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Autore: Kimmy_90    15/08/2012    2 recensioni
[Sequel de "I Frutti dell'Oblio"]
Un battito dopo l’altro, ed uno ancora per abitudine.
Fame, bisogno, bisogno e fame. Non erano quelle le giuste parole. Le parole non dovevano far parte del suo mondo, assai superiore a questo.
Non importava.
Un battito dopo l’altro, avrebbe aspettato. Ancora ed ancora.

Chi è tua madre?, aveva chiesto Obito.
Kushina si era drizzata tutta, prendendo un paio di centimetri nella sola estensione della colonna vertebrale. Aveva levato il mento e aveva risposto con inaudita sicurezza: "Io non ho madre".
Minato aveva sentito un moto di comprensione per l’altra, la quale, a quanto pareva, come lui era orfana di un genitore.
Ma poi Obito era andato avanti, mantenendo una voce insolitamente salda: "Chi è tuo padre?"
E lei: "Io non ho padre."
Minato aveva osservato la bambina gonfiarsi, impettirsi, senza riuscire a capire il perché di tale atteggiamento.
Tu, cittadino, sei figlio del passato e padre del futuro. Apprendi e insegna, non dimenticare mai. Vivi il presente costruendo dalle macerie del passato: ciò che fai appartiene ai tuoi figli, ciò che sei lo devi ai tuoi avi. Sii un buon figlio, sii un buon avo."
[ Warning: "inversione generazionale"]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Kushina Uzumaki, Nuovo Personaggio, Yondaime | Coppie: Minato/Kushina
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
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- Questa storia fa parte della serie 'Cristallo di sale'
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(2) – [ Lento il passo, greve il grido ]



La bambina davanti a lui aveva portato le mani nei capelli, prima di esibirsi in uno sbuffo estenuato. Avrà avuto al massimo un anno più di lui: scuoteva la testa, levava il mento, si girava di qua e di là – non aveva ancora scritto niente sul foglio di carta del test mensile.
Minato, dal canto suo, aveva già ben che finito.
Per questo osservava l’altra, perplesso, domandandosi se forse non fosse il caso di...
ma no, Minato. Per cortesia.
Aiutarla?
E a che pro?
Se lei aveva bisogno di ripetere alcune lezioni, ne aveva bisogno. Punto.
A suggerirle avrebbe fatto solo che un danno – a lei e a lui.
Il bambino si morse il labbro, sprofondando nella sedia di legno. Levò gli occhi, meditabondo. Che fare?
Era un test a tempo indeterminato, alcuni folli si concedevano il lusso di perderci sopra giorni interi. A scapito delle nuove lezioni, ovviamente – stava a loro.
Lui, però, avrebbe potuto consegnare molto tempo prima.
Ma come ogni volta, finito di rispondere ad ogni singola domanda proposta, si lasciava assalire dal dubbio: risposte, sì – ma di che qualità?
E se aveva sbagliato qualcosa?
Così, fra un’insicurezza e l’altra, lo sguardo gli era stato inevitabilmente catturato dal muoversi inquieto di quella bambina seduta davanti a lui, chiaramente sull’orlo della disperazione.

Cosa te ne fai del tempo, se non sai?
Cosa te ne fai di sapere, se non hai tempo?

Queste erano le domande, poste in cima ai due tipi di test che i bambini della Magna Regio si trovavano ad affrontare – l’uno a tempo indeterminato, l’altro brevissimo, non più di cinque minuti.
La prima cosa che si faceva era rispondere a queste due domande – prima ancora di scrivere il proprio nome.
Le calligrafie infantili, più o meno storte, riportavano sempre le stesse scritte.

Se non sai, ragioni.
Se non hai tempo, scegli.

La bambina davanti a lui, ad ogni modo, pareva troppo occupata a studiare le macchie del soffitto per mettersi effettivamente a ragionare.

In fondo al foglio c’erano altre due linee da riempire – sempre le stesse frasi, in questo caso, indipendentemente dal tipo di test.

Se hai un dubbio, chiedi.
In ogni caso, provi.

Minato sbuffò.
Perché quella bambina non seguiva nemmeno uno dei fondamentali?

Che stupida - si lasciò sfuggire, come pensiero.

***



Le due donne si fissavano negli occhi, immobili, sedute l’una di fronte all’altra. Ambedue poggiavano le mani su due tazze di coccio, riempite di un infuso d’erbe ancora fumante. Attendendo che la bevanda si raffreddasse, si scrutavano vicendevolmente, in silenzio.
La calma inquieta del quartiere le avvolgeva: rumori d’attività umana, lenti ed ovattati, ma continui.
Un clima surrealmente normale, nella frenesia tipica di Konoha.
Vuoi del miele, nonna?” domandò la donna più giovane.
La vecchia fece lentamente di no con il capo.
Dalla finestra socchiusa si fece spazio il rumore di una sega elettrica.
La donna più giovane sbuffò, infastidita da quel suono, alzandosi dalla sedia per andare a chiudere le imposte.
Hai sentito la radio, questa mattina?” domandò la vecchia, non appena l’altra le aveva dato le spalle.
La sua voce era leggerissima, a stento si riusciva a sentire: vagamente roca, spesso portava con sé la stanchezza degli anni, degli eventi, del mondo intero.
Sì.” rispose l’altra, sporgendosi dalla finestra per guardare di sotto – quattro piani più in giù, nel giardino comune, uno dei vicini di casa si era messo a fare lavori.
Questa città è sempre all’opera, pensò la donna.
Ed ebbe tutto il tempo per fare questo pensiero, rimandare un’ultima occhiata all’uomo impegnato a segare una trave, sospirare, socchiudere le imposte nel tentativo di lasciar filtrare l’aria e non i rumori, e dunque tornare al tavolo.
Solo quando si fu seduta, la vecchia continuò la sua domanda: “E Minato?”
L’altra sospirò, scuotendo la testa ed andando a riprendere la sua tazza di coccio, dopo essersi seduta.
E non gli hai detto niente.” continuò la vecchia, rinunciando al punto interrogativo. Non ce n’era bisogno.
Glielo dirò stasera. Volevo che andasse a fare il test mensile senza pensieri.”
Mebuki*...” sfiatò la vecchia, senza avere la forza per andare avanti. Tanto bastava, alla nipote.
Nonna, senti – glielo dirò. Non so nemmeno se Sasori e la sua famiglia erano in casa o meno, considerato che il bambino stava male... forse erano andati all’ufficio di igene. Non è detto che siano rimasti coinvolti nell’incendio. Non è giusto che Minato si preoccupi riguardo cose su cui non ha alcun potere – ora per lui è importante studiare.”
Mebuki si sistemò la frangetta bionda, al centro della fronte, la quale andava pericolosamente scomponendosi. Riprese fiato, per poi continuare: “Si da già troppi problemi da solo. Ci manca solo che si svegli e venga travolto dall’idea che forse il suo migliore amico è morto in un incendio – se solo penso che ieri sera voleva andare a trovarlo...” raggelò, inspirando con un vaghissimo tremito.
L’anziana Sakura, dopo aver ascoltato la nipote, bagnò le labbra nell’infuso caldo, per poi ritornare ad appoggiare la tazza sul tavolo.
Quel bambino, un giorno, inizierà ad odiarti.” mormorò, non troppo convinta di quanto aveva appena detto. Sì, Minato era un bambino determinato, decisamente troppo determinato per la sua età. D’altronde, era Minato.
Spesso la sua determinazione cozzava con il buonsenso di Mebuki, e gli effetti si vedevano.
Ma nonostante queste divergenze, e per quanto sembrasse naturale che ad un certo punto un po’ di astio potesse nascere, Minato sembrava proprio non essere il tipo capace di provare un odio degno di chiamarsi tale. Al massimo, si poteva infastidire leggermente – ma ogni volta che ciò succedeva, scacciava da solo il suo fastidio mettendosi a rimuginare profondamente su quanto accaduto e su chi, effettivamente, potesse avere ragione – se una ragione c’era.
Quel bambino pensa troppo, semplicemente. Io cerco solo di riportarlo a terra quando inizia a galleggiare in mondi troppo ideali, o quando si perde troppo nei suoi pensieri. Mi spiace per Sasori, ma così va il mondo in questo periodo, nonna. E lui, per ora, non può farci niente – è solo un bambino. Io devo far sì che lui sopravviva in questa realtà, non in un’altra. Poi, quando avrà i mezzi, potrà osare tutto quello che gli salta in testa. Ma non ora.” Mebuki trasse un respiro “Così va il mondo.” si ripeté, non senza un certo sconforto – quasi dovesse, tristemente, convincersene anch’ella.
Così va il mondo...” sussurrò la vecchia, fra sé e sé.

Era da almeno un anno che Minato aveva iniziato ad andare da lei, Sakura, a chiedere ‘un terzo parere’ su eventuali litigi che si scatenavano in casa. Minato era così legato alla Politeia che spesso la prendeva troppo alla lettera, o si perdeva in piccoli buchi logici dove razionalità e ragionamento si perdevano, fornendo risposte diverse alla stessa domanda, e mandandolo spesso in confusione.
Ma bisnonna – ’ iniziava, il foglio di carta con i primi sei articoli della Politeia – che gli era stato consegnato al primo giorno di scuola – in mano. 'Se io devo difendere gli altri con lo stesso ardore con cui devo difendere chi mi è caro, devo difendere anche i secessionisti?' Questo le aveva chiesto, la prima volta in cui aveva osato farle una domanda. Aveva sei anni. Sapeva già leggere da due.
Sakura aveva sospirato, guardandolo con un’apprensione infinita.
Quali erano le prime cose che ti hanno detto alla scuola, Minato?’
Ragiona, se serve scegli, se hai dubbi chiedi, in ogni caso provi.’
Ragiona, Minato’ la voce le si era fatta più forte. Da allora la conservava per provare a rispondere ai dubbi di Minato.
Da quel giorno, Minato aveva iniziato a ragionare: continuamente, quasi con foga, all’infinito. Dopo aver a lungo fissato il foglio con la prima parte della Politeia, aveva rialzato lo sguardo, palesemente stanco per lo sforzo fatto: ‘Non so se li posso difendere’ aveva mugugnato, sconfortato. ‘Loro ci fanno del male.’
Sakura aveva sospirato.
Però non gli farei comunque del male...’ continuò il bambino, mangiandosi le parole nell’indecisione sul pronunciarle o meno.
Ma Sakura lo aveva sentito, e capiva.
Il mondo non è bianco o nero, Minato. Non fare l’errore dei secessionisti.’
Il bambino aveva levato le sopracciglia bionde: sul volto si coglieva l’intuizione, ma non aveva capito del tutto la metafora.
D’altronde, si disse Sakura, aveva solo sei anni.
Sei anni.
E aveva più inquietudini di quelle che quelli della sua generazione, e quelli prima di loro, avevano mai avuto sino ai giorni prima della rivoluzione.

Mebuki aveva visto lo sguardo di Sakura come appannarsi, gli occhi sottili stretti fra le miriadi di rughe persi in pensieri troppo intensi da lasciar posto alla percezione del mondo reale. Quando faceva così, bisognava aver la pazienza di lasciarla finire il suo processo mentale – d’altronde, ormai aveva quasi cent’anni. La vecchia ragionava ancora con la lucidità di quando era rappresentante dell’Ignis Regio in consiglio e ruggiva alla platea con un ardore infinito, ma aveva bisogno dei suoi tempi.
La vide levare lentamente la mandritta verso il volto, in quello che era un suo gesto classico: si tastava le cicatrici, posando i polpastrelli sulle gote sformate, come se si chiedesse se erano ancora lì, se mai c’erano state, se tutto era ancora vero – o forse per prendere forza dalla sé stessa dei tempi andati.
La vecchia non fece in tempo a concludere il movimento: il pavimento tremò, accompagnato dal fragore violento di un’espolosione.
Le due sussultarono.


***


Minato si ritrovò sotto il tavolo senza nemmeno pensarci: a furia di far esercitazioni, certe cose gli venivano naturali.
La bambina ‘stupida’, come gli era scappato di soprannominarla, era bloccata sulla sedia: il rumore dell’esplosione doveva averla paralizzata. Non appena il bambino la notò, si sporse leggermente verso di lei, nel tentativo di afferrarle la casacca: “Cosa fai lì?! Vieni giù!”
Quella ci mise qualche altro secondo prima di lanciarsi, più che tardivamente, sotto il suo tavolino. Dai rumori che sentì, accompagnati da qualche altro movimento nell’aula, intuì che lei non era stata la sola ad irrigidirsi e non reagire.
Accucciato sotto il banco, Minato scrutava gli altri – chi aveva reagito prima e chi aveva reagito dopo, ora erano più o meno tutti al riparo.
Se così si potesse chiamare.
Ah, e non avevano ancora ben chiaro da cosa si stessero riparando.
Dopo i primi momenti di scombussolamento, immobili sul pavimento, rimasero in silenzio. Non più un rumore.
Tutto pareva immobile.
Ogni tanto due sguardi, terrorizzati, si incrociavano: la domanda non cambiava.
E adesso?
Gli alunni, in un modo o nell’altro, cercavano di intravedere la figura del professore.
All’uomo ci volle almeno mezzo minuto per analizzare la situazione e le possibilità.
Quando ve lo dico, uscite in fila indiana, veloci e ordinati, nell’ordine inverso rispetto al quale siete entrati.” dichiarò infine. In questo modo non avrebbero dovuto ammassarsi, dato che si erano seduti in funzione dell’ordine d’arrivo.
Sì, era fatto apposta. Era quello che diceva ad ogni esercitazione.
Ma, no: sinceramente non aveva mai sperimentato la cosa dal vivo.
Il sudore freddo, nelle simulazioni, non era mai incluso. Per l’uomo era quasi una novità.


Quando uscirono c’era ancora polvere nell’aria: la visuale, relativamente limitata, non sembrava però offrire nessuna spiegazione dell’accaduto.
L’accaduto, poi.
Cosa era successo?
I bambini rimasero zitti, immobili, in fila, guardandosi attorno in attesa di istruzioni.
Polvere, solo polvere.
Qualche altra persona, dagli edifici vicini, era scesa in strada. Il flusso continuo di gente pareva essersi dissolto nel nulla: c’era solo silenzio stupito, sgomento.
Quella era un’esplosione.” dichiarò, attonito, un ragazzo di forse vent’anni.
Le persone che gli stavano attorno iniziarono a mormorare fra di loro: lui lo aveva detto, ma in fondo tutti lo avevano pensato.
Minato, man mano che continuava a setacciare il paesaggio che lo circondava, filtrato dalla polvere che iniziava a far tossire qualcuno, iniziò a notare una qualche differenza. Concentrandosi, cercò di capire di cosa si trattasse.
Fece per schiudere le labbra, incredulo di quanto aveva appena scoperto, mentre il cuore gli pareva sul punto di contrarsi sino allo spasmo per lo sconforto. Ma lo anticiparono:
E’ l’H06A!” urlò una voce di donna, additando qualcosa verso l’alto.
Minato sgranò le palpebre: per quanto lo avesse notato, fintanto che la donna non l’aveva detto, non ci aveva realmente creduto. La paura che gli era sorta era stata di pura proiezione, una paura dovuta alla sola idea che...
L’H06A?
L’hanno fatto saltare! Stanno trasmettendo dalla frequenza d’emergenza –”
... alla sola idea che no, quell’edificio, aveva ragione, quell’edificio rosso, come un faro fra le costruzioni bianche, torreggiante di un paio di piani in più rispetto alla media, non c’era più. Dove una volta si intravedeva l’Ho6A, il vuoto. Il punto verso cui la donna aveva puntato il dito era vuoto.
E non doveva esserlo.
Doveva esserci una parete rossa, una scritta grande, un edificio della Scuola.
Non c’era più.
Da loro arrivava la polvere.
Bastardi di secessionisti!” fu un urlo ricolmo di odio, e, con sua enorme sorpresa, Minato si rese conto che quella era la voce del suo professore. “Pezzi di merda! Un edificio della Scuola! Durante il test! Hanno ammazzato dei ragazzini!”
L’uomo era sconvolto.
Gli altri pure.
Minato non riusciva a collegare.
Sì. A livello logico collegava, a dire il vero. I secessionisti, questa volta, si erano spinti ben oltre al solito. Avevano fatto esplodere un intero palazzo.
No.
Un edificio della Scuola.
Del ciclo A.
Con bambini.
Dentro poteva esserci lui, realizzò.
O Sasori.
No, scosse il capo, mentre il respiro gli si faceva sempre più rapido e singhiozzato.
Dei bambini, indifferentemente chi, dei suoi coetanei, erano lì dentro.
Erano morti?
Tutti?
Hanno ammazzato dei ragazzini’, aveva urlato il professore.
Erano già morti dei ragazzini, si disse Minato.
Ma questo era peggio.
No, non peggio.
Di più.
No, non di più.
In effetti era diverso.
I secessionisti avevano veramente mosso un attacco del genere?
Avevano ucciso bambini, Bianchi e Neri.
No, si disse Minato,
Non c’è solo Bianco o Nero, a questo mondo.
Non fare l’errore dei secessionisti.
Ma i secessionisti, che quell’errore lo facevano da sempre?
Possibile? Rischiare di uccidere dei bambini che ritenevano essere dei loro?
No.
No.
No.
Era evidente.
Lo aveva notato quella mattina, come molte altre delle mattine precedenti: non c’erano quasi più bianchi, a lezione.
Affannato, sentiva attorno a sé la rabbia degli adulti, che si esprimeva in insulti sempre più violenti, sempre più forti.
Quei figli di puttana! ”
Basta! Non è possibile! ”
Brulicava, fremeva, un qualcosa di viscerale e collettivo. Camminavano, correvano – gli adulti sembravano andati fuori di testa. Il ragazzo di forse vent'anni, che poco prima aveva dichiarato l'ineluttabilità dei fatti ad alta voce, ricomparve dalla porta di una casa con un enorme coltello in mano. Minato lo fussò negli occhi, lui, nascosto nella bolgia generale, mentre avanzava tenendo l'oggetto da cucina impugnato come un'arma, alta, svettante sugli altri – simbolo delle sue intenzioni.
A stento il bamino riusciva più a formular pensiero, circondato com'era dal fermento adirato generale. Persino il professore sembrava stare cercando qualcosa di possibilmente contundente. Erano impazziti, si diceva Minato – era ormai l'unica cosa che riusciva a pensare. Perché, si ripeteva, perché è così semplice che l'odio generi odio?
Schiuse le labbra, gli occhi umidi per la polvere e l'emozione: forse si sarebbe messo a gridare, o più semplicemente a piangere. Ma, qualunque cosa fosse sul punto di fare, non gli riuscì: dietro le sue spalle il mondo esplose.
Di nuovo.
Esplose in un boato greve ed acuto, lo prese per le spalle, lo lanciò lontano – mentre i frammenti delle macerie lo investivano, assieme all'aria bollente.
Fischio.
Buio.
Terra.
Rotolare.
Fischio che scema.
Altra polvere.
Urla.
Ferite.
Tosse.
Urla.
Male.
Tosse.
Male.
Buio.
Urla.
Buio.
Silenzio.


















______________________________________________

(*) Mebuki è il nome che hanno dato alla madre di Sakura nel film di Naruto “Naruto Movie Road to Ninja” – era tanto per darle un nome che facesse finta di appartenere alla serie.
Altra “inversione generazionale” – le sto facendo un po’ “alla va la che la va ben”, non mi riescono proprio bene benissimo, ma si fa quel che si può, i personaggi disponibili sono relativamente pochi – relativamente...



[NDA]
Sapete, ero in autobus.
Stavo per caso ripensando a questa storia. Ogni tanto ci torno sopra per vedere se mi ricordo almeno di cosa stavo scrivendo e perchè e – toh, mi esplosa la trama in testa. Così, di colpo.
Sarà forse perchè sto tipo scrivendo due tesi contemporaneamente, studiando per gli esami che mi mancano, dando ripetizioni, facendo millemila cose, mi servirebbe una giornata di 48 ore e, giustamente, esattamente quando si ha meno tempo per scrivere l’ispirazione compare a bussare alla tua porta e non ti molla finché non la acconenti?

Mi domando poi se qualcuno si ricordi di questa serie / storia xD

Vabè.

Fra l’altro, il lato malinconico – sconvolto del mondo con cui mi sono messa a scrivere questa fic in particolare, rimane. E penso che si veda.
Adesso so quasi pure come fare a farla finire.
Non che questo significhi che io riesca a finirla.

Ebòn.
Saluti a tutti.

Ciao!

Kimmy.





   
 
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