila una mano nella tasca per cercare le monete che gli ha
dato Luana, cercando di non fare rumore. Riesce a stento a trattenere
un sorriso e si piega dall’altra parte per far sì
che l’amico non lo veda. Questi, invece, ha preso ad
esaminare i volumi che sono stati pressati l’uno
sull’altro; cerca di contarli, di capire quanto possono
valere. D’improvviso
risuona una risata femminile che li fa trasalire, nel silenzio della
strada. Si guardano intorno per capire da dove provenga, poi
l’individuano come appartenente alla ragazza che è
appena uscita sul balcone. I ragazzi si
danno di gomito per avvertirsi a vicenda e puntano gli occhi al primo
piano del palazzo; una ragazza sta ridendo senza alcun ritegno e ce
n’è un’altra che le spunta alle spalle,
l’aria contrariata. La prima ragazza si lascia andare su una
sedia di plastica e tenta di calmarsi, accendendo una sigaretta.
L’altra le si siede di fronte, ma non sembra allegra quanto
lei. «Non
ci posso credere. Non ci posso credere» ripete la prima,
scuotendo la testa. «Io
non ci trovo niente da ridere» precisa l’altra,
«ci ho messo tutto l’impegno del mondo,
io.» «Ho
notato, cara.» La ragazza
scoppia in una nuova risata che fa trasalire ancora i due ragazzini in
ascolto; si scambiano un’occhiata complice: credono che sia
un po’ brilla. L’altra ragazza incrocia le braccia
e si sporge sul davanzale. «Io
non ci trovo ancora niente da ridere.» «Oh
Alba, ti sei offesa?» domanda l’altra.
«Non sto ridendo di te, mi fa ridere la situazione. Tu te ne
torni a casa con quel… » ride un’altra
volta ancora, «con quel coso.» «Credevo
di fare bene.» «Tutta
seria, tu…» «Smettila
di ridere!» Alba
dà un’occhiata giù in strada e incrocia
lo sguardo dei due ragazzi che stanno ad origliare, col naso per aria.
Subito si ritrae e fa per tornare in casa. Noemi le afferra un polso. «Alba?»
la chiama. «Torno
dentro a ripulire tutto.» «Aspetta,
aspetta.» Noemi
schiaccia la sigaretta nel posacenere e l’abbraccia da
dietro. A quel punto i due ragazzi si alzano in piedi e fanno qualche
passo indietro, sperando di intravedere qualcos’altro. «Il
gelato…» Le ragazze
rientrano in casa e la tenda viene di nuovo posta a protezione
dell’interno, così da interdire ogni possibile
spionaggio. I due ragazzi tirano un sospiro di frustrazione e
abbandonano il marciapiede. L’uno prende la pila di fumetti e
se la mette sottobraccio, l’altro sale a cavalcioni della
bicicletta e va piano, in modo da accompagnare l’amico. «Hai
visto?» domanda questo, accennando col capo al balcone. «Sì. Gira un sacco di gente strana.» |