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Autore: HappyCloud    17/08/2012    5 recensioni
Cecilia Molinari ha ventun anni, frequenta l'università a Verona e vive in simbiosi con un pesce rosso, l'unico componente della sua famiglia che la comprenda.
Matteo Maestri ha ventidue anni, frequenta l'università a Verona tra una partitella a calcio e un'altra e trascorre la propria esistenza cercando di sfuggire dalle grinfie di Gisella e Melissa.
Non si conoscono, nonostante s'incrocino quasi ogni giorno nei corridoi della Facoltà di Lettere. Ma se ci si mettono una festa in maschera, la strana proprietaria di un ancor più strano negozio e un orribile paio di scarpe, nessuno è al sicuro.
Una rivisitazione in chiave moderna e stravagante della fiaba di Cenerentola.
(Storia che avrebbe voluto partecipare al contest "Un mondo di fiabe" indetto da IoNarrante, ma che, come al solito, è arrivata in ritardo).
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo V.
 
- Allora?
Niccolò era impaziente. Quella tale Gisella l’aveva fatto scapicollare al Firefly e ora se ne stava zitta a fissare con aria critica chiunque varcasse la soglia del locale. Proprio lei, che indossava un miniabito inguinale leopardato e degli stivali stile sadomaso: Mannino pensava che fosse perfetta… per fare la domatrice di elefanti al circo Orfei.
La ragazza distolse lo sguardo dall’entrata e lo posò su di lui, lisciando con la mano la striscia di pelle della fronte poco sopra l’attaccatura del naso, dove si era formata una piccola ruga d’espressione dovuta a paralisi da buongusto. Tutti quei plebei l’avrebbero costretta a ricorrere al botulino entro i venticinque, se non si fossero decisi a vestirsi come Dio – Giorgio Armani – comandava.
- Perdona la distrazione, – si affrettò a dire, frugando nella borsa alla ricerca di uno specchietto, – il mio compito di fashion police è terribilmente arduo. Se solo la gente spendesse di più in abiti: tirate fuori i soldi, sfigati!
 - Veniamo al dunque, – tagliò corto lui. – Sono venuto per parlare di Cecilia, non per discutere delle ultime tendenze, né di moda né del PIL.
PIL? Doveva essere qualche strano acronimo anglofono, di quelli che tanto si usavano; qualcosa tipo LOL, WTF, BTW, FYI o AKA. Appena arrivata a casa, la Ferris si promise di guardare su Internet e contribuire alla diffusione di questo PIL.
- Prendete qualcosa?
Una cameriera alta e slanciata con una lunga coda di cavallo rosso fuoco li interruppe, preparandosi ad appuntare le eventuali ordinazioni su un taccuino elettronico. Niccolò la guardò interessato, in viso l’espressione da predatore pronto a scattare che assumeva ogni volta si trovasse in presenza di qualche bell’esemplare femminile.
- Per me una Coca, – le  ammiccò. – Oggi sono imbottito di medicine perché mi hanno quasi distrutto una tibia: niente alcool.
Gisella roteò gli occhi e osservò come la finta aria da cucciolo ferito di Mannino stesse facendo incredibilmente effetto sulla povera e stupida sprovveduta ragazzina da cinque euro all’ora. Aveva sentito tanto parlare di lui, ma non aveva mai avuto il privilegio di vederlo all’opera; aveva, sì, il classico fascino mediterraneo, con la mascella pronunciata e profondi occhi neri, però gran parte del merito del suo successo era attribuibile alla impenitente faccia tosta e all’immenso ego. Tutto gli era dovuto e le ragazze non erano che una minima frazione di quel tutto.
- Io prendo un mojito, – Gisella s’intrufolò nel vomitevole contatto visivo tra i due, – così magari, se sono fortunata, riesco a dimenticare l’orrenda uniforme sintetica che indossi, cara.
Il sorriso scemò rapidamente dal volto della cameriera che prese nota delle ordinazioni e si spostò ad un tavolo accanto. Niccolò guardò contrariato Gisella, rea di avergli fatto perdere un’occasione d’oro, e tornò a concentrarsi sulla questione in sospeso.
-  Dicevamo di Cecilia…
- Hai appena flirtato come un animale in calore con quella tizia e ora vuoi parlare del tuo agnellino? – lo schernì di rimando la Ferris.
- Non sono affari tuoi. O mi dici come hai intenzione di farmi tornare con Cecilia, oppure me ne vado, – ringhiò alterato. Lo snodo cruciale della questione era che in verità nemmeno lui aveva ben chiaro il motivo per cui tanto gli interessasse la sua ex. Era bella, simpatica e nemmeno troppo rompipalle; lo faceva uscire con gli amici, non si era mai dimostrata troppo gelosa ed era pur sempre un bel giochino da mostrare agli amici. Ripensandoci, doveva essere per via di quel volto angelico, da bambina, da innocente. Non era un caso se persino quella gallina patentata di Gisella amava chiamarla agnellino. Sebbene potesse già annoverarla da anni nel lungo elenco di conquiste con cui era arrivato in quarta base, non gli sarebbe dispiaciuto tornare sui suoi passi, infangare di nuovo quel candore opprimente che traspariva da quegli occhi azzurri. Era passato troppo tempo dall’ultima volta che l’aveva fatto e, da quando l’aveva vista alla festa di Franzoni, gli era scattata l’improvvisa voglia di un ritorno ai vecchi tempi.
- Sarà un danettes, ovviamente, – gli spiegò tranquilla e saccente Gisella. Niccolò alzò un sopracciglio, confuso, domandandosi che diavolo c’entrassero dei budini nella conquista della Molinari. – Nessuno fa niente per niente.
Do ut des, si rispose da solo, quando Gisella si spiegò meglio. Era sconcertato dal livello di stupidità che quella testa ossigenata poteva raggiungere. Decise di rendersi di compassione e non la corresse, temendo di dover affrontare una lunga e complicata discussione sul latino di cui aveva solo una vaga reminiscenza, dopo la ormai piuttosto lontana maturità.
- Cosa dovrei fare? – s’informò lui.
La ragazza gli sorrise affabile.
- Solo una piccola cosuccia: dire a tutti che tu e lei state insieme da un bel po’.
Mannino poggiò i gomiti sul tavolo e incrociò le dita delle proprie mani tra di loro, scrutando Gisella pensieroso: era davvero una piccola cosuccia quella che gli veniva chiesta.
- Che ci guadagneresti, tu?
Questo era ciò che gli interessava di più: cosa poteva importare ad una sconosciuta come Gisella di accoppiarlo con Cecilia?
- Non hai visto che la tua amata ha trascorso l’intera festa di Fil con una persona in particolare? – ribatté l’altra, mentre la cameriera portava loro due bicchieri colmi, senza soffermarsi né sull’avvenenza di lui, né sull’arroganza acida di lei. Svuotò veloce il vassoio e levò i tacchi.
- Maestri? – tentò lui, ricordando di aver sorpreso Cecilia insieme a Matteo.
- Esatto, – sorrise compiaciuta la Ferris. – E pare che si siano trovati parecchio bene. Sfortunatamente per loro, lui è mio e non starò con le mani in mano ad aspettare che una sciatta biondina me lo soffi da sotto il naso.
- Come pensi di riuscire a tenerli lontani?
- Devi essere stato baciato dalla sorte, Mannino caro, – ridacchiò Gisella, preparandosi al grande momento di trionfo dettato dal suo piano geniale. – Sono già intervenuta e ho fatto in modo che Matteo creda che tu e la Molinari stiate insieme e che quella piccola parentesi di mercoledì altro non sia che un gioco vostro per alimentare il fuoco della passione. Penso proprio che ci sia cascato.
Niccolò cominciò piano piano a riordinare i pezzi di quel pomeriggio al campetto, tra Matteo che dispensava calci a destra e manca, neanche fosse un ninja, e quella strana ed inusuale freddezza tra loro. Non erano mai stati grandi amici, ma c’era una bella differenza fra avere rapporti civili e tentare di rompere una gamba a qualcuno!
- Questo te lo posso assicurare; sai come ho fatto a quasi spaccarmi la tibia? – Gisella non capì come la cosa potesse riguardarla. – Maestri mi ha dato un calcio in allenamento. Non avevo capito il perché fino ad ora, ma immagino che dopotutto non sia altro che un piccolo danno collaterale.
- Siamo d’accordo, quindi? – sintetizzò. – Tu ci guadagni Cecilia, io ci guadagno Matteo. Direi che è il massimo del ricavo con il minimo dello sforzo.
La ragazza prese il suo mojito e lo sollevò in aria, in attesa del brindisi. Niccolò si limitò a far tintinnare delicatamente il proprio bicchiere contro quello di Gisella, siglando tacitamente un’alleanza che sapeva di complotto.
 
Ignaro di quanto avvenuto la sera precedente in un famoso bar del centro, il giorno del fatidico appuntamento tra Matteo Maestri e Lisa Zanin giunse indisturbato.
E lei era agitata, aveva dormito male e mangiato poco. Non immaginava fosse tanto stressante la fase di preparazione… soprattutto dal momento che la stava vivendo da spettatrice. Per Cecilia, fare l’amica in quel momento era la cosa più difficile che le fosse mai capitata da quando conosceva Lisa; doveva cercare di mantenere l’obiettività, pur sapendo di non avere alcuna voglia di farlo. Doveva dirle che il rosso le stava male, che l’eye-liner le appesantiva lo sguardo, che non era il caso di indossare degli stivaletti stile militare… avrebbe dovuto. Eppure le parole erano ancora lì, incastrate in gola, intrappolate tra il desiderio di uscire e quello di scivolare giù e morire.
- Mi stai ascoltando?
Cecilia abbassò il giornale che stava leggendo e alzò lo sguardo sull’amica. Si stava dannando nel tentativo di evitarla, di non sentirla ripetere per la centesima volta quanto fosse strano l’invito di Maestri. Perché lei sapeva perfettamente il motivo di quella stranezza, ed era così ingiusto non poterlo condividere!
- Certo che ti ascolto, – mentì.         
Lisa la guardò perplessa; che diavolo le prendeva? L’aveva spronata in ogni modo per farla uscire con qualcuno, erano state sul punto di litigare decine di volte appunto per questo, e ora che aveva accettato di farlo con un ragazzo gentile, simpatico e carino, lei non sembrava approvare. E la cosa peggiore era che non diceva nulla, non faceva commenti o dava consigli. Si limitava a stare come un vegetale sul letto, a leggere vecchie riviste di sua madre.
- Verde o rosso? – le chiese, mostrandole due vestiti simili.
Verde. Era la risposta d’amica che avrebbe dato normalmente, quella disinteressata, onesta.
Rosso. Era la risposta razionale che avrebbe dato quel giorno, quella interessata eccome, non del tutto sincera.
Lisa era la sua migliore amica e il suo più grande ostacolo. Da una parte ci teneva davvero ad aiutarla a prepararsi per l’appuntamento, perché la Zanin lo meritava eccome: era sveglia, a suo modo simpatica, generosa e l’aveva sempre capita con uno sguardo, senza bisogno di parole. Però l’uscita era con Matteo, l’unico ragazzo che dopo tanto tempo avesse permesso a Cecilia di provare un interesse autentico verso il genere maschile che andasse ben oltre il semplice aspetto estetico.
I due colori le stavano davanti, impressi su quei due abitini che Lisa teneva tra la mani. Verde e rosso, come un semaforo; il primo per zittire la vocina diabolica nella testa e dare il via libera all’appuntamento, il secondo per bloccarlo, mandare al diavolo ogni buona intenzione e commettere un’infrazione al codice dell’amicizia.
Cecilia prese un profondo respiro e alla fine decise da che parte stare.
- Verde.
 
Matteo indossò per la decima volta una maglietta pulita e si guardò allo specchio; no, non lo convinceva nemmeno questa. Non gli stava bene nulla addosso quella sera. Se la tolse, gettandola con stizza sul pavimento e passandosi una mano nei capelli ancora bagnati.
- L’ho appena stirata, quella, – Adriana gli rifilò un’occhiataccia attraverso lo specchio. Le parole non dette delle donne: raccoglila subito e piegala decentemente e forse fingerò di non aver appena assistito alla distruzione del mio lavoro.
Matteo la prese da terra e seguì le linee tracciate dalla madre col ferro rovente per cercare di sistemarla.
- Contenta? – sbuffò, riponendola nell’armadio.
- Lo sarei se lo facessi anche con le altre ventimila che hai ammassato sul letto. E guai a te se mi dici che lo farai domani: questo domani non s’è mai visto, – lo ammonì.
- Prima devo trovare qualcosa da mettermi…
- Oppure potresti uscire così, tesoro, – ridacchiò Adriana, riferendosi al torso nudo del figlio. – Sono sicura che Cecilia apprezzerebbe.
Il lapsus le uscì sbadatamente dalla bocca, mentre cercava di ricordare dal racconto di Matteo i nomi delle ragazze coinvolte. E, a giudicare dalla faccia tesa di lui, doveva aver sbagliato.
- Lisa, mamma, – la corresse lui.
- Scusa! – si difese sua madre. – Sarà che forse questa cosa è proprio una stupidaggine. Mi dispiace dirtelo, ma ti sei comportato come un bambino. Invece di vendicarti, non potevi semplicemente parlare a quattrocchi con Cecilia?
Ancora con quel nome? Maestri non volevo più sentirlo pronunciare da nessuno, figurarsi da sua madre. Sapeva di aver commesso un errore spiegandole la situazione, ma nel concitamento del post allenamento della sera precedente, aveva avuto un disperato bisogno di parlarne e purtroppo Adriana era parsa l’unica persona interessata ad ascoltarlo a disposizione. E ora, naturalmente, glielo stava rinfacciando.
- So cosa sto facendo, – ostentò una sicurezza fittizia, perché in quel momento non si poteva dire certo di nulla. Di Lisa. Dell’uscita. Del calcio. Di Franzoni. Di Mannino. Di Cecilia… però decise di aver fatto bene, chiedendo alla Zanin di uscire. Ma se anche così non fosse stato? Basta fare sempre le scelte giuste, basta fare sempre il bravo ragazzo, basta seguire sempre la retta via come un bambino troppo diligente. Aveva tutto il diritto di sbagliare.
- Come credi, tesoro. Però almeno mettiti una camicia; è pur sempre un appuntamento! – la donna gli diede le spalle e cominciò a frugare nel suo armadio, traendone una camicia azzurra che s’intonava sui calzoni beige che lui già indossava. Poi, mentre usciva dalla stanza, mormorò sottovoce: – Anche se con la persona sbagliata.
Non si voltò più nella direzione del figlio, ma lo sentì sbuffare per quell’ennesima frecciatina antipatica. Matteo la osservò lasciare la camera: proprio non ce la faceva a tenere la bocca chiusa.
Si allacciò i bottoni e cacciò l’orlo inferiore della camicia nei pantaloni. Di nuovo lo specchio gli restituì un’immagine insoddisfacente di sé stesso. Matteo fissò per un attimo le sue labbra riflesse, tese e mordicchiate: lo sapeva, non era colpa dell’abbigliamento.
 
- Quel braccialetto ha un rumore odioso. Pensi di rimorchiare con quel coso?
Carlo si stravaccò sulla poltroncina del Firefly accanto a Gianluca, un bicchiere mezzo pieno di un liquido ambrato e cubetti di ghiaccio tra le mani. Lisa, la destinataria della lamentela, non si lasciò scappare l’opportunità di  irritarlo ulteriormente, agitando in aria il polso per far cozzare tra di loro i ciondoli del bangle dorato incriminato.
- Purtroppo, Rastrelli, ho chiesto a tua madre il fischietto che richiama gli uccelli, ma mi ha detto che glielo avevi già domandato tu, – rispose piccata.
Prima che il ragazzo potesse replicare, Cecilia s’interpose nel battibecco, già intuendo come la situazione sarebbe rapidamente evoluta in un crescendo di insulti e trivialità. Non aveva abbastanza energie per affrontare anche una discussione tra quei due, era sufficiente il pensiero di veder arrivare un Maestri in ghingheri e osservarlo uscire con un’altra al suo fianco. Qualcuno avrebbe definito masochista la sua risposta affermativa alla richiesta di Lisa di trovarsi tutti al Firefly – territorio pseudo neutrale, dal momento che Matteo aveva la serata libera – , invece che aspettare che lui la passasse a prendere a casa, da perfetto cavaliere. Masochismo e forse un briciolo di volontà di controllarli, per assicurarsi – no, per sperare – che la serata fosse un completo fiasco. Cielo, che tristezza: stava per vincere il premio Patetica dell’anno. O del secolo. Probabilmente era questo il significato di toccare il fondo: tentare di boicottare l’appuntamento della propria migliore amica con il ragazzo perfetto. Per se stessa, non per l’amica.
- Devo bere qualcosa, – disse ad alta voce, alzandosi di scatto dalla sedia come un soldatino efficiente e portandosi vicino al bancone. Non aveva intenzione di esagerare, ma solo di sciogliere un po’ di tensione dovuta a tutta la frenetica preparazione del pomeriggio e all’attuale snervante attesa di Matteo.
- Posso offrirti qualcosa? – Cecilia sollevò la testa verso il barman, un debole sorriso sul viso, più per educazione che per reale voglia di farlo. Ma lui non la stava guardando; al contrario, sembrava completamente preso nell’operazione di pestare delle fettine di lime in un bicchiere contenente zucchero. – Bevi ancora Long Island, pesciolino?
Niccolò Mannino e il suo profumo la sorpresero e la stordirono, più infestanti di un’erbaccia persistente in un giardino perfetto. Rimase interdetta di fronte a tanta furbizia e audacia; utilizzare i loro trascorsi per lusingarla coi ricordi era stato un gesto scaltro, ma non si poteva dire altrettanto del soprannome che lui aveva coniato per lei anni prima e che la biondina non escludeva appartenesse anche ad altre frequentatrici delle mutande di Niccolò.
- Sono più da Bloody Mary, ora, – rispose di getto con il primo nome di cocktail che riuscì a leggere su listino affisso alla parete. Dimostrare di sapere ancora ciò che lei amava bere un tempo non bastava a farle dimenticare le ferite e il silenzio di anni. Ma lui non si arrese e si rivolse direttamente al barista.
- Allora un Bloody Mary e un Long Island, – gli ordinò, insistendo per pagarli entrambi. Cecilia si oppose fermamente, anche perché concederglielo avrebbe significato dover trascorrere altri minuti con lui, ma Mannino non sentì ragioni e lei si dovette arrendere.
- Beh, grazie allora.
Si portò alla bocca il bicchiere che lui le stava porgendo e assaggiò il gusto intenso della vodka, mischiata con succo di pomodoro e limone: l’insieme era forte e speziato, tanto più con quella specie d’insalata che il barista le aveva rifilato dentro. Cecilia si trattenne dal fare un’espressione disgustata, ma il retrogusto acidulo del cocktail le impedì di mascherarla del tutto. Mannino sorrise sotto i baffi, soddisfatto, e pregustò l’aroma trionfale della vittoria.
- Bleah, questo Long Island è troppo dolce… – mentì, riponendo il bicchiere sul bancone. – Ti spiace regalarmi un goccio di Bloody Mary?  
Lei gli allungò il cocktail e lui spinse verso di lei il proprio, che lo sorseggiò rapidamente, giusto per togliersi quel saporaccio dal palato.
Adorava la sua innocenza, il suo pensare sempre il meglio della gente. Era pur sempre un agnellino, il suo agnellino e, volente o nolente, Cecilia doveva capire di aver bisogno di un leone come lui per non soccombere in questo mondo. Lui doveva proteggerla dai tipi come lui.
- Grazie per avermi offerto un drink. Buona serata, Niccolò.
Cecilia girò su se stessa alla cieca con il proprio bicchiere in mano e per poco non si scontrò con la figura imponente di Matteo Maestri. Lui inchiodò di colpo, prima per schivare gli eventuali schizzi di liquido provenienti dal bicchiere, poi per schivare le eventuali e sfuggenti occhiate provenienti dalla ragazza che gli stava davanti. Si studiarono reciprocamente, lei quasi intimorita dallo sguardo turbato di lui, che si ostinava a guardarle oltre le spalle.
La biondina fece per salutarlo, o più realisticamente per bofonchiare un goffo ciao, quando Niccolò si alzò dallo sgabello su cui sedeva e fece capolino da dietro la sua testa e la precedette.
- Matteo, buonasera. Non mi avrai mica seguito per finire quello che non hai iniziato ieri, vero?
Maestri digrignò i denti e strinse i pugni, le braccia distese lungo i fianchi. Non riusciva a pensare ad altro che alle almeno venti possibilità di fare male a quell’imbecille: la bottiglia di rum che Davide, un suo collega, stava facendo roteare in aria avrebbe potuto casualmente abbattersi su quella testa di cazzo, oppure una delle cannucce lunghe avrebbe potuto, altrettanto accidentalmente, avvolgersi attorno al suo collo e stringersi, stringersi, stringersi… ma anche un bel calcio a terminare l’opera incompiuta durante l’allenamento sarebbe andata più che bene. Tutto, pur di farlo tacere e togliergli quell’espressione di sfida dalla faccia.
Invece, si costrinse a sorridere, anche quando Mannino alzò il tiro e sfruttò il passaggio di un gruppo di ragazzi accanto a loro per appoggiare delicato una mano sul fianco di Cecilia e farla arretrare di una decina di centimetri. Senza schiodare quelle luride dita dai suoi jeans.
Si concesse un attimo di distrazione prima di rispondere, facendo un cenno a Davide che gli porse prontamente una birra in bottiglia.
- Seguire te? Per quale motivo? Ho un appuntamento con una ragazza. E ci lavoro qui.
- Sentito, Ceci? – ridacchiò Niccolò, torcendo il collo per soffiare le parole direttamente nell’orecchio della ragazza. Lei, in risposta, si ritrasse infastidita e continuò a guardare il volto turbato di Matteo.
- Lo sapevo già. È una mia amica, quella ragazza.
Abbassò gli occhi, perché ricordare quel particolare agli altri e soprattutto a se stessa non era mai cosa facile. E la presenza del suo ex, così vicina e a lei così tediosamente non indifferente, non aiutava. Ma non cambiava la realtà: Lisa e Matteo. Nessun Cecilia e Matteo, sebbene le sembrassero più armonici insieme.
- Davvero? Bene. Stasera tutti ottengono ciò che vogliono: lui con la tua amica, io con te... – sorrise audace Niccolò, ora affondando il naso nei capelli della Molinari.
Respira, Matteo. Pensa ad un campo di fiori – piante carnivore che gli staccano la testa –; un cielo stellato – un asteroide che lo colpisce in testa –; un mare azzurro sconfinato – e uno squalo che lo riduce in poltiglia –… no, non funziona.
Mannino sapeva quali fossero i tasti dolenti e non solo li toccava in continuazione, ma addirittura li pestava a piè pari, li martellava con quanto di più pesante ed appuntito potesse ferire l’altro ragazzo. Il tutto condito con un sorriso spavaldo che suggeriva solo di essere colpito.
Nemmeno i dvd di yoga per principianti di sua madre sarebbero riusciti a tenere calmo Matteo.
 
- Dove cavolo è finita Cecilia? – Carlo cominciò a guardarsi intorno alla ricerca di una testa bionda in mezzo al bar affollato. – È un’eternità che la stiamo aspettando. Mi sembra di essere… aspetta, chi era? Quella che tesseva la tela col fuso di giorno e la disfaceva di notte aspettando il marito, finché tre fate e dei maiali la pungevano sempre con il fuso e arrivava il principe a salvarla e la sposava. Un attimo, ma non era già sposata?
Gianluca e Lisa si guardarono, increduli che la mente bacata di Rastrelli fosse riuscita ad elaborare una confusione tale da mischiare l’epica con Perrault. Non che lui ne conoscesse la differenza, naturalmente.
- Certo, Carlo. Era l’adultera de La bella addormentata nell’Odissea, non ricordi? – lo prese in giro Lamberti.
- Sapete che nella versione originale lei, Zellandine, è una principessa e lui, Troilo, un baldo giovane messo alla prova dal re prima di concedergli la mano della figlia? Quando lui parte per un viaggio, lei cade in un sogno incantato, durante il quale Troilo la ingravida e…
Ed ecco la Zanin partire in quarta con uno dei milleuno aneddoti da enciclopedia online.
- Mi è già venuto il vomito, basta cos... – la interruppe Gianluca, zittito improvvisamente dalla visione di un inedito terzetto di persone immerso in una chiacchierata nei pressi del bancone. Cecilia, Matteo Maestri e l’Innominabile parevano tre estranei presi a caso tra una folla e messi l’uno accanto all’altro ad intrattenersi a vicenda; a giudicare dalle loro facce, però, nessuno sembrava particolarmente contento di trovarsi in quella situazione. Doveva forse intervenire? Ricordava ancora quanto arduo fosse stato fare guarire l’amica dall’amore acuto per Mannino; credevano che non ne sarebbe mai uscita, che il ricordo e le ferite sarebbero rimaste sempre in profondità, senza riuscire a rimarginarsi, guarire e infine sparire, ma un bel giorno era stata lei stessa a mettere una grossa croce scarlatta sul caso Mannino-Orpella, a rimettere insieme i cocci e a ricominciare a sorridere. E ora quel rifiuto della società aveva la faccia tosta di tentare di gettarla di nuovo nel tunnel, con i suoi modi ammalianti e plastificati da perfetto burattinaio qual era.
- Arrivo subito. – Lamberti decise di disinnescare quella gigantesca bomba ad orologeria in atto a qualche metro da lui, prima che succedesse l’irreparabile.
Percorse veloce la breve distanza che lo separava da Cecilia e dai due ragazzi e avvertì subito con chiarezza l’aria viziata di acredine che regnava in quell’angolo del Firefly; sorrisi tirati, tensione palpabile, sguardi taglienti come coltelli affilati.
- Ehi, ragazzi, che ci fate tutti qui?
Era chiaro che Gianluca avrebbe dovuto lavorare meglio sulle proprie capacità attoriali, perché nessuno – proprio nessuno – credette che lui fosse da quelle parti per caso. L’amica, però, gli regalò una smorfia di gratitudine, mentre gli altri due erano troppo impegnati a guardarsi in cagnesco per badare troppo al nuovo arrivato.
- Facevamo quattro chiacchiere… – rispose infine Cecilia, cercando di mantenersi sul più vago possibile.
- E allora perché non continuare al tavolo? – Il gruppetto si voltò di scatto verso la voce acuta di Lisa, spuntata dietro le spalle di Lamberti con la proposta più balzana e malaugurata che un essere dotato di buon senso avrebbe mai potuto avanzare. – Voglio dire, perché stare qui in piedi, quando possiamo discorrere amabilmente con i deretani ben assestati su una di queste graziose poltroncine?
Detto ciò, prese a braccetto una pietrificata Cecilia – la cui mascella sembrava non voler più ritornare nella posizione naturale – ed indicò con il braccio ai ragazzi la via più breve per raggiungere Carlo al loro solito tavolino. Matteo, Niccolò e Gianluca esitarono qualche istante, nella vana ricerca di un pretesto per defilarsi dalla nefasta piega della serata, ma di fronte alla silenziosa, ma ugualmente temibile, insistenza di Lisa, non poterono che abbandonare momentaneamente gli istinti bellici, abbassare lo sguardo e sedersi.
- Mi ringrazierai dopo, – sussurrò la Zanin all’orecchio di Cecilia. – E no, non mi scoccia usare parte del tempo destinato al mio appuntamento a salvare la mia migliore amica dalle grinfie di un ex fidanzato che sembra più arrapato di un avvoltoio in calore.
Ringraziarla? E di cosa, di preciso? Avrebbe preferito un catetere in corpo o due dita negli occhi, piuttosto che raccogliere in un angolo di un locale un gruppo di persone con nulla in comune, se non la voglia di azzuffarsi.
La biondina si lasciò trascinare come un fantoccio verso il tavolo, dove tutti i ragazzi si erano già sistemati, a debita distanza l’uno dall’altro. C’erano infatti entrambe le sedie libere a separare Maestri da Mannino, ma non appena Lisa si accorse di quanto vicino potessero finire l’avvoltoio e l’agnellino, decise d’intervenire, rivoluzionando i posti a sedere. Relegò l’amica sul fondo della panchina poggiata al muro, incastrandola tra Rastrelli e lo stesso Matteo.
Sei persone attorno allo stesso tavolo e il silenzio assoluto. Una vecchia canzone di Ligabue di sottofondo, a coprire il rumore di dita tamburellate sul vetro del bicchiere di un Bloody Mary, gambe tremanti e labbra torturate.
- Ehm… è mio cugino, quello? – Carlo si alzò così velocemente da non lasciare il tempo agli altri di digerire l’informazione. Bisognava ammetterlo: per una volta tanto, Rastrelli si era dimostrato abbastanza veloce da defilarsi da una situazione scomoda. E senza inventare avvistamenti UFO o il fantasma di un bisnonno… perché era già successo.
- Quindi, di che parlavate? – Lisa fissò negli occhi Mannino, attraverso le lenti degli occhiali, la cui montatura sembrava conferirle un aspetto ancora più arcigno e severo di quanto la rigidezza dei suoi lineamenti non suggerisse.
Il ragazzo sorrise affabile, con il suo solito charme da predatore incallito.
- Del più e del meno. Immagino sia tu la fortunata che stasera ha un appuntamento con il nostro caro Matteo. Ceci mi stava giusto accennando qualcosa, vero pesciolino?
La biondina gli concesse solo un lieve assenso con il capo, poi ritornò a piegare la testa verso il basso e a guardare il ghiaccio sciogliersi lentamente nel suo cocktail. Non aveva né la forza né la voglia di opporsi a lui, ai suoi nomignoli così fuori tempo e fuori luogo. Che diavolo le era saltato in mente di uscire? Van Gogh sarebbe stato più che lieto di farle compagnia, con il suo mutismo rassicurante. Magari poteva utilizzarlo come scusa per tornare a casa… scusate, ho dimenticato di dargli da mangiare. Oppure, il mio pesce soffre di solitudine e lo psicologo vuole che rimanga con lui la sera. Perfetto, le sue scuse cominciavano ad essere più pietose di quelle di Carlo, ma per sfortuna lei non aveva la sua stessa faccia tosta.
- Già, – rispose infine la Zanin, – sono io il suo appuntamento.
Cecilia non resistette un attimo di più, scattando in piedi così celermente da incappare nel bordo del tavolo, che vibrò per qualche secondo. Proprio quando pensava di essere riuscita a salvare capre e cavoli – nello specifico, cocktail e una punta di dignità – la sua borsa urtò il Bloody Mary, che si riversò inesorabilmente sulla camicia di Matteo.
- Cazzo! – all’interessato sfuggì un’imprecazione.
- Oh, scusa, mi dispiace, sono davvero un’imbranata! – si scusò subito lei, senza sapere dove mettere le mani per aiutarlo.
Nonostante lo scatto tempestivo di Matteo, la macchia rosso sangue svettava nel mezzo del suo petto e quel pezzo di sedano incastrato su un bottone era la ciliegina sulla torta delle beffe.
- Lo accompagni tu in bagno? – chiese Cecilia a Lisa, mentre Niccolò ridacchiava dell’accaduto.
La Zanin rifletté qualche istante, prima di risponderle; se lei e Maestri fossero andati in bagno, era matematico che quel porco di Mannino avrebbe avuto campo libero e avrebbe fatto di tutto per portare Cecilia a casa con sé. C’era pur sempre Gianluca, che era ancora seduto con loro, ma non era una protezione adeguata e sufficiente; un piatto di patatine fritte davanti ai suoi occhi e avrebbero potuto persino asportargli un rene senza che lui se ne accorgesse. No, non poteva andare in bagno.
- Perché non ci vai tu? – Cecilia e Matteo rimasero entrambi sorpresi da quella decisione; in cuor loro, nessuno dei due aveva pensato neppure per un secondo che la ragazza avrebbe rifiutato l’occasione di trovarsi chiusa in un bagno con il suo appuntamento. – Sei stata tu a sporcarlo, mica io! – rincarò la dose.
Ci pensò Maestri a cercare di stemperare l’imbarazzo.
- Non è necessario, faccio da solo.
- Non mi sembra giusto, ho combinato io il casino ed io ti aiuterò a sistemarlo.
Sul momento le era parsa una buona occasione per parlargli in privato qualche minuto, anche se davvero non aveva la più pallida idea di come poter chiarire il malinteso maturato alla festa di Franzoni, senza rovinare l’uscita di Lisa. Ciò che la spaventava e la elettrizzava allo stesso tempo era la reazione che avrebbe avuto Matteo: avrebbe mandato all’aria il suo appuntamento e l’avrebbe baciata in bagno seduta stante o avrebbe semplicemente continuato come previsto? A prescindere da questo, comunque, la mossa di Cecilia rimaneva comunque una pugnalata alle spalle di Lisa e forse le conveniva rimanere in silenzio a rodersi il fegato e a rovinarsi le unghie con i denti.
Il bagno era pieno, neanche avessero allungato i cocktail con del diuretico. Aspettarono una trentina di secondi, ma la fila sembrava non muoversi di un solo centimetro, perciò Matteo – spazientito e a disagio, così vicino a lei – le indicò lo spogliatoio dei baristi, una stanzetta con la targhetta Privé, proprio accanto al bagno. Lo seguì con lo sguardo, mentre accendeva la luce e arrivava fino in fondo alla fila di armadietti che occupavano una parete. C’era il suo nome sopra, scritto con una calligrafia femminile, tondeggiante, e accanto un piccolo cuoricino rosso. Continuarono a non parlarsi anche quando lui girò la piccola chiave nella serratura dell’armadietto e ne trasse una maglietta nera uguale a quella di tutti i suoi colleghi, la stampa del logo del Firefly davanti e MATTEO in stampatello sul retro. 
- Problema risolto, – disse infine, allargando le braccia. Cecilia tirò un sospiro di sollievo, quel silenzio la stava uccidendo. – Mi metto questa, non sarà il massimo dell’eleganza, ma al momento non ho altro.
- Potrei provare a togliere la macchia e asciugarla… – propose lei, avvicinandosi cautamente al ragazzo, ma lui la interruppe quasi subito.
- Non ce n’è bisogno. Sono certo che Lisa non ci baderà troppo, – esclamò rigido. Cominciò rapido a sbottonarsi la camicia sporca, più in fretta che poteva. Lo metteva a disagio stare da solo nella stessa stanza con lei, gli mancava l’aria, come quella volta appena tornato da casa di Filippo, dopo aver passato la serata con lei. Forse ora, però, c’era altro: la consapevolezza di essere stato usato, preso in giro e canzonato aggravava la situazione. La sola presenza di lei lo faceva impazzire, da ogni punto di vista; non era così immaturo – anche se sul suo orgoglio ciò pesava come un macigno – da non sapere e riconoscere di essere soggetto a certe reazioni in compagnia di Cecilia. Non gli era indifferente ed era la cosa che più lo infastidiva: nonostante tutto, c’era una parte, purtroppo non solo anatomica, che lei era in grado di risvegliare, con quel visino angelico e i suoi modi pacati. Ma era anche arrabbiato e stava facendo di tutto per rimanere aggrappato a quel lembo di amor proprio che gli impediva di riversarle addosso la frustrazione e l’ira causate dai suoi giochetti con Mannino.
Si tolse la camicia e la gettò con rabbia nell’armadietto, che si chiuse con un rumore stridulo di ferraglia. Indossò la maglia della divisa del bar, ignorando il rossore che colorava le guance di Cecilia davanti al suo torso nudo. Nonostante avesse cercato di girarsi per non dargli l’impressione di fissarlo mentre si cambiava, il grande specchio sulla parete le aveva garantito una visuale perfetta, seppur di profilo, del fisico di Matteo. Finse di giocherellare con la collana che aveva al collo, ma il tempo sembrava trascorrere a rallentatore da quando erano entrati in quella stanza. Pur di dire qualcosa, decise di sbilanciarsi e tirare fuori l’argomento scottante.
- Possiamo parlare un attimo? – si pentì di averlo detto non appena Matteo, che perlomeno si era rivestito totalmente, la guardò quasi con disprezzo, avanzando verso la porta dalla quale erano entrati. Che cosa mai gli aveva fatto di male per meritarsi di essere trattata così, indegna persino di una risposta? Quella domanda fu un’iniezione di fiducia, che la spinse a frapporsi, con il poco di coraggio di cui ogni agnellino è dotato, tra Maestri e l’uscita. Il ragazzo parve sorpreso e infastidito, ma non fece nulla per scapparle. Anzi, incrociò le braccia al petto, dando tutta l’impressione di essere pronto ad ascoltarla.
- Che c’è? – la esortò, notando che esitava.
- L-Lisa… – biascicò,  le parole sembravano sfuggirle, scivolose come sapone tra le mani. E gli occhi severi di Matteo non facevano altro che fermare ed alimentare la volontà di farle uscire. – Perché Lisa?
Il ragazzo non rispose. Nella sua testa si stavano affollando così tanti pensieri, dubbi, domande, accuse, parolacce che avrebbe urlato per mezzora a squarciagola e preso a pugni lo specchio, la panca, qualsiasi oggetto nel raggio di due metri. Perché lei non poteva avergli appena chiesto quello, non poteva avergli chiesto il motivo per cui lui avesse scelto Lisa. Non poteva, non ne aveva diritto.
- Dici sul serio? Perché Lisa? – ripeté, quasi incredulo, lasciandola di stucco. Aveva alzato la voce, era avanzato di un paio di passi e ora la stava sovrastando fisicamente e psicologicamente. Lei indietreggiò d’istinto, come se mettere un po’ di distanza tra loro potesse aiutarla a schivare il tono duro ed inflessibile di lui. Si trovò con le spalle contro lo specchio, senza via d’uscita, ma fu lo stesso Matteo a spostarsi di lato. Si era reso conto di aver esagerato: non intendeva spaventarla, quello era soltanto il modo in cui era abituato ad affrontare i problemi nello spogliatoio, dove prevaleva la voce grossa e i muscoli più forti. Da tempo si era arreso all’evidenza che non sapeva trattare con le donne, figurarsi se sapeva destreggiarsi con una situazione intricata come quella in cui si era cacciato.
Cecilia lo guardò e nel suo viso lesse solo stanchezza. E non capì. Ma qualcosa le era scattato dentro, voleva sapere tutto ciò che le stava sfuggendo ed era pronta a sacrificare la propria innata umana compassione verso il prossimo, pur di venire a capo di quel groviglio spinoso che lui stesso aveva creato.
Afferrò il ragazzo per un braccio, riscuotendolo dal torpore in cui sembrava fluttuare.
- Perché questa uscita, perché lei? – stavolta lo ripeté in modo più dolce, per non risvegliare l’aggressività di Maestri, ora apparentemente domata. Non riuscì a pronunciare le ultime tre parole che aveva pensato: …e non me? Per quanto quel momento tra loro fosse intimo e privato, non volle sbilanciarsi. Sentiva di essersi già esposta abbastanza e non immaginava come lui avrebbe reagito ad una richiesta così diretta. Continuarono a comunicare con gli occhi e con i gesti, più che a voce. Matteo si lasciò avvicinare, stordito dalla disarmante delicatezza con cui lei si stava facendo avanti verso di lui. Avrebbe voluto allontanarla, mandarla al diavolo per l’ennesima volta, afferrarla per le spalle e scuoterla finché non gli avesse detto che cavolo di problema avessero lei e Mannino, perché il loro stupido gioco si stava spingendo troppo oltre: l’avevano ferito, umiliato, indotto a ripagarli con la stessa moneta e lui non era quel genere di persona, non lo era mai stato e mai avrebbe voluto esserlo. Ma le gambe gli si erano irrigidite al punto che non riusciva a fare un passo indietro da lei, da quegli occhioni azzurri lucidi che, dannazione, avrebbe giurato fossero sinceri. Poteva un essere così piccolo avere la capacità di mandarlo totalmente in cortocircuito?
Si osservarono, due guerrieri indecisi tra il combattersi a vicenda per il proprio orgoglio e lo sventolare bandiera bianca per qualcosa di più grande, ma potenzialmente molto più temibile della sconfitta.
Matteo inclinò piano la sua testa verso quella di Cecilia e lei si lasciò trascinare dal braccio di lui, che la spingeva verso di sé. Ansimarono entrambi per qualche secondo, come se stare così vicini – ma per certi versi così lontani – costasse fatica fisica, oltre che mentale. Labbra vicine, socchiuse, respiro corto e affannoso. Di nuovo la sensazione di aver fatto un allenamento spossante al campo da calcio, pur non avendolo fatto. O stava diventando ipocondriaco o c’era qualcosa in Cecilia che lo disturbava profondamente: forse era una reazione allergica al suo profumo, al suo deodorante, o magari addirittura a lei! Eppure no, non ce la faceva a spostarsi, non poteva, stava lì a boccheggiare, dimentico di            quanto male gli avesse fatto. Voleva solo un bacio, era sicuro che poi si sarebbe sentito meglio, le cose si sarebbero sistemate come d’incanto.
La biondina gli fissò le labbra con il suo stesso identico desiderio e decise di osare. Per una volta l’agnellino si sarebbe comportato da cacciatore, invece che da preda. Si sollevò sulle punte dei piedi per raggiungere l’altezza di Matteo, in una manciata di secondi che a lui parvero eterni. Lei gli sfiorò una guancia con le dita sottili, cercando nei suoi occhi un silenzioso consenso che non tardò ad arrivare. Lo volevano entrambi.
Si erano giusto sfiorati, quando sentirono un rumore secco, che li fece scattare immediatamente l’uno lontano dall’altra.
- Oh, caz… ops! Merda, scusate! – Era Davide, il collega di Matteo che li aveva serviti circa venti minuti prima al bancone, vistosamente più rosso in viso per via dell’imbarazzo, ma quella condizione pareva essere molto gettonata in quel momento nello spogliatoio. – Non pensavo ci fosse qualcuno qui dentro. Giuro che mi cambio e sparisco!
Ma l’atmosfera di distensione se n’era andata nell’istante esatto in cui Davide aveva abbassato la maniglia della porta, aprendo virtualmente la stanza di nuovo sulla realtà, e cioè che Cecilia era impegnata con quel deficiente – sì, dal verbo latino deficere, perché era palese che il soggetto mancasse di intelligenza, dignità e di attributi – e lui, Matteo, aveva un appuntamento con un’altra, che lo stava aspettando.
- Non c’è problema, sono rimasto qui dentro anche troppo, – grugnì, lanciando un’occhiataccia a Cecilia, prima di superare Davide e uscire.
Il disprezzo era tornato, insieme alla freddezza e al distacco che lui non riusciva mai a nasconderle quando le parlava e che, in verità, non le appariva mai davvero intenzionato a celare.
La ragazza sorrise all’unico ragazzo rimasto nella stanza e poi lasciò a sua volta lo spogliatoio, sentendo gli occhi inumidirsi. Dopo aver richiuso la porta alle sue spalle, camminò veloce fino al bagno, di Matteo ormai non c’era più traccia. Per fortuna la coda si era smaltita e lei non dovette attendere che pochi minuti per poter entrare alla toilette. Si guardò allo specchio e si lavò la faccia, non le importava che il poco mascara che indossava le colasse sulle guance. Voleva togliersi il rossore intenso dell’imbarazzo, del disagio e quello più intenso della foga, del desiderio. E di certo non si sentiva meglio nei confronti di Lisa per essersi gettata nelle braccia del ragazzo con cui lei doveva uscire… maledetta festa di Franzoni!
Ritardò il più possibile il ritorno al tavolo, ma il momento critico fu inevitabile. Erano ancora tutti seduti e nulla era cambiato; Lisa che guardava in tralice Mannino, Mannino che guardava in tralice Maestri e Maestri che se avesse potuto sarebbe diventato cieco, pur di non sopportare la vista fastidiosa di Niccolò e quella dettata dai sensi di colpa rivolta alla Zanin. Cecilia si domandò perché fossero ancora lì, perché non se ne fossero ancora andati. Ci provava gusto a farla soffrire, a mostrarle che l’aveva illusa per una sera? Lei era come tutte le altre, niente di speciale.
- Ehi, Pesciolino, finalmente!
Mannino le fece l’occhiolino e approfittò dell’assenza di Carlo per farla accomodare accanto a sé. La ragazza seguì meccanica il suo invito, davvero non le importava il posto a sedere. Anzi, paradossalmente, il suo ex era la persona vicino alla quale meno si sarebbe sentita a disagio. Infatti, neanche Gianluca sembrava una spalla fidata, distratto com’era dalla ciotola di tortillas che aveva davanti.
- Andiamo a fare un giro?
La voce concitata di Matteo pose fine al silenzio e rese ancor più tesa la situazione. Ad eccezione di Lamberti, ora i quattro avevano tutti una ragione per odiare almeno un’altra persona seduta a quel tavolo.
Lisa venne presa in contropiede, ma il suo sorriso fece intuire ai presenti che era ben lieta di trascorrere del tempo con Maestri. Maledisse per l’ultima volta – in quella serata, chiaramente – quello sciagurato di Mannino e si alzò da tavolo, lanciando una raccomandazione virtuale a Cecilia.
Fai in modo che non ti sfiori nemmeno con un bastone per la pentolaccia o quello che finirà per essere preso a mazzate sarà lui.
Matteo si alzò, le afferrò la borsa e gliela porse. Cecilia si scoprì irritata da ogni minimo cenno di riguardo che il ragazzo aveva nei confronti della propria amica e sentì la necessità di pareggiare i conti.
- T-ti scoccia darmi un passaggio, Niccolò? – Ecco: la frittata era fatta. Ora ci sarebbe stata la fila per decidere chi l’avrebbe ammazzata: Lisa era senza dubbio in pole position, ma non si poteva dire che gli occhi di Matteo o di Gianluca fossero più comprensivi. L’unico che stava sghignazzando sotto i baffi era Mannino, che già pregustava il sapore delicato del suo agnellino sotto ai denti. E alle mani.
- Sono qui apposta, pesciolino.
Niccolò bevve avidamente l’ultimo sorso di Long Island dal suo bicchiere e lo fece sbattere di nuovo sulla superficie grezza del tavolo, cercando lo sguardo di Maestri. Era stato fin troppo facile, non dubitava che presto si sarebbe trovato – di nuovo – tra le lenzuola di Cecilia. E chissenefrega se si era dovuto avvalere di qualche piccolo mezzuccio alternativo fuori programma, tutto si era rivelato dannatamente semplice e ancora una volta avrebbe ottenuto quel che voleva.
Matteo, quindi, capì di dover rilanciare: prese la mano di Lisa e l’aiutò a districarsi tra il percorso disseminato di sedie attorno al tavolo, sulla via dell’uscita.
- Ci vediamo in facoltà, Ce’. Non fare cose di cui ti potresti pentire con persone poco raccomandabili che non meritano le tue attenzioni, perché sono degli sporchi bugiardi traditori che amano far espatriare il loro minuscolo pisellino verso mutandine femminili altrui. Ripetutamente. Ogni riferimento ai presenti non è da ritenersi casuale.
Mannino fece spallucce e aiutò un’imbarazzata Cecilia a indossare la giacca di pelle. La biondina e Maestri si scambiarono solo un’occhiata frettolosa, poi si lasciarono trascinare dai rispetti compagni. Sfortuna volle che i due ragazzi avessero parcheggiato a qualche auto di distanza, perciò dovettero fare il breve tragitto insieme, anche se Matteo faceva di tutto per evitare Niccolò, il quale, al contrario suo, trovava particolarmente divertente passeggiare al fianco della Molinari, speranzoso d’incontrare qualche amico con cui sfoggiarla subito. Esattamente come Marina, forse non era un caso se a sua madre Mannino era sempre piaciuto: erano uguali.
E mentre salivano in macchina, augurandosi con finta cordialità una buona serata, Matteo non poté fare a meno di restare per qualche secondo in più a fissare Cecilia, pronta ad allacciarsi la cintura di sicurezza sull’auto dell’altro. Magari era destino che andasse così, non c’erano né il tempo né lo spazio per loro. Perché semplicemente lei non era la dama blu che aveva conosciuto da Franzoni e che forse era esistita solo nella sua testa. Sarebbe uscito con Lisa e avrebbe imparato a dimenticare Cecilia, ad odiare lei e quel suo atteggiamento arrogante di chi è disposto a tutto pur di avere ciò che desidera; si meritava di stare con Mannino punto e basta.
Doveva a Davide un grosso favore.
 
Soltanto quando se ne furono andati tutti e quattro, Gianluca si riscosse dallo stato di apatia totale da tortillas. Il piatto vuoto, le sedie altrettanto vuote, cominciò a far lavorare i pochi neuroni rimasti funzionanti: Cecilia era uscita con Niccolò, Lisa con Matteo.
Eppure…
Si alzò in piedi, dimenticandosi di essere rimasto solo al tavolo e di avere la bocca ancora piena di briciole di patatine.
- Ma se Maestri aveva baciato Ceci da Franzoni… perché cazzo esce con la Zanin, allora? – continuò a borbottare.
Purtroppo non c’erano più spettatori pronti ad ascoltarlo e il quesito sollevato dalla sua domanda era destinato ad assumere la medesima rilevanza di un anticoncezionale di fronte ad una donna incinta: inutile e tardivo.
Lamberti alzò le spalle e si avventò sulla ciotola di patatine lasciata incautamente incustodita dai loro vicini di tavolo. Che ci pensassero gli altri a sistemare le cose; per come vedeva lui la situazione, nemmeno una magia avrebbe potuto sistemare le cose.
Forse.
 

  
  
Sono un caso disperato, lo sapete. Ma tra esami, lavoro e vacanze, non ho mai tempo! 
Sono di fretta, perciò questo è quanto. 
Grazie delle letture e delle recensioni, a cui ho già risposto! 
Un bacione, 
S.

   
 
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