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Autore: Alopix    17/08/2012    3 recensioni
Cato e Clove.
Due Favoriti, i tributi più odiati da quelli degli altri distretti, ma idolatrati e portati in gloria a casa, nel loro.
Ma com'è la vita di un Tributo Favorito, aldilà della gloria e dell'onore?
Enjoy :)
(Sì, le mie introduzioni sono sempre spettacolari, eh)
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Cato, Clove
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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THE RULER AND THE KILLER

"Should I kill you with my sword?
Or should I kill you with this words?" *[N.d.A





Capitolo Due


Il rumore dello sbattere della porta d’ingresso mi sveglia.
Non ho passato una bella notte. Vedere mio padre schiaffeggiare mamma mi ha turbato più di quello che vorrei.
Mi preparo alla svelta e mi dirigo in cucina.
…Che non è vuota.
C’è mamma, da sola, seduta su una sedia, i gomiti appoggiati sul tavolo e la testa fra le mani. A quanto pare non hanno ancora fatto pace.
Vedere mamma in questo stato, ferita e debole come non mai, mi fa star male, mi fa sentire in colpa. Mai mi sarei sognata di poter provare compassione per mia madre.
 Non posso permettere a emozioni come queste di fare strada dentro di me: diventerebbero debolezze.
Debolezze che nell’arena mi porterebbero a morte certa.                                                                                      
 Debolezze che non posso e non permetterò che nascano.
Non posso peredere la mia risoluzione.
Quindi, sostituisco mentalmente l’immagine delle lacrime di mia madre con quella della rabbia di mio padre.
E’ questo quello su cui ho bisogno di focalizzarmi.
Ecco l’unico sentimento che posso provare: rabbia.
Tutti gli altri sono dei pericoli. Me li potrò permettere solo quando sarò un vincitore, se vorrò.
Questa è la donna che vuole che io non sia addestrata!,ricordo a me stessa
 Che non partecipi ai Giochi!                                                   
Fortunatamente, funziona.
Inizio a sentire da capo il risentimento verso mia madre.
Mi sento istantaneamente meglio. Meno vulnerabile, più potente. Non permetterò a niente e a nessuno, nessuno, di contrapporsi fra me e gli Hunger Games. Non a mia madre, a Hugo e nemmeno a Cato.             
Io parteciperò, io vincerò.
Più fiduciosa e baldanzosa di prima esco di casa senza dare segno di averla notata e mi dirigo verso scuola.
I miei studi vanno avanti monotonamente, soprattutto perché sono fermamente convinta che niente di quello che imparerò qui mi servirà mai. Se non è qualcosa che mi potrebbe essere utile nell’arena non vale la pena che sia imparata. Una volta che avrò vinto gli Hunger Games la mia cultura generale sarà l’ultima cosa che interesserà a tutti. Faccio a mala pena caso a quello che i professori dicono, quel tanto che basta a permettermi di superare l’anno.
Non m’interessano i voti.
Non sono questi i risultati che valgono. Non veramente.
Appena suona la campanella, mi dirigo a passo serrato verso la palestra dove mi alleno tutti i giorni, dall’altra parte della città. E’ una bella camminata, quasi un miglio di strada, ma riesco a raggiungere il centro in un quarto d’ora. Come sempre.
… ma Cato mi ha battuta di nuovo.
E’già fuori dall’edificio, sta discutendo con Hugo.
Come diavolo ci è riuscito?
Ho lasciato la scuola appena ho potuto e so che non mi ha superata, o l’avrei notato.
Poi la vedo. Una lucida macchina nera che si allontana, sollevando polvere.
E allora capisco.
Ha avuto un passaggio da suo padre. In macchina.
Mi verrebbe quasi da ridere, se non fossi così arrabbiata.
Non è assolutamente possibile che non stia pagando per essere qui. Suo padre non può credere veramente nel duro lavoro se lo accompagna in palestra in auto ogni giorno. 
Il mio viso si riempie di collera, lo capisco dall’espressione compiaciuta che si stampa sul viso di Cato quando mi nota.
Detesto quel ghigno, penso.
Inizio ad avvicinarmi ai due, sempre guardando velenosamente il mio contendente.
Non è solo un cretino ricco, è un cretino ricco, arrogante e convinto di sé.
Mentre entriamo nell’edificio con Hugo mi ritrovo a pianificare mille modi diversi per sabotarlo e riottenere, così, lezioni private.
 Ognuno più doloroso e insanguinato dell’altro.                                                 
  ,mi domando.                                                                
 Forse sì.
Infondo, ho passato tutta la vita ad allenarmi per uccidere.
“Lance”. La voce di Hugo interrompe i miei pensieri. “Abbiamo lavorato con i coltelli tutto il pomeriggio di ieri. Oggi praticheremo l’arte delle lance, che sarà un bene per te, Clove, visto che non ti ho mai visto prenderne una in mano”.
Eccellente!,penso sarcastica.
Ci mancava anche questa.
Più grosso sei, più ti facile maneggiare una lancia. E la massa corporea non è esattamente quello di cui ho più in abbondanza. Al contrario di Cato.
Sconfortata presto attenzione alla spiegazione di Hugo. Afferra una lancia soppesandola e facendo lentamente ciascuna delle sue mosse in maniera tale da non farci perdere neanche un passaggio- malgrado non ci sia granché da capire.
Prendi un’arma, mantieni l’equilibrio, prendi la mira e la tiri verso il bersaglio.
Il concetto è semplice. Solo che Hugo tende spesso e volentieri a trattare chiunque come un’idiota.
Me più di tutti. Anche se non ho alcuna idea del perché. Infondo mi ha scelta lui…
La pratica, invece, risulta alquanto complicata.
Per me, almeno.
Cato se la sta cavando egregiamente.
 penso stizzita.
 Riesce ha colpire il centro del bersaglio anche da venti-venticinque metri di distanza. 
Io sono fortunata se lo colpisco da dieci.
Le sue risate e le sue battute a mio discapito non aiutano di certo la mia iniziazione a questa nuova arma.
Questo esercizio va avanti per un’ora -un’estenuante, lunghissima ora-, alla fine della quale il mio braccio destro trema nel brandire la lancia da tirare verso il bersaglio.
Me la sto cavando abbastanza solo perché ho una buona mira. Altrimenti…
Mi concentro sull’arma che ho in mano, tentando di escludere dalla mia mente la fatica che questo sforzo mi costa.
Cato, poco lontano da me, alla mia destra, ghigna arrogantemente alla vista dei miei patetici sforzi.
Come ha fatto finora. Dall’inizio dell’allenamento.
 Ma adesso è troppo. Ho sopportato la sua arroganza e le sue prese in giro per abbastanza tempo.
In un unico fluido gesto mi giro verso di lui lanciandogli contro l’arma, aiutata dall’improvvisa scarica di adrenalina che mi ha rinvigorito i muscoli.
Manco il bersaglio, la sua testa, solo di qualche centimetro e la lancia si va a conficcare nella parete dietro di lui. Lui rimane fermo, immobilizzato dallo stupore per il mio gesto repentino.  Mi guarda stupito ma io sono già scattata per compiere la mia prossima mossa.
Mi allontano alla ricerca dei coltelli e gli ho appena raggiunti quando sento dei passi dietro di me e so che Cato si è ripreso, e che esige una vendetta.
Bene.
E’ quello su cui contavo. Mi giro e non gli do il tempo di raggiungermi.
Gli tiro contro un coltello alla mano sinistra, come avvertimento. Lui urla, di dolore e di collera.
Mi guarda, il viso contorto dalla rabbia, che però lascia spazio a un piacere sadico, quando vede che gli sto correndo contro, brandendo un altro coltello. Lui fa per agguantare una delle spade smussate- ma sempre pericolose- lì vicino.
Ma sono sopra di lui prima ancora che riesca prenderla.
Con la coda dell’occhio vedo Hugo appoggiato alla parete, intento a osservarci. Forse il suo comportamento di ieri era dovuto solo alla presenza del padre di Cato.
Bé, ora non c’è nessun paparino in giro per proteggerlo., penso ghignando.
Estraggo il mio coltello dalla sua mano e sorrido nel vedere la sua espressione contrita.
Gli faccio un taglio identico al mio sulla fronte, ma lui, almeno per questo, non mostra alcun segno di dolore.
Ha ripreso a ghignare.
Ma a questo gioco si può giocare anche in due, penso sarcastica, in preda al bisogno di vendicarmi.
Per l’umiliazione a cui mi ha sottoposto nell’ultima ora.
Per la sua arroganza.
Per il fatto di essere qui, a compromettere il mio allenamento.
Continuo a incidere la sua pelle, sul petto, sulle braccia, lentamente, contemplando dove fare il prossimo taglio.
Lui continua a sorridere, imperterrito.
Ed è così che realizzo che non mi piace poi così tanto questo gioco.
E’ noioso.
Non dà frutti…
Quindi impugno il coltello e glielo pianto nel fianco. Cato ruggisce di dolore ed io mi riempio di piacere al suono della sua agonia.
 Estraggo l’arma e lo guardo compiaciuta, ma quest’ attimo di orgoglio mi costa caro. Prima ancora che me ne rendi conto, le nostre posizioni sono invertite. Il viso di lui non è più composto e freddo come lo era stato ieri.
E’ pieno di furia. Sembra stia pianificando il modo migliore per rompermi il cranio.
Improvvisamente, sono spaventata. Potrebbe uccidermi in un soffio.
Se non faccio qualcosa alla svelta, finirò per morire.
 Non entrerò mai nell’arena.
Non sarò mai un vincitore.
Questo pensiero mi riempie di una nuova scarica di adrenalina e di energia e concentro tutta la mia forza in un violento sforzo per togliermi Cato di dosso. In qualche modo, gli faccio perdere l’equilibrio e lui ruzzola sul pavimento vicino a me.
…che si sta velocemente macchiando di sangue.
Sto per colpirlo da capo, quando qualcosa mi volare il coltello di mano e vengo scaraventata parecchi metri lontana dalla mia vittima. Hugo-l’artefice-, ora, sta rivolgendo la sua attenzione al biondo, che si è alzato per attaccarmi.
Lottano.
Hugo per fermarlo, Cato per liberarsi e venire a finirmi.
Raggiungo un altro coltello, approfittando del momento, e inizio a farmi strada verso i due combattenti. Proprio quando gli raggiungo, il nostro trainer, in qualche modo, riesce a far calmare Cato e si gira, quindi, verso di me con uno sguardo infastidito.
Bé, in realtà “infastidito” è un eufemismo.
 Mi prende in spalla, ignorando le mie proteste, e mi trascina su una panca lontana il più possibile dal mio rivale.
Ma appena Hugo mi lascia, scatto, pronta a ripartire all’attacco.
Lui riesce a riacchiapparmi.
“Clove, siediti, maledizione!”, mi urla contro. Mi mette le mani sulle spalle, cercando di farmi calmare.
“E cosa credevi di fare, comunque?”, mi chiede, una volta riuscito nel suo intento.
Lo ignoro e fulmino Cato con lo sguardo, pianificando il modo migliore per far sì che non esca vivo di qui. Lui, dall’altro lato della stanza, mi fissa con lo stesso ,identico, sguardo furente.          
Hugo alza gli occhi al cielo e lascia la presa.
“Bene!”, grida. Inizia a muoversi per la stanza, raccogliendo ogni arma.
“Fate quello che volete!”, continua. “Cavatevi gli occhi con le unghie! Strappatevi i cuori con le mani! Basta che mi chiamiate quando rimarrà solo uno di voi ancora in grado di respirare!”, ci guarda in cagnesco, a turno, al disopra della montagna d’armi che li si è formata fra le braccia.
Lo guardiamo andarsene, entrambi stupiti dalla sua sfuriata.
Appena la porta si richiude, sbattendo rumorosamente, dietro il nostro trainer, però, torniamo a fulminarci.
Non so proprio cosa fare.
Vorrei veramente ucciderlo, ma non mi convince l’idea di doverlo fare con le unghie.
Certo, aspettando un po’ dovrebbe morire per emorragia
E forse non sarebbe neanche una grande idea.
Mettersi contro un pezzo grosso del Distretto come suo padre non porterebbe a niente di buono.
Senza contare che è anche il capo di mio padre…
Abbandono l’idea praticamente nello stesso momento in cui lo fa lui.
Infatti, smette di guardarmi e inizia ad esaminarsi le ferite.
Si toglie la maglia di dosso- riaprendo così il poco della ferita che aveva cominciato a rimarginarsi-, la strappa per formare delle bende e usa queste per tamponare il flusso di sangue.
Non funziona, è un taglio troppo profondo.
Ghigno soddisfatta.
Così impara con chi ha a che fare…
Ma il mio sorriso svanisce istantaneamente quando vedo che si sta togliendo anche i pantaloni e che gli usa per portare a termine il lavoro della maglietta. 
Sono contrariata dal fatto che ha trovato un modo per smettere di sanguinare, ma mi sento anche a disagio a stare da sola con un ragazzo grosso il mio doppio che indossa solo un paio di mutande.
Avrei preferito avere una spada puntata alla gola a questo.
Almeno avrei saputo come affrontarla.
In più, i miei occhi sembrano non volere staccarsi dalla sua figura, nonostante mi stia sforzando di non fissarlo.
Ha un fisico perfetto.
 E’stressante come situazione.
Sarei capace di attaccarlo solo per poterne uscire con un minimo di dignità.
Dopo qualche momento, i suoi occhi incontrano i miei.
“Ti piace quello che vedi, eh?”, mi prende in giro, ghignando soddisfatto.
Ma non può nascondere la fatica nella sua voce. Ha perso troppo sangue.
Io alzo gli occhi al cielo e mi volto, l’unico modo che ho per non fissarlo.
“Che domande faccio, certo che si”. Riesco a sentire il ghigno nella sua voce. “Hai rinunciato al pensiero di pugnalarmi a morte?”, continua.
“Non mi pare di avere coltelli.”,gli ringhio contro .
“Ma se ne hai uno e me lo vuoi prestare fa pure, non mi offendo”. Gli lancio un’occhiataccia.
Piccolo idiota…
Tutto questo rischia di farmi diventare pazza, anche se faccio di tutto per mascherare le mie emozioni.
Come al solito.
Perché Hugo non torna indietro?
Cato sta combinando un casino. Il pavimento è praticamente ricoperto di sangue.
Cammino verso la porta e la scopro chiusa a chiave.
 Fantastico.
“Hugo!”, urlo prendendo a pugni la porta. Dovrà pur darmi attenzione.
E’ il nostro allenatore, per la miseria! E’ una sua responsabilità!
“C’è una pozza di sangue che ha bisogno della tua attenzione!”, continuo.
“C’è un cadavere dentro?”, risponde la sua voce dall’altra parte.
O forse no…
“Sì”, mento.
“Bugiarda”.Sento i suoi passi allontanarsi. Maledizione!
“Hugo! Non puoi semplicemente lasciarci qui!”, urlo.
“L’ho appena fatto”, mi risponde la sua voce, sempre più distante.
Riesco quasi a vederlo, il ghigno sul suo volto.
 Ricomincio a martellare la porta di pugni e a gridare il suo nome.
Non può lasciarci qui, non può proprio.
“Già finito?”, la sua voce mi raggiunge di nuovo. Più vicina.
Tiro un sospiro di sollievo.
“Sì”, replico.
“Stai mentendo di nuovo, Clove”.  Sono a faccia a faccia con lui ora. I suoi grandi occhi grigi mi fissano intensamente per un momento, rivelando un Hugo più calmo di quanto mi aspettassi.
Lui si dirige alla svelta dal ferito.
Allora era preoccupato!
Ci stava mettendo alla prova!,realizzo in un lampo.
Fisso la scena.
Mi stupisce che Cato sia ancora in piedi. Ha perso veramente molto sangue.
Fin troppo.
Ghigno:  almeno una piccola vittoria l’ho ottenuta.
 “Vai a casa”, ordina Hugo, non degnandomi di uno sguardo.
“Va bene”, rispondo atona, pur non lasciandomi sfuggire il sorriso dal viso.
 Mi volto verso la porta e faccio per uscire ma, prima di farlo, mi giro un’ultima volta, avvertendo uno sguardo sulla schiena.
Cato mi sta guardando furente. E può significare un’unica cosa.
Non finisce qui.
 
 
 
 
 
 
 
N.d.A.
*“Dovrei ucciderti con la mia spada?
O dovrei farlo con le queste parole?”

 
Si, ovviamente in italiano non rende ._.
 
EDIT (29/3/13): Ho corretto anche questo capitolo! Finalmente.
Sono un danno, lo so, sì.
Fatemi sapere cosa ne pensate :3
A.
   
 
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