Fallen angel,
Tell me why
What is the reason,
The thorn in your eye?
(Angels, Within Temptation)
L’imponente
portone era spalancato e la luce del
tramonto vi entrava a fiotti.
Catherine sentì una mano invisibile, ma fortissima
serrarle la gola mentre rallentava l’andatura;
fissò la prima cosa che le
capitò sotto gli occhi, ovvero la chioma lussureggiante di
Elizabeth, ritta ed
immobile sull’ultimo gradino come una sentinella, o una Dea
pagana.
Poi, trattenendo il fiato in attesa del colpo finale,
spostò il viso sull’uomo che saliva faticosamente
la scalinata: capelli
indorati dal sole, ma occhi di un verde cupo, Arthur zoppicava e
guardava lei.
Ma lei, lei era fatalmente attratta dal fagotto che
teneva tra le braccia forti: un mantello di feltro, sgualcito e
macchiato di
sangue e fango, quasi indurito dalla sporcizia e una mano grigia
abbandonata
tra le pieghe scure.
- Dio! oh Dio!
Lui si fermò di fronte a lei per un attimo, mentre le
lacrime le inondavano le guance e il sangue colava in un rivolo sottile
dall’angolo della bocca, essendosi morsa la lingua durante la
corsa. Dentro di
lei nacque il desiderio di bestemmiare e di farsi uccidere da Dio nel
medesimo
istante, perché era tremendo
che
Henry fosse morto e che Arthur le avesse portato, memento
mori, il suo corpo.
***
Lo
cercò nei meandri più oscuri e vuoti del
castello,
chiamandolo a gran voce.
- Arthur! Arthur! Arthur! – trovò la stanza che
era
stata preparata per lui solo perché ne vide uscire una fila
impressionanti di
luminari della medicina, che borbottavano e scuotevano la testa con
aria irata.
- Farci trattare così!
Li schivò ed entrò nella stanza. In un angolo un
braciere mandava una luce calda, mentre Arthur si affannava a
raccogliere
oggetti in giro per la camera, zoppicando vistosamente. –
Entrate, milady.
Dietro di lui c’era un letto, ai piedi del letto un
mucchio di stoffa lercia che lei riconobbe subito.
- Catherine, avvicinatevi. Guardatelo – le
sussurrò con
voce morbida, ancora mosso da quella frenesia innaturale. Lei
deglutì e si portò
accanto al letto; allora, il suo cuore prese un ritmo irregolare.
Lui giaceva sotto le coperte di lana, ottenebrato dalla
febbre alta che gli coloriva orribilmente le guance, ma il viso era
sfatto e la
pelle grigia e sudata: gli occhi contornati da pesanti occhiaie, le
palpebre
per metà abbassate.
Arthur l’affiancò e scostò le lenzuola,
rivelando una
ferita sporca e infiammata.
- I medici non possono fare più niente – le disse
a
bassa voce. Lei tremò.
- Voi potreste
aiutarmi, solo se giurate che non mi fermerete, qualunque cosa io
faccia.
- Lo giuro – rispose subito Catherine. Arthur
annuì
gravemente e posò una mano sulla ferita di Henry; Catherine
faticò a trattenere
un conato di vomito: c’era carne gonfia e pus e acqua
giallastra.
- No, no. Guardatemi. Dovete guardarmi, perché guarisca.
Ho bisogno di sentire la Magia che scorre tra noi… - lei
distolse lo sguardo
dagli occhi opachi di Henry (era solo una sua idea, o vi ballava un
bagliore
verde?) e lo rivolse, a malincuore, al Marchese.
- Lord Henry Sidney – scandì lui con voce tonante
– la
Magia può salvarvi. Rivelate dunque, sinceramente, che
credete in questa Magia
che scorre nei nostri due corpi?
- Non può rispondervi – disse Catherine,
osservando il
modo irregolare in cui il suo petto si sollevava.
- Ma lo farà - e
così dicendo Arthur premette la mano contro la ferita: del
sangue gli schizzò
tra le dita ed Henry inspirò violentemente, rivolgendogli
gli occhi stralunati.
Il Marchese di Pembroke ripeté la domanda e lui
annuì.
- Adesso potete udirmi – continuò Arthur
– e mi direte
se volete essere salvato!
- Vi pre… go… - Henry chiuse gli occhi di nuovo.
- Parlate! La vostra vita dipende dalle vostre risposte!
– ruggì l’altro e affondò le
dita nella carne, senza alcuna pietà. Catherine
provò l’impulso di fermarlo, ma era trattenuta in
quella posizione da una forza
incredibile, che le schiacciava le spalle e le appesantiva le gambe.
Si rese conto che non avrebbe potuto far niente per
fermare la pazzia di Arthur.
Henry gemette, il pomo d’Adamo che andava su e giù
nei
singulti, le lacrime gli scorrevano sulle tempie e la schiena si
inarcava, nel
tentativo disperato di sottrarsi a quella lenta tortura. –
Io… voglio… ah!
Arthur l’afferrò per i capelli, rabbioso.
– Parlate! –
tuonò.
- Vi prego, milord… farò tutto quel che volete,
ma non
fatelo soffrire così!
- Taci, Catherine!
- Vi prego, milord. Vi prego! – giunse le mani tremanti
davanti al volto.
Le sembrava ormai chiaro che l’agonia di Henry era
giunta al termine: la sua resistenza era minima. Secondo lei, non
poteva
neppure più comprendere gli ordini e gli improperi
lanciategli da Arthur.
Alla fine, emettendo quello che pareva un sospiro
affranto, lui rantolò: - Sì – e si
afflosciò contro il cuscino.
-
Sapete molto di me, milady?
Catherine negò.
- Allora, sarà meglio che vi racconti la verità,
non una delle solite fuorvianti bugie.
E
continuate a guardarmi. Sono nato nell’anno del Signore
millequarantacinque, di
modo che nel millesessantasei, l’anno in cui giunse Guglielmo
il Conquistatore
avevo venticinque anni… ma, per una serie di eventi a cui
nemmeno una persona
come voi crederebbe, acquisii un potere… - si perse nei
ricordi per un attimo,
poi tornò a sorriderle – Non
c’è più bisogno di tremare,
starà bene. Avete la
mia parola.
Lei si lasciò massaggiare le spalle, ancora scossa da
quanto era appena accaduto.
- Capita spesso di sentirsi deboli dopo uno spreco di
magia – continuò lui.
- Pensavo che l’aveste ucciso.
- Un pensiero logico; ma sta bene, milady. Henry sta
bene.
Si coprì gli occhi con le mani, sentendo ancora le
ginocchia deboli per il terrore.
- Siete un mostro ed un eretico – affermò
meccanicamente. Lui rise allegramente.
Si alzò, poggiandosi ad un bastone intagliato: -
Farò
portare dell’ulmaria per la febbre.
Con la sua andatura irregolare, raggiunse la porta,
prima che lei lo trattenesse.
- Milord?
Arthur si voltò, incuriosito.
Catherine indugiò, temendo di essere troppo indiscreta con
le sue parole.
- Quello che mi avete raccontato era una… fuorviante bugia?
Il Marchese sorrise.
- Milady, queste sono domande assurde, che non dovreste porvi.
- Ma…
- Ascoltate le parole dei giullari, celano più
verità di quanto crediate.
***
La
pergamena
su cui stava scrivendo slittò sotto la penna e
svolazzò in alto.
- Umilmente e affranta vi scrivo, Vostra Santità,
affinché possiate
dispensare il mio amato e buon suddito… dall’ombra
di un omicidio assolutamente
involontario, perpetrato nel nome della giusta dottrina…
dispensarlo da un
orribile duello, ovviamente voluto da un eret e qui si
interrompe la vostra
commovente missiva per il Santo Padre – concluse Wallace,
irrisorio.
Mary arrossì e tentò di strappargli il foglio
dalle mani, cosa peraltro non
impossibile per una donna della sua altezza, ma lui lo nascose sotto il
farsetto. La Regina lo afferrò per la gola con le mani
delicate.
- Vi chiuderò nelle segrete come un volgarissimo criminale,
se tenterete di
andare in Inghilterra!
- Mi minacciate, Vostra Grazia! Mi minacciate! – Wallace rise
crudelmente,
premendosi una mano sul petto, come a simulare un mancamento, ed emise
un
sospiro svenevole.
***
Harry
vergò
le prime parole con tratti incerti e, in una certa misura, reticenti.
- Non posso farlo, milord. Non posso.
Arthur spostò la gamba ferita con una smorfia, per
avvicinarsi a lui.
- Harry… da quanti anni lavorate a corte?
- Non so che risposta vogliate, milord.
Il Marchese intinse la penna nel calamaio, fece asciugare
l’inchiostro
eccedente e gliela passò di nuovo. Non aveva la solita
espressione supponente,
né lo apostrofò con parole crude e insofferenti.
Harry indicò il ginocchio rigido dell’uomo e il
bastone intarsiato con cui
camminava.
- E come farete, quando Wallace giungerà ad affrontarvi?
Arthur sospirò.
- In qualche modo ce la farò.
- Allora, trovate consono quanto ho scritto? Nella giornata
di ieri milord
il Marchese è tornato dalla missione che l’aveva
impegnato; poiché mi è stato
ingiunto di partire con la Regina, mi trovavo nelle scuderie di
Pontefract,
quando mi è stato affidato il cavallo del Marchese.
Ora
egli se
ne va in giro proclamando a gran voce un duello imminente, e sia lui
che la
Regina si mostrano assai dispiaciuti nei confronti del signore di
Pontefract,
che ha visto arrivare in un feretro improvvisato il corpo del fratello.
- Non potevate fare di meglio, Harry. Adesso potete spedirla di
nascosto,
sperando che io o uno dei miei agenti la intercetti prima che raggiunga
Edimburgo – scherzò Arthur.
- Ho una sola domanda, milord!
- Ditemi pure, vi ascolto.
- Pensate di uccidere vostro cugino come se nulla fosse?
Arthur finse di rifletterci. Poi disse, serio: - Farò quello
che Dio comanda.
***
-
Non hai mai fatto richieste in merito alla dote di
nostra madre – osservò Joaquin, spiccio.
Henry sollevò a fatica la testa dal cuscino: era ancora
debilitato dalla febbre.
Lady Eleanor gli rivolse un’occhiata di glaciale
rimprovero e lo stesso fece suo fratello. – Sta’
giù.
- Non ho più sette anni e soprattutto non ho più
la
febbre – osservò Henry, stizzito. I due non gli
prestarono la benché minima
attenzione: Joaquin svolse il minuscolo pacchetto che aveva portato e
lady
Eleanor gli versò un’altra coppa di vino
annacquato.
- Trattala bene – commentò mettendogliela in mano;
la
spilla era grande, le perle e il grande cuore di lapislazzuli che la
decoravano
emettevano un bagliore delicatissimo. Henry ricordava molte occasioni
in cui
aveva potuto ammirarla, appuntata sul petto di sua madre.
- Meravigliosa – soffiò, sfiorandola appena con la
punta
delle dita.
Lady Eleanor scoppiò in una risata argentina: - Quando
Joaquin me la mostrò, credo che avrei potuto praticare un
buco nel legno della
scatola per l’ardore e l’intensità con
cui desideravo che quella spilla fosse
mia. È una fortuna che mi abbia detto che era parte della
vostra eredità –
scosse benevolmente il capo, come se quanto era accaduto non
più di cinque anni
prima facesse parte di un passato tanto remoto che non valeva la pena
rivangarlo.
- Volete che faccia venire qui lady Catherine? –
continuò compita, lisciandosi la gonna marrone.
Henry scosse la testa. – Non sono nemmeno in grado di
star seduto – mormorò – non è
il momento.
***
-
Milady? Milord Henry mi ha incaricato di riferirvi che
si sente molto meglio e desidera godere della vostra compagnia il prima
possibile – Catherine fissò lady Ann, che appariva
sconvolta quanto si sentiva
lei, intimamente. Mise da parte i dolcetti che stava piluccando
nell’attesa che
Sua Maestà uscisse dalla stanza in cui si era rinchiusa
assieme ad Arthur, con
gli occhi scuri che lampeggiavano di stizza.
- Davvero? – sussurrò evitando il suo sguardo.
- Sì, milady. L’ho trovato molto ansioso
– disse l’altra,
in tono confidenziale.
- Mi volevate? – bussò piano sullo stipite. Henry,
seduto allo scrittoio, le rivolse un sorriso abbacinante.
- Certo che vi volevo – rispose con voce suadente,
battendo le nocche contro una scatolina di legno intagliato che stava
tra loro.
Catherine raccolse un ricciolo scuro, che le era piovuto
sulla tempia, e si sedette davanti a lui, abbastanza discosta da non
poter
essere toccata con facilità. Lui sembrò
leggermente incupito.
- Perché mi volevate, milord?
- Per consegnarvi una cosa – Catherine sgranò gli
occhi
pallidi, le guance improvvisamente rosate.
Con un “clic” la serratura brunita della scatola
scattò
e il coperchio si sollevò; Henry la prese con due dita per
lato e la sollevò
completamente.
Lei trattenne bruscamente il fiato.
- Milord… io… non so cosa dire.
- Non è necessario che diciate nulla: poche cose al
mondo sono belle e delicate come questa spilla –
corrugò la fronte pallida,
eppure non smise di sorridere – o come voi, milady.
***
-
Gli amanti si donano anime e pegni d’amore. E voi,
Arthur, portate guerra e oro.
Arthur chinò la testa, incassando quella stoccata in
ammirevole silenzio.
Elizabeth rimase con lui, comunque, ad osservare gli
ultimi bagliori sanguigni del tramonto.