Storie originali > Generale
Ricorda la storia  |      
Autore: Pichichi    11/08/2012    1 recensioni
All'interno di un qualunque supermercato si intrecciano tre vicende: quella di un uomo che ha sgraffignato una banconota da venti e non sa che farsene, di una ragazza alle prese con insolite richieste e di una cassiera tormentata da un ragazzino.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
LA BIRRA LA DANNO A 1,99
 
 

Il supermercato Ennegì è situato nella zona periferica, accanto alla tangenziale che circonda la città e conduce all’ospedale, alla stazione dei carabinieri o ai quartieri residenziali, a seconda di cosa si preferisce. Angelo va sempre a far la spesa lì quando può permetterselo, perché è il supermercato che ha la roba buona e continua ad essere rifornito, a differenza dell’altra catena che, ormai in fallimento, non conta più nemmeno una decina di macchine alla volta nel parcheggio. Angelo è fuggito a bordo della sua utilitaria per farsi un giro, tenendo in tasca i venti euro a disposizione; a dire la verità, una piccola parte di sé ha deciso di optare per quella meta anche per passare una mezz’ora scarsa in un locale con aria condizionata. Il tempo fuori è brutto: ci sono le solite nuvole scure a circondare i palazzi e l’aria si fa sempre più pesante e afosa ogni secondo che passa. I cambiamenti metereologici lo hanno sempre scombussolato, non è la prima volta che sente venirgli addosso una sensazione di soffocamento che lo ha costretto a scaraventarsi fuori di casa, lasciando sua madre addormentata davanti alla televisione.

Angelo sceglie un parcheggio che sia vicino all’entrata, spegne il motore e va alla ricerca della banconota che ha in tasca. La tasta, se la fa scorrere fra le dita, poi la estrae e la guarda meglio. Pensa che non è stato un vero e proprio furto, è stato come investire quei soldi in delle medicine: aveva un disperato bisogno di mettere il naso fuori di casa e la vista di quei venti euro sul cassettone della stanza da letto lo ha tentato in maniera irresistibile. Sua madre non se ne accorgerebbe comunque: Angelo si stupisce che a novant’anni suonati riesca ancora a ricordarsi di cose come la necessità di indossare la canottiera – «perché se no sudi e ti prendi un malanno» – oppure il tempo di cottura delle melanzane.

Per un momento solo si sente una persona orribile, poi il suo sguardo incrocia il riflesso dello specchietto retrovisore e si rende conto di essere orribile sul serio: gli sono rimasti pochi capelli e l’aria malaticcia non pare volerlo abbandonare, senza contare il colorito giallognolo e i peli grigi che spuntano da sotto la camicia. Angelo pensa che in queste condizioni non ci si può preoccupare di essere moralmente retti, è già tanto se si riesce a sopravvivere.

Infine varca la soglia delle porte automatiche e si bea della frescura artificiale; comincia a redigere nella sua mente la lista delle cose di cui ci sarebbe bisogno a casa. Tanto per cominciare qualcosa da mangiare che non sia inscatolato o surgelato, qualcosa di fresco e profumato come duecento grammi di prosciutto cotto, poi un litro di latte con cui campare almeno per qualche mattina; se si prende il latte, però, tocca comprare anche i biscotti, perché ad Angelo non è mai piaciuto berlo senza aggiungere niente. Quanti soldi sono rimasti per il pancarrè e la crescenza da spalmarci sopra?

Angelo si ferma davanti al banco dei salumi e dei formaggi. Osserva le forme di prosciutto e di mortadella che vengono affettate, le mozzarelle imbustate che le commesse porgono ai clienti.

«Come posso servirla, signore?» gli domanda una di loro.

«No, grazie, non prendo nulla… ho cambiato idea.»

«Come preferisce.»

Si allontana subito da quella zona, pensando che non può spendere tutti i suoi soldi in affettati e latticini che, per quanto siano buoni, non resistono bene all’usura del tempo e vanno consumati in fretta, così da vanificare immediatamente il possesso di quella banconota.

Gli viene in mente che ci sarebbe da comprare il nuovo pacco di pannoloni per sua madre, ma quell’attimo passa subito ed ha un potente sussulto di orgoglio; no, è uscito di casa per rivitalizzarsi, non per mettersi a fare il galoppino – quello l’ha già fatto troppo a lungo. Nei momenti peggiori, quando il tempo fuori è più nero della pece e la frustrazione si fa più acuta, lo attraversano pensieri cattivi di cui in seguito non può che pentirsi: indubbiamente sua madre è una palla al piede e Angelo ritiene che, data l’esiguità delle sue funzioni vitali, non farebbe danno ad alcuno se piombasse improvvisamente sottoterra, ma in fondo le vuole bene, sente un piacevole moto di gratificazione quando la imbocca e riceve una smorfia sdentata; a pensarci bene si sarebbe potuto adoperare per trovare una dentiera economica, implorare qualche medico di abbassare i prezzi, ma la sua premura non è in grado di spingersi più lontano di così.

Sta considerando l’acquisto di una bottiglia di sciroppo quando sente il cellulare squillare; è quasi inorridito quando si accorge che è la madre che lo sta chiamando e subito pensa che si sia accorta della sparizione dei soldi.

«Mamma?»

Non sente alcuna voce provenire dall’altro capo. A quel punto il suo timore si incanala in una direzione più sinistra.

«Mamma?» riprova, più forte. «Mamma, rispondi?»

La chiamata prosegue e Angelo si domanda se è possibile che la vecchia debba schiattare proprio in quel momento, proprio quando lui è riuscito a concedersi un po’ di tempo per distrarsi.

«Mamma?»

Fortunatamente, tenendo l’orecchio incollato al telefonino, capta un rumore brusco che interrompe l’inquietante silenzio. Allora si distende e maledice quel telefonino tenuto nella tasca della veste: dev’essere scivolato sulla poltrona e sua madre deve aver inavvertitamente fatto partire la chiamata, schiacciandolo con una natica.

Lo ripone, non del tutto rassicurato; ha comprato a sua madre un cellulare da quattro soldi in cui ha memorizzato solo il suo numero e le ha spiegato che basta premere il pulsante verde per far partire la chiamata, quello rosso per spegnere l’aggeggio. L’intento è di fare in modo che per ogni minimo problema Angelo possa essere reperibile, ma finora non è servito granché e non sa se gioirne o rammaricarsi.

Dopo aver vagato un altro po’ fra gli scaffali con in tasca il biglietto da venti e la sensazione di onnipotenza che, a discapito di esigenze più pressanti, gli ha fatto immaginare di poter comprare qualsiasi cosa, anche la più inutile e sciocca, Angelo afferra una scatoletta di tonno sott’olio, un pacco di bastoncini di pesce e muove i piedi in direzione del reparto bibite. Fa per andare a scegliere la cassa di acqua minerale più economica quando si accorge dello scaffale su cui sono poggiate le birre.

Tante confezioni da tre, di tutte le possibili marche, bottiglie di vetro dal collo allungato con colorazioni che vanno dal verde scuro al marrone. Angelo s’incanta. Sente di avere sete, la gola gli prude e decide che un bel sorso di birra fresca è proprio quello che ci vuole. Lascia perdere l’acqua e comincia ad accarezzare con lo sguardo lo scaffale.

È quello lo scatto volitivo che cercava, quella birra la ragione per cui ha rubato venti euro a sua madre. Mentre allunga la mano per afferrare il tris più vicino, gli viene in mente che ha già messo da parte un po’ di cose e forse non riuscirà a coprirne la spesa; guarda il carrello: pane, surgelati, pasta, il latte, i biscotti secchi, senza contare la cassa di acqua che è costretto ad includere. Le birre non rientrano nel budget a sua disposizione.

Angelo vorrebbe tirare un calcio a qualcosa, qualcosa di fragile, e ascoltarne l’infrangersi senza curarsene. Quando sta per rassegnarsi, nota una confezione a cui mancano due pezzi. Una birra solitaria pare aspettare proprio lui.

La targhetta posta sotto segna uno e novantanove, ma ad Angelo viene in mente che se altri prima di lui hanno trafugato le due birre nessuno avrà da ridire se anche l’ultima rimasta viene tolta di mezzo, così da riportare tutto in parità. Non dovrebbe essere troppo difficile: basta infilarsela da qualche parte, nei pantaloni, fra il petto e la camicia, nasconderla tra le buste all’ultimo momento.

Non ha il tempo di agire, perché riceve una botta allo stomaco provocata da qualcosa che gli ha spinto contro il carrello. Si tratta di una ragazza che, distratta, non ha saputo evitare lo scontro.

«Mi scusi! Ero con la testa per aria e non guardavo… si è fatto male?»

«No, no, non si preoccupi, non è niente.»

Angelo si risistema in fretta, poi afferra il carrello e lo spinge verso le casse d’acqua; ne sceglie una e poi si allontana il più possibile dal reparto, va di corsa verso l’uscita. Che idea stupida, si dice: non è stato capace di rubare i soldi alla madre rimbambita per poi usarli in maniera scellerata ed ora voleva fregare una birra?

Se avesse avuto tutta questa risolutezza, pensa, non si troverebbe a cinquant’anni passati a vivere, disoccupato, con la madre; dà un’ultima occhiata alla ragazza che l’ha urtato, ma evita di domandarsi per l’ennesima volta perché non abbia una fidanzata. Dopo qualche passo gli viene da ridere ed è costretto a trattenersi; l’idea di poter veramente rubare qualcosa suona strana perfino a se stesso.

Alba si risistema gli occhiali sul naso e guarda andar via quel signore dalla camminata malferma; pensa anche di domandargli se per caso non si senta male, poi lo lascia andare, rimproverandosi ancora per la sua sbadataggine. Non le capita spesso di essere tanto goffa, ma oggi è costretta a convivere con l’agitazione in cui l’hanno gettata le parole di Noemi.

«Io preparo qualcosa di buono per cena, tu vai a scegliere il gelato, che ne dici?» le ha detto, accarezzandole la guancia con una mano.

Alba non ha potuto nulla contro quei penetranti occhi scuri e l’emozione che le provoca ogni volta la vicinanza della ragazza, così è subito partita alla ricerca, salvo poi passare il tragitto ad interrogarsi sullo scopo per cui Noemi pretende il gelato.

Alba ha pensato subito che volesse concludere la cena con un dessert rinfrescante, ma poi quell’aria maliziosa e quella frase soffiata a pochi millimetri dalle sue labbra, capace di farle rizzare anche la rada peluria sul viso, l’hanno indotta a considerare la possibilità che Noemi abbia in mente usi a lei sconosciuti del dolce. Per non apparire una stupida ha finto di cogliere l’allusione, ma è giunta al frigorifero ed ancora tenta di cogliere il nesso fra una coppetta di gelato – freddo, appiccicoso, calorico – e quella faccia furba che è tutto un programma.

Non sa che cosa scegliere, ma a casa sua c’è una bellissima ragazza che le sta preparando la cena, ha preteso un gelato e lei non ha alcuna intenzione di lasciarsela scappare. Che razza di figura sarebbe se si presentasse a mani vuote, pensa, eppure non le pare il caso di scegliere la prima confezione che capita. Si tratta di stabilire che cosa Noemi cerchi in quel gelato. Che cosa significa, a che cosa serve?

Tanto per cominciare, Alba mette la mano nel congelatore e ne estrae uno. Cioccolato, il più semplice che c’è e per questo subito scartato; anche se a lei piace molto, non crede che il cioccolato sia proprio quello che Noemi ha in mente, altrimenti avrebbe potuto commissionarle una tavoletta, una merendina. Alba ci tiene a fare bella figura e non vuol mostrarsi sprovveduta, ma deve ammettere che quella storia del gelato l’ha mandata un po’ in confusione. Rivede ancora la faccia di Noemi al momento di lasciarla andare, uno sguardo intenso che lascia intravedere la possibilità di un dessert ben più succulento.

«Che razza di idea, il gelato» borbotta fra sé, aggirandosi ancora attorno al frigo.

Precisamente non sa come accade, ma a un tratto la sua testa comincia a lavorare, le immagini si intersecano e si confondono, finché non giunge a immaginare che quel gelato, forse, non dev’essere introdotto in un bicchiere e poi mandato giù per la gola, dev’essere spalmato da qualche altra parte. Diventa tutta rossa e per fortuna non può vederla nessuno mentre fa dei passi più nervosi e comincia ad esaminare i barattoli con più attenzione.

Alba si darebbe della stupida per non averci pensato, ma si autogiustifica asserendo che quelle cose si fanno con la crema al cioccolato, con lo champagne, non con il gelato. Tuttavia, se Noemi ha dei gusti così particolari, non può che accontentarla. Le si affacciano alla mente numerosi dubbi tecnici: sarà troppo freddo a contatto con la pelle? Bisognerà lasciarlo fuori dal freezer per un po’. E se invece di una scenetta romantica il tutto finisse in una gran risata? E se si imbrattano le lenzuola? Il materasso sarà appiccicoso per tutta la settimana.

Abbandona presto quei pensieri per concentrarsi su qualcosa di più pratico e immediato: la scelta del gusto. Scarta il pistacchio perché il verde le pare davvero troppo strano a vedersi sulla pelle e la stessa sorte è riservata al melone; indugia per più di qualche secondo sulla nocciola, rifiuta decisamente la stracciatella o il fiordilatte, onde evitare associazioni poco appropriate, infine si ritrova con due finalisti fra le mani: la fragola e il tiramisù.

Opta per il secondo, invogliata soprattutto dai pezzi di savoiardi che vede adagiati sul fondo e dal prezzo più economico. Contenta di aver adempiuto al suo dovere, fa per tornare sui suoi passi e dirigersi verso la cassa. Mentre fa la fila le capita di posare gli occhi su una scatola di preservativi, una di quelle che promettono un piacere prolungato in virtù di non si sa bene quale frutto o proprietà chimica. La testa di Alba comincia a lavorare di nuovo.

Si domanda se per caso quella sera le sue sinapsi non abbiano qualche problema; fra meno di un’ora sarà nel suo appartamento insieme a Noemi e, a giudicare dal preludio, l’aspetta una serata decisamente movimentata. Faranno l’amore sdraiate sul suo letto – o sul divano, questo ha poca importanza – e useranno quel gelato che tiene in mano, quella roba per metà gialla e metà marrone che non s’aspetta minimamente di finire spappolata su un paio di tette o in qualche altro posto, meno convenzionale rispetto allo stomaco. Faranno l’amore quella sera e Alba s’immagina la faccia che farà Noemi al momento di lasciare da parte la tovaglia e le posate; faranno l’amore e se c’è una cosa che la terrorizza è il pensiero di non essere all’altezza. Non che Alba sia un’innocente ragazzina, ma quella faccenda del gelato l’ha agitata non poco.

D’improvviso cambia idea, abbandona il suo posto nella fila per la cassa e fa rapidi passi verso il reparto in cui sono esposti i prodotti per la cura dell’igiene personale. Non ricorda di preciso quand’è stata l’ultima volta in cui ha fatto la ceretta, né tantomeno se il suo corpo è in condizioni tanto trascurate da obbligarla a depilarsi. Non può comprare la crema, perché teme che il cattivo odore si diffonda per la casa, non la incoraggiano i rasoi perché ha paura che la pelle rimanga ruvida al tatto, dunque non le resta che scegliere una nuova confezione di strisce.

Alba si domanda perché dev’esserci così tanta differenza di prezzo fra quelle che sono imbevute di aloe e quelle che invece sono più semplici; sta per preferire quelle più efficaci, in barba al risparmio, poi osservando gli altri prodotti esposti le sorge un nuovo dubbio: è il caso di comprare un profumo?

Di solito non è mai così nervosa, però Noemi le piace proprio tanto: ci tiene a far bella figura e a non rovinare tutto. Vada per il profumo, si dice, non si sa mai che effetto potrebbe avere la fragranza giusta sugli ormoni di due ragazze giovani e attratte l’una dall’altra.

Il buonsenso le suggerisce di non fidarsi dei prodotti dozzinali in vendita al supermercato, però lo sguardo le cade sulla fila dei deodoranti e pensa che lì un’occhiata può anche darla. Ce ne sono dei più semplici, dall’odore neutro, altri impreziositi da aromi particolari che costano un po’ di più. Alba li stappa, li annusa, li rimette a posto e sta quasi per decidersi al riguardo di uno che profuma di lavanda quando nota una fila di prodotti dalla forma dubbia. Con la curiosità irresistibile e vergognosa di chi ha pensieri impudichi in luoghi pubblici ne prende uno fra le mani: è piccolo, dalla forma allungata ma non spigolosa.

Pensa a Noemi, al suo tono di voce invitante, al gelato, a una camera buia ed un letto; pensa che forse alla ragazza, oltre al gelato, potrebbe far comodo usare qualche altra cosa che possa alleviare le fitte al bassoventre, senza contare che già al solo pensiero si sente un po’ accaldata, figurarsi più tardi, quando saranno faccia a faccia nel suo appartamento. Afferra il deodorante e va verso la cassa. Per quanto non ce ne sia assolutamente bisogno, Alba dispone accuratamente il gelato sul nastro trasportatore e il deodorante subito accanto, quasi a nasconderlo dall’occhiata della cliente prima di lei. Si vergogna come una ladra e, come spesso accade, ha l’impressione che tutti quanti, anche la cassiera, stiano commentando l’acquisto di quel coso che assomiglia decisamente più a un giocattolo erotico che a un prodotto per l’igiene personale.

«Prende anche questo?» le domanda la cassiera, afferrando il famigerato deodorante.

«Eh? Sì, sì, anche quello!»

Alba arrossisce di botto, presentendo la figuraccia.

«Sa, un deodorante…» le scappa di bocca la precisazione, prima ancora che riesca ad arginarla. «Era il più economico.»

La cassiera non dà segni d’interesse, più preoccupata di batterle lo scontrino.

«Ha la carta?»

«Che carta?»

Presa com’è dalla vergogna e dal pensiero che Noemi dovrà darle una ricompensa adeguata per tutta quella faccenda, rimane per un secondo interdetta.

«La tessera del supermercato, così le faccio lo sconto» le risponde la cassiera sillabando lentamente le parole.

«Ah! No, no, non ce l’ho.»

«Perfetto. Sono sei e settantaquattro.»

La cassiera dà un’occhiata rapida in direzione dell’uscita e, mentre Alba traffica con la borsa, cercando il portafoglio e gli spiccioli e sperando che salti fuori una dannata banconota da dieci, fa un verso annoiato.

«Mi scusi, davvero, non riesco a trovarlo» si giustifica Alba.

«No, si figuri! Non è per lei, no.»

«Ecco, a lei.»

Getta sul ripiano una manciata di monete, precipitandosi a nascondere la spesa compromettente nella busta. Quando ha raccolto anche lo scontrino fa per andarsene, ma viene richiamata indietro dalla signorina alla cassa.

«Mi ha dato spiccioli in più!»

«Scusi, mi scusi, sono proprio sbadata. Arrivederci.»

Alba esce dal supermercato a passo di marcia, pensando che Noemi dovrà elargirle una bella e sostanziosa ricompensa, sì. Alle porte automatiche incrocia un ragazzino dalla pelle colorita e l’aria furba, proprio uno di quelli abbastanza sfacciati da metterti in imbarazzo con quattro parole, ma per fortuna non sembra avercela con lei. Cortesemente la lascia passare per prima, poi s’intrufola nel supermercato attraverso la porta adibita all’uscita.

Il ragazzo si avvicina alle casse, trascinandosi su un carrello vuoto, l’aria annoiata e assente; ad un tratto si ferma in corrispondenza di una postazione e scopre i denti in un ghigno.

«Luciana?» chiama.

Non ottiene nessuna risposta, se non l’attenzione della cliente anziana che sta in quel momento pagando il conto.

«Luciana?»

Il ragazzo tiene gli occhi fissi sulla signorina alla cassa, una specie di sfida personale che sembra aver preso con molta serietà. Incurante delle occhiate stupite che attira, persevera nel suo richiamo.

«Luciana?»

«Vattene via» gli sibila sottovoce la ragazza alla cassa.

Lui finge di non aver nemmeno ascoltato e si fa più vicino.

«Luciana?»

Quando vede la ragazza scusarsi con la signora e spiegarle che è un poveretto in cerca di attenzione allarga il suo ghigno e si sente ancora più motivato.

«Luciana?»

Finalmente la signorina alla cassa si volta verso di lui con un’occhiata che sa di rimprovero e disprezzo insieme; lo trapassa da parte a parte e non c’è bisogno di parole per capire che l’ha freddato. Tuttavia il ragazzo non è tipo da darsi per vinto e poi, pensa fra sé, una volta lì può anche permettersi di perdere un po’ di tempo a divertirsi, non fa differenza.

«Luciana?» prova ancora.

«Luana. Mi chiamo Luana. Che vuoi?»

Il ragazzo fischia sommessamente. Si nota che è compiaciuto per la sua risposta, pur se sgarbata.

«Luana» ripete.

Luana rotea gli occhi e volta la sedia in direzione del prossimo cliente, chiedendosi per quale motivo debbano capitare tutte a lei. Non le basta il terrore giornaliero dato dalla possibilità di essere licenziata, non sono sufficienti le quattro fermate d’autobus che deve sorbirsi per tornare a casa, le tocca anche sopportare quell’irritante ragazzino. Si domanda perché mai si sia intenerita il primo giorno che l’ha visto seduto fuori dal supermercato ad elemosinare, perché gli abbia regalato tutti gli spiccioli che aveva in tasca. Sa benissimo che quelli come lui, non appena fiutano una possibile anima pietosa, le si accollano come api al miele ed è difficile vederli desistere a meno di non dar loro ciò che vogliono. Il punto, in effetti, è proprio questo.

Da quando il ragazzino ha cominciato ad aggirarsi attorno alla sua cassa Luana è sempre più nervosa e non vede l’ora che arrivi l’orario di chiusura. Ha provato più volte a fargli capire che deve sloggiare, lo ha preso a male parole, gli ha ficcato in mano il resto appena ottenuto, eppure lui è ancora lì e non sembra avere l’intenzione di andarsene. Anzi, col tempo pare farsi più audace.

I primi giorni si limitava a fissarla da lontano senza sorridere, ancora timido; poi ha preso coraggio e si è fatto avanti, cercando di captare il suo nome in mezzo alle conversazioni fra colleghe; ora se ne sta lì in attesa di qualcosa, con la faccia di chi sa già di aver vinto prima ancora di buttarsi nella mischia. Non ha nulla del ragazzino impaurito che aveva fatto compassione a Luana il primo giorno.

Approfittando della mancanza di un cliente successivo, Luana si sporge verso di lui.

«Allora, che cosa vuoi? Dei soldi? Se vuoi dei soldi è inutile che te ne stai qui in giro, non posso darteli davanti a tutti. Se vuoi dei soldi» abbassa la voce, temendo di essere udita, «devi aspettare che finisco il turno. Aspettami fuori e ti do quello che posso, eh?»

Il ragazzo non risponde, ma la guarda dritta negli occhi.

«Va bene, facciamo così?» riprova lei.

Lui sembra piuttosto concentrato, probabilmente in cerca di una battuta per fare colpo. Alla fine se ne esce con un:

«Di che colore hai le mutandine?»

Luana sgrana gli occhi e arrossisce, più per la paura che qualcuno abbia colto la loro conversazione che per imbarazzo.

«Ma per chi mi hai preso? Ma che domande fai?»

«Non ti arrabbiare! Scherzavo, era per dire…»

«Sparisci. Ora.»

Ha da servire un’altra cliente e prima di rivolgersi alla signora gli scocca uno sguardo che significa: niente scherzi, mi raccomando. Il ragazzo resta lì, attento. Luana spera che non abbia ancora voglia di prendersela con lei; vede già che più persone lo guardano con curiosità e qualcuno pare impensierirsi al riguardo di quel giovanotto così inequivocabilmente proteso nella sua direzione. Ci manca solo che qualcuno creda che stia tentando di rapinarla e cominci a dargli addosso, Luana si vede già presa da parte e spedita a casa col benservito.

«Guarda che scherzavo, prima» le dice il ragazzo.

Ha la faccia improvvisamente seria, sente il bisogno di ribadire il concetto. Luana pensa che potrebbe anche intenerirsi se solo la situazione non fosse già abbastanza delicata. Vede con la coda dell’occhio il signore che sta servendo lanciare una brutta occhiata nella sua direzione e le sembra proprio che stia per dire qualcosa.

«Sono trentanove e sessantacinque» gli comunica, per distrarlo.

L’uomo apre il portafoglio ed estrae una carta di credito, ma non smette di tenere lo sguardo fisso sul ragazzo che, accortosi di lui, ricambia con altrettanta insolenza.

«Bancomat o carta?»

«Bancomat.»

Luana ringrazia che sia giunto il momento di inserire il codice PIN e ne approfitta per dare un’altra occhiata eloquente al ragazzino, intimandogli senza tanti complimenti di smammare. Lui fa una specie di sbuffo seccato, poi si allontana dalla cassa e va verso le porte automatiche, trascinandosi sul carrello. Una volta uscito Luana si permette un sospiro di sollievo e il cliente che sta servendo, notandolo, alza entrambe le sopracciglia.

«Le stava dando fastidio?» domanda, piuttosto brusco.

È chiaro però che la sua non è tanto cortesia nei confronti di lei quanto diffidenza non troppo celata nei confronti del ragazzo. Luana nega col capo.

«Si figuri, è solo un ragazzino. Ne vedo tanti altri, magari ubriachi, qua fuori…»

«Questi zingarelli però sono furbi. Basta un niente, un attimo di distrazione, che ti scippano il portafoglio e i documenti. A mio cognato è successa una brutta storia con un gruppo di questi.»

Luana fa spallucce e non si mostra interessata a proseguire il discorso, preferendo consegnare al signore le buste in cui infilare la sua spesa. Pensa che non le importa tanto il problema dell’integrazione della comunità rom nella città, spesso fonte di accesi dibattiti riguardo le condizioni in cui se ne stanno lì al campo, gli pneumatici che puntualmente bruciano, l’elemosina che richiedono sui sagrati delle chiese o fuori dai supermercati; temeva soltanto che potesse scattare qualche diverbio fra il signore e il ragazzo proprio lì, di fronte a lei – perché anche se Luana gli dà più o meno quattordici anni, si vede che ha la faccia di uno spavaldo, che non ha molte remore a rispondere agli adulti – ed è felice che invece abbia ascoltato il suo consiglio e se ne sia andato via. Un po’ le dispiace di averlo cacciato in quel modo, perché fintantoché si limita a star lì e guardarla non combina nulla di male. Si sporge in avanti per dare un’occhiata oltre le porte dell’uscita e lo vede, seduto sulla bassa recinzione, che alza lo sguardo ogni volta che passa qualcuno.

Tranne che per quel potenziale incidente il turno di lavoro fila liscio come al solito e i clienti sono meno del solito; ogni tanto dà un’occhiata all’uscita, ma non vede più il giovane zingaro aggirarsi nei dintorni. Con un sorriso divertito pensa che il rimprovero deve aver sortito il suo effetto, se non si è nemmeno più azzardato a rimettere piede nella struttura.

Quando è ora di chiusura Luana ringrazia che sia andato tutto bene, senza sapere nemmeno di preciso a chi rivolgersi; sa che non ha la certezza del posto di lavoro, ma finché le cose nella catena di cui il supermercato fa parte vanno bene, la merce è richiesta e si viene riforniti, non dovrebbero esserci grossi problemi.

Ha da prendere il pullman un centinaio di metri più avanti, ma siccome la fermata è deserta e aspettare lì da sola le mette sempre addosso un po’ di paura, decide che può permettersi una deviazione. Fa il giro dell’edificio e poi lo trova, sbirciando fra i parcheggi. È seduto su un muretto basso fra un’auto di colore verde e una bicicletta, che Luana presume appartenergli.

«Che fai qui?» gli domanda.

Il ragazzo la vede e subito salta in piedi, come scottato. Incespica un po’ per tenersi dritto e si tira su i pantaloni, l’aria stranita. Dopo il momento di sorpresa si riassesta.

«A quanto vai?» domanda.

«Che cretino» commenta Luana, senza scomporsi, «ti credi chissà chi, vero? Almeno sai di che cosa stai parlando?»

«Sì che lo so. So le strade dove vanno le puttane» il ghigno scompare, sostituito dalla necessità di apparire credibile. «Ci sono anche stato.»

«Sì, come no. Magari con quella» lei accenna col capo alla bicicletta stesa per terra.

Il ragazzo sembra rimanere interdetto. Luana lo vede spostare lo sguardo sulla bici, poi portarlo sulle proprie scarpe e poi sulle sue.

«Guarda che scherzavo, prima. Ti sei offesa?»

A Luana viene quasi da sorridere e ora sì che le dispiace di averlo mandato via.

«Ma no, figurati. Per così poco? C’è chi mi chiede di toglierle, almeno tu ti sei limitato a domandare il colore.»

«Chi ti chiede ti toglierle?»

«Certi cretini. Gente così.»

«E tu che gli dici?»

Stavolta il sorriso le sfugge prima ancora che possa provare a trattenerlo.

«Queste sono cose che non ti riguardano.»

Nonostante gli stia sorridendo bonaria nota che c’è rimasto un po’ male, così dirotta il discorso su altri argomenti.

«Mi dispiace se oggi ti ho mandato via. È solo che non puoi metterti lì tutto il tempo, capisci? Per me non ci sarebbe nessun problema, però…»

«Sì, sì. Ho capito» taglia corto lui e pare aver compreso sul serio.

«Se vuoi che a fine giornata ti lascio qualcosa basta che mi aspetti. Non c’è nemmeno bisogno che stai tutto il pomeriggio là fuori, vieni all’orario di chiusura e vedo se posso darti qualcosa.»

«Ci devo stare per forza, tanto.»

Il sorriso di Luana si intristisce e questo basta per farle mettere la mano nella borsa; dopo aver frugato un po’ tira fuori delle monete, alcune più scure, altre più grandi. Le raccoglie e fa per mettergliele in mano.

«Ecco, tieni.»

«No no, non le voglio» si ritrae lui, mettendo decisamente le mani dietro la schiena.

«Perché no?»

«No, non le voglio» ripete.

Luana nota che sta fissando la sua mano piena di soldi con aria strana e non sembra del tutto indifferente alla presenza di quelle monete; al contempo, però, rimane dov’è e rifiuta di prenderle. Allora gli prende un polso e gliele mette in mano di forza.

«Prendi e basta, prima che cambi idea.»

Il ragazzo non si oppone. Guarda prima lei e poi le monete.

«Ti ci compro qualcosa» dice poi, risoluto.

A quel punto Luana ride di gusto, cominciando ad allontanarsi.

«Ah sì, ci credo proprio!»

Mentre pensa che probabilmente quei soldi finiranno nel registratore di cassa di una paninoteca si vede affiancata da una bici.

«Sei a piedi? Vuoi che ti accompagno?» domanda.

Stavolta il suo sorriso non è un ghigno e non c’è la minima traccia di arroganza o malizia nella sua voce: è splendidamente spontaneo, proprio come dovrebbe essere un ragazzo della sua età, pensa Luana. Per un momento è tentata di rispondere affermativamente, poi si ricorda che non si sa mai, è del tutto indifesa e di notte, in una strada poco battuta, potrebbero venirgli delle idee strane.

«No, mi vengono a prendere.»

Se il rifiuto lo ha rattristato, non lo dà a vedere. La saluta in modo spiccio e prende la direzione opposta, allontanandosi fino a scomparire nel buio.

Qualche metro più avanti riconosce un amico che si è seduto su un marciapiede; quando è abbastanza vicino da poterlo guardare in volto, nota che ha accanto a sé una pila di giornali tenuti insieme da un elastico.

«Che cos’è?»

«Fumetti» risponde il ragazzo, «me li ha dati uno. Dice che doveva per forza venderli.»

«Chi era?»

«Che ne so, uno. Uno con la camicia, vecchio. Non so che ci faceva qui intorno, non l’ho mai visto. Ha detto che per questi ne voleva venti e che voleva essere pagato per forza con una banconota.»

«E tu gliel’hai data?»

«Sì. Tanto le banconote che ci capitano fra le mani le credono sempre false. Per fortuna avevo un po’ di soldi, me li sono fatti cambiare e li ho presi.»

«E che te ne fai?»

«Li rivendo sabato al mercato.»

Il ragazzo scende dalla bici e la posa per terra, sedendosi accanto all’amico. Questo nota che, nel muoversi, le tasche dei suoi pantaloni hanno tintinnato.

«Ma hai dei soldi?»

Subito fa per estrarli, ma il ragazzo si difende e lo spinge via.

«Sono miei, mi servono.»

«Quanti sono?»

«Non lo so.»

«Vediamo quanti sono, dai.»

«Ho detto di no, sono miei!»

L’amico si ritrae, stupito da tanto animo. Si stringe nelle spalle e torna a guardare dritto davanti a sé.

«Va bene, tieniteli, chi cazzo te li tocca.»

Rimangono in silenzio, attendendo che sia l’ora giusta per tornare a casa. Il ragazzo infila una mano nella tasca per cercare le monete che gli ha dato Luana, cercando di non fare rumore. Riesce a stento a trattenere un sorriso e si piega dall’altra parte per far sì che l’amico non lo veda. Questi, invece, ha preso ad esaminare i volumi che sono stati pressati l’uno sull’altro; cerca di contarli, di capire quanto possono valere.

D’improvviso risuona una risata femminile che li fa trasalire, nel silenzio della strada. Si guardano intorno per capire da dove provenga, poi l’individuano come appartenente alla ragazza che è appena uscita sul balcone.

I ragazzi si danno di gomito per avvertirsi a vicenda e puntano gli occhi al primo piano del palazzo; una ragazza sta ridendo senza alcun ritegno e ce n’è un’altra che le spunta alle spalle, l’aria contrariata. La prima ragazza si lascia andare su una sedia di plastica e tenta di calmarsi, accendendo una sigaretta. L’altra le si siede di fronte, ma non sembra allegra quanto lei.

«Non ci posso credere. Non ci posso credere» ripete la prima, scuotendo la testa.

«Io non ci trovo niente da ridere» precisa l’altra, «ci ho messo tutto l’impegno del mondo, io.»

«Ho notato, cara.»

La ragazza scoppia in una nuova risata che fa trasalire ancora i due ragazzini in ascolto; si scambiano un’occhiata complice: credono che sia un po’ brilla. L’altra ragazza incrocia le braccia e si sporge sul davanzale.

«Io non ci trovo ancora niente da ridere.»

«Oh Alba, ti sei offesa?» domanda l’altra. «Non sto ridendo di te, mi fa ridere la situazione. Tu te ne torni a casa con quel… » ride un’altra volta ancora, «con quel coso.»

«Credevo di fare bene.»

«Tutta seria, tu…»

«Smettila di ridere!»

Alba dà un’occhiata giù in strada e incrocia lo sguardo dei due ragazzi che stanno ad origliare, col naso per aria. Subito si ritrae e fa per tornare in casa. Noemi le afferra un polso.

«Alba?» la chiama.

«Torno dentro a ripulire tutto.»

«Aspetta, aspetta.»

Noemi schiaccia la sigaretta nel posacenere e l’abbraccia da dietro. A quel punto i due ragazzi si alzano in piedi e fanno qualche passo indietro, sperando di intravedere qualcos’altro.

«Il gelato…»

Le ragazze rientrano in casa e la tenda viene di nuovo posta a protezione dell’interno, così da interdire ogni possibile spionaggio. I due ragazzi tirano un sospiro di frustrazione e abbandonano il marciapiede. L’uno prende la pila di fumetti e se la mette sottobraccio, l’altro sale a cavalcioni della bicicletta e va piano, in modo da accompagnare l’amico.

«Hai visto?» domanda questo, accennando col capo al balcone.

«Sì. Gira un sacco di gente strana.»

   
 
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Generale / Vai alla pagina dell'autore: Pichichi