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Autore: Gatto Magro    12/08/2012    3 recensioni
- Adesso c’è sangue anche sulla lampada, quella verde in salotto, e sono andata fuori in silenzio però, perché ho pensato che ora dobbiamo accendere la lampada col sangue di Brian sopra e mi è venuto da vomitare.
Genere: Angst, Dark, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Crack Pairing
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Aprile 2002.
Penombra.
Il tonfo morbido e claustrofobico delle tende che, slegati i lacci di cuoio che le reggono, cadono sul pavimento. Il rumore metallico degli anellini che scorrono sulla barra portante d’ottone smangiato dall’umido, la stanza che lentamente si oscura, le ombre che si allungano sulle assi del pavimento fino ad abbracciarsi e fondersi fra loro – gambe, sedie, teste, piedi, panneggi, i lunghi steli neri delle lampade.
Il rumore di un corpo accanto al suo, il respiro di suo fratello che si fa più profondo e silenzioso mentre si siede sul pavimento.
La voce.
La voce e la magia che trasuda da ogni sillaba, pronunciata con gli ultimi strascichi di quello strano accento del tutto scomparso dall’intonazione dei nipoti, i due bambini seduti ai piedi del letto. La voce li incatena alle ombre, toglie loro il respiro e glielo ridona a proprio piacimento, stuzzica il battito cardiaco perdendosi in eco fra le strette pareti della stanza e per ritornare ad accarezzare la loro pelle d’oca, calmarli, soffiare un indugio fra i loro capelli e infilarsi dentro le ossa, scorrere insieme al loro sangue e a una vaga sensazione di terrore e una ancora più forte di improvvisa – e del tutto feticcia- vecchiaia e maturità. Fintanto che la voce suona i due bambini perdono se stessi, si spogliano dei loro corpi incredibimente forti e fragili, l’anima si scolla dalle spalle magre, diventano qualcos’altro, qualcun altro, diventano vecchi e muoiono, combattono e vincono, cadono e si sbriciolano in cenere e pezzi di marmo, gioiscono e sentono il fuoco pervadergli il petto, si disperano e amano con tutto il cuore figure evanescenti dai lunghi capelli che danzano nelle loro menti rapite.
E ascoltano, soprattutto. La voce inonda i loro sensi e insegna loro ad aprire gli Occhi.
Imparano a vedere, in una stanza buia soffocata dall’odore di incenso.
Corrugano le piccole fronti lisce, serrano le palpebre, non comprendono, vedono le figure cambiare forma e consistenza e danzare vorticosamente, disperdersi e sfaldarsi in stelle brucianti quando la voce si fa più lieve, incaspicano e cadono e qualche lacrima di impotenza riga le loro guancie – di nuovo giovani.
La voce urla e li atterrisce, li sbatte al suolo e li percuote vibrando nelle costole, fino a farsi più morbida e carezzevole aiutandoli a rialzarsi con un bacio al sapore di cera, passato e aria trasparente che attraversa i secoli.
In quell’aria trasparente, immobile fra l’occhio umano e il tocco del materiale, è sospeso il mistero del loro sangue.
 
Novembre 2012
 C’è una strada semibuia, anche se sono solo le cinque del pomeriggio le nuvole sono talmente dense e basse che qualcuno ha deciso di accendere i due lampioni che costeggiano i marciapiedi. Il risultato non è un granché, perché il fascio di luce arancione sembra quasi grigio, sfaldato in mezzo alla pioggia torrenziale che batte l’asfalto.
C’è una ragazza, anche lei inglobata in una cappa scura di gocce, cammina tranquillamente confondendosi nell’acqua che le rimbalza addosso, la felpa rossa ormai troppo bagnata per assorbire ancora pioggia. Il tessuto è incollato alla pelle, se solo fosse meno spesso le si potrebbero contare le vertebre sporgenti, l’angolo aguzzo delle scapole e la linea delle clavicole, ma si indovina solamente il nodo in cui ha stretto i capelli sulla nuca, che sporge dal cappuccio tirato sulla testa.
C’è una strada e c’è una ragazza, nient’altro che quella figurina rosso sangue a macchiare di un colore spento il grigio di questo venerdì pomeriggio.
Chiamiamola S, la ragazza. La strada non ha nome, la pioggia ha risucchiato anche l’insegna della via insieme alle case che si affacciano intorno: sparite, come fra poco lo sarà il poco che si scorge della luce dei lampioni. Accesi alle cinque del pomeriggio? Che assurdità, sta pensando la ragazza, anzi nemmeno lo pensa, è un qualcosa che tutto il suo corpo dice interiormente, un’eco che si scontra fra i suoi muscoli formicolanti e il naso che gocciola, salta fra le ciocche sottili di capelli raggrumati dall’umidità e si dondola sulle ciglia, facendone sbavare il trucco sotto le palpebre.
Ancora qualche passo. Cammina, S, nelle sue orecchie rimbomba il grattare pesante di un basso, canta muta una canzone che non c’entra nulla con la pioggia, con la strada e con il buio: canta con gli occhi accesi e le labbra che sorridono nonostante must have stabbed her fifty fucking times, I can’t believe it non sia una frase che farebbe esattamente sorridere la donna che la guarda da una finestra lì davanti, ma mancano solo due passi, un passo, e anche la donna e la sua finestra con le tende arancioni sono scomparse dalla scena, per cui non è importante che cosa farebbe o non farebbe sorridere una persona che è sparita. E poi, S non ha alcuna malsana propensione alla violenza. Non accoltellerebbe nessuno, anche se a pensarci talvolta vorrebbe prendere a botte quel deficiente di Benjamin, o suo fratello Brian. Ma non l’ha mai fatto, perché sono entrambi più grossi di lei, e in ogni caso S ha sempre saputo supplire alla sua scarsa forza fisica con una serie di astute vendette.
Ripped her eyes out right before her eyes, eyes over easy canta S alla pioggia in un sibilo di parole, da fuori, un grido di uno strano timbro di voce a metà fra lo stridulo e il profondo, dentro. 
Non c’entra assolutamente nulla, la canzone. Ma almeno riesce a levarsi dalla testa l’immagine di Brian con la faccia sbrindellata, gli occhi pesti e la mandibola storta, i denti sporchi di sangue, il respiro mozzato.
Soffia alla pioggia, S, e le sembra di aprirsi un varco di fiato fino alla fine della via, dove all’improvviso il marciapiede si appiattisce sull’asfalto, si sbriciola, si copre di un’erbaccia giallastra, scavalca una bassa staccionata di legno ed entra nel parco.
S si china perché non è della giusta bassezza per entrare dritta nella casetta di assi verniciate di rosa nel parco, e si siede sul tappeto umido e grumoso che costituisce il metro e mezzo quadro di pavimento della casa giocattolo che non vede mai molti bambini, per cui non si stupisce troppo di ospitare una ragazza di sedici anni bagnata fino all’osso, con i capelli corti, neri e spettinati e il trucco sbavato intorno agli occhi chiari, che si appoggia con la schiena alla parete e attira le ginocchia al petto posandovi sopra il mento.
Ha spento il lettore musicale, che adesso riposa silenzioso nel marsupio sformato della felpa che la ragazza indossa con una grazia un po’ spaurita, visto come le cade larga e pesante sulle spalle gracili.
- Ciao Callie. Scusa, sono in ritardo, ma mi piace la pioggia e andavo piano per sentirla di più, ecco.
- Tra poco è ora di cena. Hai fame tu? No, non tanta, io. Mi fa schifo vedere il sangue, te l’ho detto anche l’altro giorno che sono corsa fuori di casa e stavo per vomitare sul marciapiede, e allora adesso ho tipo lo stomaco chiuso, perché ho visto un sacco di sangue.
- Papà ha picchiato Brian un’altra volta, Callie. Forte. Brian aveva la bocca piena di sangue, i denti marroni, e papà aveva il suo sangue sulle mani, proprio sulle nocche perché gli ha tirato un pugno.
- Adesso c’è sangue anche sulla lampada, quella verde in salotto, e sono andata fuori in silenzio però, perché ho pensato che ora dobbiamo accendere la lampada col sangue di Brian sopra e mi è venuto da vomitare.
- Ti da fastidio se piango un po’, Callie?
   
 
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